Quando nel 1908 due ricchi francesi volevano il lago
Tutte le volte che si avvicina una consultazione elettorale o referendaria di qualche tipo, mi sovvengono le parole caustiche di quel simpatico marpione di Mark Twain. Gli aforismi dell’autore delle Avventure di Tom Sawyer sono davvero notevoli, specialmente quelli sulle banche e sui banchieri, ma il tema di oggi, anzi di domani, non può che essere quello dei referendum. Ma per fortuna questa rubrica è esentata dal trattare il quesito d’attualità. Come al solito qui si riesumano vecchie vicende che, nella migliore delle ipotesi, fanno riflettere un po’ sui corsi e i ricorsi della Storia (soprattutto quella di queste contrade). E allora ecco un pro memoria su due vetuste chiamate alle urne. Il ritorno al passato ci condurrà dapprima a Viverone e poi a Candelo. Beh, non sarà avvincente come una trivella in alto mare, ma se non altro si tratta di questioni nostrane. Entrambe risalgono al 1908.
Nel marzo di quell’anno fu avanzata la classica proposta indecente: vendere il lago di Viverone a due ricchi signori francesi. I messieurs, dei quali è rimasta ignota l’identità (ma vere ricerche in questo senso si dovrebbero ancora effettuare), offrivano 50 mila lire dell’epoca, come a dire 200 mila Euro. L’offerta non era una boutade, tanto che il Comune di Viverone stava approntando le pratiche per allestire un vero e proprio referendum. Sarebbero stati i viveronesi a dover decidere se alienare il lago. Naturalmente il partito dei no si fece sentire a tutta voce, opponendo il cuore al denaro (che poi non era neppure così tanto). Nulla di nuovo sotto il sole: da un lato il capriccio o il profitto, dall’altro l’ambiente e il paesaggio, da un lato lo sviluppo economico e il benessere diffuso, dall’altro la resistenza al cambiamento che, Pistoletto docet, è comunque inevitabile. Da un lato la ragion di stato, dall’altro lo stato della ragione. Bel dilemma, allora come oggi... I referendum, però, servono a ripartire il carico delle responsabilità come Robin Hood, togliendola ai ricchi (per un breve istante, senza esagerare, visto che potrebbe dare alla testa) per darla a tutti o quasi. A Viverone, nella primavera del 1908, ognuno si apprestava a dire la sua, con consapevolezza o per partito preso. I contrari la mettevano sul piano emotivo e del campanilismo sciovinista, ma non si può che tifare per loro: «Vendere il lago vuol dire espropriarlo; vuol dire privarci per sempre di ciò che è nostro, che fu nostro, che fu dei nostri padri; vuol dire erigere sulle conosciute sponde una barriera, che vi rinchiuda tutti i ricordi (...). Vendere il lago è troncare a Viverone ciò che ha di più vitale, di più bello; è tirarci in casa lo straniero, che ci comandi (...). Il lago, il bel lago delle onde chiare, piene di inviti, sarà nostro, sempre nostro...». Erano ancora tempi non sospetti, ma sponde, barriera, straniero e onde rimandano alla canzone del Piave. Il patrio suolo, anzi le acque territoriali (in questo caso non quelle dell’Adriatico, bensì quelle di Viverone), per così dire, si difendevano a colpi di schede elettorali prima ancora che col moschetto 91 il 24 maggio. Le testate locali, in primis “il Biellese”, sposarono la causa della resistenza. Giù le mani dal lago e dai suoi coregoni! «Per cinquantamila miserabili lire noi cederemo per sempre le nostre acque, ricchezza e delizia del paese?» Mai! Eppure ai primi di aprile si era ormai rassegnati al voto, con tutte le insidie insite nel segreto della cabina elettorale.
Le settimane successive furono piuttosto convulse e l’opposizione ottenne dapprima un rilancio cospicuo dell’offerta di acquisto. La cifra duplicò. Centomila lire. «Centomila lire non sono una bazzecola! e pur sono una bazzecola, quando si tratta del nostro lago». Alle lusinghe dei soldi si fa presto a cedere, ma spesso, subito dopo, sopravviene il pentimento. Già nel 1908 si citava «l’esempio del laghetto di Bertignano, che fu venduto, ed alla cessione tenne dietro un lungo rimpianto, che dura tuttora». Il precedente non proprio felice di Bertignano ebbe un certo effetto tra gli indecisi e, nel breve volgere di un paio di mesi, la situazione per i fautori dell’alienazione peggiorò a tal punto che il referendum divenne superfluo, tanto sarebbe stato scontato il suo risultato. Niente più votazioni, niente più fameliche mani forestiere protese. «Quei che videro la prima luce su queste amene sponde ed allietarono i loro primi anni dell’incanto di queste onde, proclamarono sempre che il lago di Viverone sarà sempre di Viverone».
