L'ex ct dell'Italia Claudio Ravetto commenta l'addio: "Un po' ero stanco... un po' mi hanno fatto fuori"

L'ex ct dell'Italia Claudio Ravetto commenta l'addio: "Un po' ero stanco... un po' mi hanno fatto fuori"
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La Nazionale di sci alpino è ormai alle spalle per Claudio Ravetto: «Un’avventura finita un po’ perché ero stanco un po’ perché... mi hanno fatto fuori», ammette. Ora il futuro riserva  opportunità diverse, ma lo stesso obiettivo di sempre: far crescere lo sci azzurro, traghettarlo sempre più nel futuro di uno sport in continua evoluzione che ha bisogno di guide per non perdere la strada.
 
Come giudica la sua avventura da direttore tecnico della Nazionale?
«Nell’ultimo quadriennio olimpico abbiamo ottenuto risultati clamorosi, siamo stati uno degli sport maschili più vincenti in Italia. Dopo Vancouver 2010 abbiamo sempre centrato due medaglie ai grandi appuntamenti, fino alle Olimpiadi di quest’anno nelle quali Innerhofer ha fatto qualcosa di clamoroso nella prima parte della discesa libera, dove ha guidato come mai nessuno sciatore aveva fatto. Meritava l’oro, purtroppo è arrivato l’argento».

Eppure alla vigilia aveva rilasciato dichiarazioni dure nei confronti della sua squadra, dicendo che “se lo spirito  è questo, possiamo rimanere a casa”...
«Fa parte del mio ruolo, volevo stuzzicare gli atleti, pungolarli nell’orgoglio. Eravamo accusati di mancare gli appuntamenti importanti così ho cercato di alzare la tensione prima delle Olimpiadi».

Poi cos’è successo dopo? Si è rotto qualcosa nel suo rapporto con la Federazione?
«No, semplicemente avevamo visioni diverse di come gestire la Nazionale. Io ho presentato un progetto, ma la Federazione voleva mantenere la possibilità di nominare direttamente gli allenatori. Così abbiamo preso strade diverse. Il fatto è che dirigere una Nazionale di sci è più complesso che dirigere quella di calcio o di ciclismo».

In che senso?
«Negli altri sport ci sono i club che si occupano di seguire gli atleti durante l’anno. Li scoprono quando sono giovani, li fanno crescere, li allenano. Così il tecnico della Nazionale assume il ruolo di selezionatore. Nello sci invece i club non esistono, quindi il ruolo della Federazione comincia quando gli atleti hanno 16 o 17 anni e deve occuparsi anche dell’allenamento e della crescita degli sciatori, per questo serve un progetto organico».
 
Ruolo che comporta anche un enorme dispendio economico...
«Infatti non so fino a quando questo sistema sarà sostenibile. Già lo sci è uno sport costosissimo, in più oggi il budget a disposizione è sempre più risicato».
 
E in quanto ad atleti, come vede il futuro?
«I giovani sono di buona caratura. Ma dobbiamo anche pensare che finora siamo stati abituati bene. Lo sport di alto livello sta diventando sempre più competitivo. Sono venute fuori nazioni che fino a pochi anni fa non producevano nessuno sciatore importante. Insomma, non illudiamoci di ricostruire una Valanga Azzurra. Le valanghe non esistono più».

In questi anni da direttore tecnico qual è l’impronta più personale che ha lasciato sulla Nazionale?
«Il fatto di lavorare in gruppo e di insegnare delle idee precise per quanto riguarda la tecnica. E credo che i risultati si siano visti proprio nella prestazione di Innerhofer».

Ed ora che non è più direttore tecnico, come pensa di aiutare lo sci alpino?
 «Uno dei progetti sul tavolo riguarda l’insegnamento ai futuri allenatori nella Scuola Tecnici Federali, la Coverciano dello sci, per la quale ho già collaborato negli scorsi anni».

Quale sarà il suo primo insegnamento agli aspiranti allenatori?
«Che allenare è una vocazione. Io mi sono accorto già a 18 anni che riuscivo meglio nel far fare le cose agli altri, piuttosto che nel farle in prima persona».
  
Poco fa ha detto “uno dei progetti”... quindi ce ne sono altri?
«In effetti sì, mi piacerebbe scrivere un libro, un manuale tecnico sullo sci. Provate ad andare su Google e scrivere “come fare una schiacciata nella pallavolo”, vi usciranno una marea di risultati. Ma se scrivete “come impostare una curva in un supergigante” non troverete niente. Il nostro è un mondo dove non si scrive, forse perché le tecniche evolvono troppo rapidamente e ci sono poche certezze. Eppure qualcuno deve iniziare».
Matteo Lusiani

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