"Io, campione d'altri tempi"

"Io, campione d'altri tempi"
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E’ stato Smith e Carlos, ma dei canestri. Sì, quelli del “pugno nero” al cielo durante le Olimpiadi di Città del Messico, nel 1968. “Black panthers”, certo. Altri tempi, quando lo sport era (anche) politica. Mica solo nell’atletica, pure nel basket. Charlie Yelverton negli anni Settanta, prima di una partita, si sedette in panchina al suono dell’inno nazionale americano. Troppi morti nella guerra del Vietnam. Erano gli anni in cui Muhammad Ali  rinunciò alla fase d’oro della sua carriera da pugile, perché «nessun vietcong  mi ha mai impedito di entrare in un bar di soli bianchi o dato dello sporco negro». La futura stella di Varese rinunciò ad una carriera nell’Nba, accontentandosi dell’Italia, dove divenne un mito. «Troppi amici morivano in quella guerra, per non dire o fare niente, ragazzi più forti di me a giocare a basket» ha detto martedì al teatro Sociale, durante una serata organizzata dal Panathlon, la stella dei canestri. «Il mio gesto? Quando entrai in campo mi fischiarono e insultarono, dicendo che ero un comunista di merda. Poi iniziai a segnare un po’ di canestri e allora smisero… Ieri? Oggi? Tutto diverso - spiega Yelverton, classe 1948, residente in un paesino in provincia di Verbania  -. Adesso è troppo importante il business per pensare che un giocatore rischi qualcosa della propria vita e carriera. Contano solo i soldi. Per me e per tanti altri della mia generazione, no. Razzismo? C’è sempre stato. Gli idioti sono ovunque, in Italia e negli Usa. Ricordo che un anno eravamo alla stazione di Torino e feci una scommessa con i compagni di squadra di Varese, dicendo: mi travesto da facchino, volete vedere che nessuno si fa prendere le valigie da me? Indovinate come è andata a finire… L’elezione di Obama? Ai miei tempi era impensabile, ma non sono contento. E’ un nero ma viene dalla cricca di Chicago dei grandi studi di avvocati bianchi».

La serata. Il gigante nero ha parlato senza rancori, senza assumere mai il tono del predicatore. L’aria era di chi raccontava solo perché gli era stato chiesto, non perché volesse sputare fuori veleno. Forse proprio per questo, nonostante abbia detto cose che non a tutta la platea sono piaciute, s’è preso una bella dose di applausi.

Il personaggio. Giacca blu con i bottoni color oro da “capitano Findus”, camicia e cravatta improbabili, capelli brizzolati, Yelverton è apparso in ottima forma. Si vedeva che era stato un atleta, vero. Il tempo l’ha segnato, ma non sconfitto. Ha le spalle larghe e i movimenti sicuri. Sorridente, ha infilato qualche parolaccia tra una battuta e un ammiccamento da super star che sa recitare il copione, conquistando tutti: con i suoi ricordi e soprattutto con la sua simpatia. Nonostante un passato importante, non s’è mai dato delle arie. Anzi. Ha parlato della sua amicizia con K.A. Jabbar come se si trattasse di uno qualunque e non del giocatore che ha segnato più canestri nella storia dell’Nba. Con lui ha condiviso alcuni anni di carriera, partite a scacchi e la passione per la musica jazz. Ha rievocato partite e stagioni eroiche dell’Ignis Varese, che vinceva tutto in Italia e nel mondo, con leggerezza disarmante. E’ apparso insomma un uomo semplice, intelligente, ma sempre alla mano.

Ha detto. «Consigli per i giovani? Giocare nei campetti all’aperto. Io ho imparato lì.  Da adolescente pregavo tutte le notti di diventare più alto di mia sorella... E di giorno giocavo sempre - ha ricordato, in un ottimo italiano -. New York è la mia città, anche se ho girato il mondo. Lì sono cresciuto. Ho fatto il taxista. Ascoltato concerti a Central Park. E giocavo in tutti i campetti. Nell’attentato alle torri ho perso degli amici. Temevo anche per dei familiari... Quando vidi l’esplosione rimasi sconvolto e ancora oggi sono triste, se ci penso.  Forse per questo guardo spesso vecchi film, dove ci sono ancora le “Torri gemelle”. Il basket italiano? Ci sono troppi stranieri. Tre basterebbero».

Amici. Alla serata erano presenti anche Aldo Ossola, Massimo Lucarelli e Ottorino Flaborea, tutti e tre stelle di Varese, ma gli ultimi due pure campioni di casa Libertas Biella nel secolo scorso. Forse proprio nel loro rapporto si poteva cogliere la differenza dello sport tra passato e presente, fisico a parte. Questi uomini invecchiati, in qualche caso appesantiti, con un’età da pensione, mantengono nei loro sguardi una luce che sa d’acciaio. Tipica di chi ha vissuto qualcosa di eccezionale. Un po’ come i reduci. Qualcuno ha scritto: “Nel cuore di ogni uomo c’è un desiderio disperato di una battaglia da combattere, un’avventura da vivere e una bellezza da salvare”. Ecco, questi uomini sembrano aver trovato tutto ciò. E di averlo fatto insieme.

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