Scampato il pericolo laggiù, ci possiamo avvicinare a Biella per una votazione di tutt’altro tipo. Verso la metà di maggio di quello stesso 1908, una domenica, i candelesi furono convocati nella sala municipale per ascoltare «la proposta della offerta di lire cinquantamila ad un industriale, che venisse ad impiantare nel nostro paese un’industria, preferibilmente della lana, capace di impiegare almeno trecento operai, e di preparare gli elettori di Candelo». In altre parole: per iniziativa del Comune di Candelo si era immaginato di creare le condizioni per dar vita alla rivoluzione industriale candelese investendo una certa somma (esattamente quella offerta per il lago) al fine di suscitare l’interesse di un imprenditore a lasciare le vallate e a produrre pannilana in pianura. Trecento operai attivi avrebbero cambiato i connotati di una comunità ancora quasi del tutto rurale. Per dar peso all’ipotesi era stato invitato a tenere il comizio il prof. Giuseppe Ferraris, consigliere comunale, che accennò «al grande sviluppo dell’industria, al movimento sempre progressivo che si esplica in tanti paesi nostri del Biellese, tenuto conto della rilevante emigrazione dei nostri compaesani», e «affermò che la proposta è di somma importanza e degna di essere attuata». Tanto fu contro nell’affaire Viverone, altrettanto “il Biellese” si schierò pro nell’exploit di Candelo. D’altro canto i posti di lavoro sono sempre un ottimo motivo per scegliere la fabbrica ai campi, per optare tra il panorama e le ciminiere. Sul momento non fa una grinza, ma alla lunga non è detto che paghi. I biellesi dovrebbero aver imparato la lezione, ma cent’anni addietro il “piano B”, l’alternativa produttiva e la decrescita felice, non avrebbero colpito l’immaginario collettivo, né a Candelo né altrove. C’era troppa miseria in giro per star lì a gingillarsi coi sofismi. E il “piano B” era un lanificio. Si poteva votare sì o no, si poteva «procurare, con un lieve sacrificio transitorio del lavoro a tanti nostri operai, che ora sono costretti ad emigrare», oppure «continuare nella via fin qui battuta, di esser cioè tagliati fuori dal grande movimento industriale e commerciale con sempre maggior danno alla nostra popolazione». Sulle prime l’idea piacque. Anzi, un certo Camillo Viana, suggerì di aggiungere una clausola nel contratto: «che dopo un determinato tempo l’industria diventasse proprietà del Comune, aumentando, se è il caso, il premio anche a centomila lire» (come a Viverone).
La discussione fu accesa, ma si svolse nel clima di partecipato coinvolgimento che faceva ben sperare nell’esito della votazione, per lo meno in termini di affluenza alle urne. Il 24 maggio (non quello del Piave) si tenne il referendum. Malgrado le migliori premesse, però, «esso non poteva riuscire meno fiacco e sconfortante». Gli aventi diritto (non esisteva ancora il suffragio universale) erano circa 600, ma al seggio si presentarono solo in 180 (137 i favorevoli), il che significava meno del 30% degli elettori. Una trivellazione nell’acqua. Si spesero parole come apatia e assenteismo. Oppure il timore che quel “lieve sacrificio transitorio” non fosse altro che un nuovo pesante balzello per racimolare il capitale necessario ad allettare il fantomatico capitano d’industria disposto a delocalizzare in quel di Candelo. Dovettero passare altri venti anni prima che Ettore Barberis eleggesse proprio Candelo a sito produttivo di grande rilevanza, ma questa è un’altra storia. Ah, quasi dimenticavo quello che disse quel simpatico marpione di Mark Twain (ovviamente mi riferisco a ciò che avvenne nel 1908, e non a ciò che avverrà domani): se votare facesse qualche differenza non ce lo farebbero fare.
