«Biella è casa mia. Questa è la mia realtà, sono cresciuto qui e sono consapevole di tutto il lavoro che devo continuare a fare. Se per quattro partite il coach deciderà di non impiegarmi, andrà bene lo stesso. Devo lavorare per farmi trovare pronto e dare tutto l'aiuto possibile alla squadra. In futuro si vedrà». Tommaso Raspino (nella foto con coach Bechi) ce l'ha fatta. Ben inteso, la strada è ancora molto lunga e costellata di ostacoli, di tanto lavoro, sicuramente molte delusioni e, perchè no, di una buona dose di fortuna, sempre necessaria e corroborante nella vita e in un sistema sportivo e umano su cui Pallacanestro Biella, nell'ultimo decennio e nel panorama nazionale, ha creduto e investito: i giovani, gli italiani. Raspino è il primo cestista biellese doc ad essersi conquistato un contratto da professionista, e a coronare il sogno di una vita, il suo sogno. Si tratta anche del primo e più importante segnale proveniente da un basket che sta cambiando e che inizia a premiare i giovani che solamente un decennio fa, nei vivai, non avrebbero avuto la stessa occasione. In passato a Biella sono arrivati i Flaborea o i Soragna, rimasti biellesi nel cuore. Ma sono esempi di "oriundi", importati da altre latitudini.
Tommaso a Biella ci è nato, suo padre ha giocato nella Bbc, e riceve fra le mani il suo primo pallone a spicchi a quattro anni, senza sapere bene che farsene. Nel dubbio, con quel pallone ci gioca, non pensa al futuro o alle aspettative e si diverte come tutti i bambini, iniziando ad amare la disciplina. «Non è facile da piccoli capire quale può essere lo sport giusto. In quegli anni giocavo a basket e a calcio, ma presto ho capito che il basket stava diventando una passione». Si consumano così gli anni più ludici di Cossato, dove il gioco prevale sul sistema agonistico, poi il salto a Biella. Il più giovane del gruppo, tredici anni, scuola al mattino e allenamenti tutti i giorni, al pomeriggio; un impegno diverso ma un obiettivo che inizia a diventare ben chiaro: trasformare una passione in professione.
Sono anni belli e allo stesso tempo impegnativi. «La mia famiglia ha contribuito in modo essenziale. Mi portavano avanti e indietro, tutti i giorni. Senza di loro non ce l'avrei fatta». Spiega riconoscente.
A sedici anni l'ennesimo giro di boa, gli allenamenti con la prima squadra, a far numero in caso di necessità. Qualche panchina nelle ultime due stagioni, anche qualche secondo in campo. Intanto esperienza in C2, con la juniores, con la nazionale giovanile e finalmente la chiamata da Pro, la sua chance.
Sino a domenica, tanto lavoro in palestra e i primi convincenti minuti in campo, in momenti non sempre cruciali, ma necessari per tastare l'ambiente e la nuova condizione.
Intanto, complimenti.
Fabrizio Ceria
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08 gennaio 2009 |