"Troppi soldi tra i dilettanti"

"Troppi soldi tra i dilettanti"
Pubblicato:
Aggiornato:

Non ha più i capelli lunghi e la barba fitta, ma Paolo Sollier continua a regalare interessanti momenti di dibattito come quando era un calciatore militante. Mai banale, né scontato, Sollier lunedì sera ha intrattenuto l’auditorio di Vergnasco in una serata organizzata dall’associazione Territorio e Ambiente. «Sei il mito della nostra giovinezza» gli dice una signora ancora sull’uscio della sala. Lui minimizza, con un sorriso. Parla di calcio Sollier, oggi allenatore dell’Oleggio in Eccellenza, retrocesso in Promozione al termine di una stagione sfortunata che non ha lasciato molto spazio alla fantasia. Il calcio di ieri e il calcio di oggi, quello dei professionisti di un’altra epoca e dei dilettanti spesso strapagati. Il calciatore e il militante politico, l’allenatore e l’uomo di cultura, lo scrittore (lo spunto della serata nasceva dal libro/intervista scritto da Paolo La Bua, “Spogliatoio”), Sollier è tante cose insieme.
 
Un’opinione su tutto, ben chiara, a cominciare dal calcio giovanile: «Attraverso il gioco si impara nella vita. Per questo credo che per i bambini sia importante giocare». Racconta, con un taglio sociologico, i giorni nei quali la Juventus festeggiava uno Scudetto, la partita del maggio  1976 del suo Perugia contro i bianconeri. Era l’ultimo turno di campionato, il Perugia vince 1-0, lo Scudetto allora andò al Toro: «In campo si respirava un’atmosfera strana, c’era tensione. E in quei momenti anche i grandi campioni perdono le staffe e possono incappare in crisi isteriche. Mi chiedevano un rigore (un calciatore che poi fu grande protagonista nel Mondiale del 1982, ndr), perché la Juve non poteva perdere. Non successe».

E poi sul calcio di oggi, che osserva da allenatore nei dilettanti. La crisi, la mancanza di sponsor, i rimedi: «Non ho mai capito perché anche nei dilettanti non si facciano rispettare certe regole fiscali. Sento anch’io di giocatori pagati 3000 euro al mese in Eccellenza o Promozione. E lo trovo assurdo, perché a quelle cifre non si può più parlare di dilettantismo, diventa un lavoro bello e buono. E questo, per estensione, non solo nel calcio, ma in tutti gli sport».

Nativo di Chiomonte, è stato lanciato dalla Cossatese e a Cossato ha terminato la carriera dopo essere passato dalla Serie B e dalla Serie A: «Mi piace ricordare che sono fra i pochi ad aver fatto tutte le categorie a salire e poi a scendere. Un’esperienza formativa, perché ti insegna a dare la giusta importanza alle varie fasi della vita». E’ legato al Biellese, e ci torna volentieri. Ci scherza su se gli si fa notare che qui è ben voluto: «Quando allenavo la Pro e venivo a Biella non la pensavano tutti in questo modo». E di pensare di allenare nel Biellese non dice no a priori: «Vedremo che cosa succede, non si può mai dire. Certo che quando sono tornato a giocare al La Marmora e l’ho visto semi deserto mi ha fatto una certa impressione nel paragonarlo allo stadio dei miei ricordi».
Calciatore e allenatore. Un bilancio finale delle carriere? «Soddisfatto da calciatore. Da allenatore devo ancora capirlo».

Seguici sui nostri canali