Danilo Craveia
Tutte le volte che si avvicina una consultazione elettorale o referendaria di qualche tipo, mi sovvengono le parole caustiche di quel simpatico marpione di Mark Twain. Gli aforismi dell’autore delle Avventure di Tom Sawyer sono davvero notevoli, specialmente quelli sulle banche e sui banchieri, ma il tema di oggi, anzi di domani, non può che essere quello dei referendum. Ma per fortuna questa rubrica è esentata dal trattare il quesito d’attualità. Come al solito qui si riesumano vecchie vicende che, nella migliore delle ipotesi, fanno riflettere un po’ sui corsi e i ricorsi della Storia (soprattutto quella di queste contrade). E allora ecco un pro memoria su due vetuste chiamate alle urne. Il ritorno al passato ci condurrà dapprima a Viverone e poi a Candelo. Beh, non sarà avvincente come una trivella in alto mare, ma se non altro si tratta di questioni nostrane. Entrambe risalgono al 1908.
Nel marzo di quell’anno fu avanzata la classica proposta indecente: vendere il lago di Viverone a due ricchi signori francesi. I messieurs, dei quali è rimasta ignota l’identità (ma vere ricerche in questo senso si dovrebbero ancora effettuare), offrivano 50 mila lire dell’epoca, come a dire 200 mila Euro. L’offerta non era una boutade, tanto che il Comune di Viverone stava approntando le pratiche per allestire un vero e proprio referendum. Sarebbero stati i viveronesi a dover decidere se alienare il lago. Naturalmente il partito dei no si fece sentire a tutta voce, opponendo il cuore al denaro (che poi non era neppure così tanto). Nulla di nuovo sotto il sole: da un lato il capriccio o il profitto, dall’altro l’ambiente e il paesaggio, da un lato lo sviluppo economico e il benessere diffuso, dall’altro la resistenza al cambiamento che, Pistoletto docet, è comunque inevitabile. Da un lato la ragion di stato, dall’altro lo stato della ragione. Bel dilemma, allora come oggi... I referendum, però, servono a ripartire il carico delle responsabilità come Robin Hood, togliendola ai ricchi (per un breve istante, senza esagerare, visto che potrebbe dare alla testa) per darla a tutti o quasi. A Viverone, nella primavera del 1908, ognuno si apprestava a dire la sua, con consapevolezza o per partito preso. I contrari la mettevano sul piano emotivo e del campanilismo sciovinista, ma non si può che tifare per loro: «Vendere il lago vuol dire espropriarlo; vuol dire privarci per sempre di ciò che è nostro, che fu nostro, che fu dei nostri padri; vuol dire erigere sulle conosciute sponde una barriera, che vi rinchiuda tutti i ricordi (...). Vendere il lago è troncare a Viverone ciò che ha di più vitale, di più bello; è tirarci in casa lo straniero, che ci comandi (...). Il lago, il bel lago delle onde chiare, piene di inviti, sarà nostro, sempre nostro...». Erano ancora tempi non sospetti, ma sponde, barriera, straniero e onde rimandano alla canzone del Piave. Il patrio suolo, anzi le acque territoriali (in questo caso non quelle dell’Adriatico, bensì quelle di Viverone), per così dire, si difendevano a colpi di schede elettorali prima ancora che col moschetto 91 il 24 maggio. Le testate locali, in primis “il Biellese”, sposarono la causa della resistenza. Giù le mani dal lago e dai suoi coregoni! «Per cinquantamila miserabili lire noi cederemo per sempre le nostre acque, ricchezza e delizia del paese?» Mai! Eppure ai primi di aprile si era ormai rassegnati al voto, con tutte le insidie insite nel segreto della cabina elettorale.
Le settimane successive furono piuttosto convulse e l’opposizione ottenne dapprima un rilancio cospicuo dell’offerta di acquisto. La cifra duplicò. Centomila lire. «Centomila lire non sono una bazzecola! e pur sono una bazzecola, quando si tratta del nostro lago». Alle lusinghe dei soldi si fa presto a cedere, ma spesso, subito dopo, sopravviene il pentimento. Già nel 1908 si citava «l’esempio del laghetto di Bertignano, che fu venduto, ed alla cessione tenne dietro un lungo rimpianto, che dura tuttora». Il precedente non proprio felice di Bertignano ebbe un certo effetto tra gli indecisi e, nel breve volgere di un paio di mesi, la situazione per i fautori dell’alienazione peggiorò a tal punto che il referendum divenne superfluo, tanto sarebbe stato scontato il suo risultato. Niente più votazioni, niente più fameliche mani forestiere protese. «Quei che videro la prima luce su queste amene sponde ed allietarono i loro primi anni dell’incanto di queste onde, proclamarono sempre che il lago di Viverone sarà sempre di Viverone».
Scampato il pericolo laggiù, ci possiamo avvicinare a Biella per una votazione di tutt’altro tipo. Verso la metà di maggio di quello stesso 1908, una domenica, i candelesi furono convocati nella sala municipale per ascoltare «la proposta della offerta di lire cinquantamila ad un industriale, che venisse ad impiantare nel nostro paese un’industria, preferibilmente della lana, capace di impiegare almeno trecento operai, e di preparare gli elettori di Candelo». In altre parole: per iniziativa del Comune di Candelo si era immaginato di creare le condizioni per dar vita alla rivoluzione industriale candelese investendo una certa somma (esattamente quella offerta per il lago) al fine di suscitare l’interesse di un imprenditore a lasciare le vallate e a produrre pannilana in pianura. Trecento operai attivi avrebbero cambiato i connotati di una comunità ancora quasi del tutto rurale. Per dar peso all’ipotesi era stato invitato a tenere il comizio il prof. Giuseppe Ferraris, consigliere comunale, che accennò «al grande sviluppo dell’industria, al movimento sempre progressivo che si esplica in tanti paesi nostri del Biellese, tenuto conto della rilevante emigrazione dei nostri compaesani», e «affermò che la proposta è di somma importanza e degna di essere attuata». Tanto fu contro nell’affaire Viverone, altrettanto “il Biellese” si schierò pro nell’exploit di Candelo. D’altro canto i posti di lavoro sono sempre un ottimo motivo per scegliere la fabbrica ai campi, per optare tra il panorama e le ciminiere. Sul momento non fa una grinza, ma alla lunga non è detto che paghi. I biellesi dovrebbero aver imparato la lezione, ma cent’anni addietro il “piano B”, l’alternativa produttiva e la decrescita felice, non avrebbero colpito l’immaginario collettivo, né a Candelo né altrove. C’era troppa miseria in giro per star lì a gingillarsi coi sofismi. E il “piano B” era un lanificio. Si poteva votare sì o no, si poteva «procurare, con un lieve sacrificio transitorio del lavoro a tanti nostri operai, che ora sono costretti ad emigrare», oppure «continuare nella via fin qui battuta, di esser cioè tagliati fuori dal grande movimento industriale e commerciale con sempre maggior danno alla nostra popolazione». Sulle prime l’idea piacque. Anzi, un certo Camillo Viana, suggerì di aggiungere una clausola nel contratto: «che dopo un determinato tempo l’industria diventasse proprietà del Comune, aumentando, se è il caso, il premio anche a centomila lire» (come a Viverone).
La discussione fu accesa, ma si svolse nel clima di partecipato coinvolgimento che faceva ben sperare nell’esito della votazione, per lo meno in termini di affluenza alle urne. Il 24 maggio (non quello del Piave) si tenne il referendum. Malgrado le migliori premesse, però, «esso non poteva riuscire meno fiacco e sconfortante». Gli aventi diritto (non esisteva ancora il suffragio universale) erano circa 600, ma al seggio si presentarono solo in 180 (137 i favorevoli), il che significava meno del 30% degli elettori. Una trivellazione nell’acqua. Si spesero parole come apatia e assenteismo. Oppure il timore che quel “lieve sacrificio transitorio” non fosse altro che un nuovo pesante balzello per racimolare il capitale necessario ad allettare il fantomatico capitano d’industria disposto a delocalizzare in quel di Candelo. Dovettero passare altri venti anni prima che Ettore Barberis eleggesse proprio Candelo a sito produttivo di grande rilevanza, ma questa è un’altra storia. Ah, quasi dimenticavo quello che disse quel simpatico marpione di Mark Twain (ovviamente mi riferisco a ciò che avvenne nel 1908, e non a ciò che avverrà domani): se votare facesse qualche differenza non ce lo farebbero fare.
Danilo Craveia