Ponti e barriere, quando i biellesi s’interrogavano sui suicidi a Sordevolo

Ponti e barriere, quando i biellesi s’interrogavano sui suicidi a Sordevolo
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Qualcuno disse che, in certe situazioni, sarebbe meglio non saper scrivere. Perchè c’è un di- ritto/dovere del silenzio che dovrebbe tenere i massmedia alla larga dal dolore delle persone. Ma c’è anche un diritto/do- vere critico che deve cogliere il presente, che non deve tacerne gli aspetti più tetri, per non correre il rischio di trasformare il silenzio in abitudine, indifferenza, presa di distanza. Il taglio alto di questo giornale del 2 giugno scorso impone una riflessione non solo nella triste emergenza odierna, ma anche in una prospettiva storica. 130 suicidi in 5 anni sono un’enormità, una tragedia individuale e collettiva, uno stato delle cose che interroga tutti. Ma quella cifra sconvolgente che cosa rap- presenta su un orizzonte storico più ampio? Siamo di fronte a una sorta di aberrazione statistica o il suicidio è l’esito di un “male di vivere” che nel Biellese ha radici lunghe e profonde? E la questione delle barriere sui ponti è una necessità di oggi o è un bisogno che ricorre nel nostro passato?

l tema del suicidio “massivo”, al di là di ogni considerazione etica e della indiscutibile pietas dovuta tanto alle vittime quanto alle loro famiglie e comunità, ha un notevole portato antropologico, culturale e sociale. Lo stesso vale per le risposte intellettuali, morali e politiche a una condizione limite che anche in altre epoche ha assunto, qui nel Biellese, i tratti del “contagio” diffuso. Idem per le contromisure pratiche cui si ricorse in tempi diversi dal nostro. Il gesto in se stesso, in quanto contrario alla dottrina cattolica, è stato spesso negato anche in circostanze più che certe, sia per non impedire al suicida il conforto di una sepoltura cristiana in terra consacrata sia per evitare alla famiglia discredito e problemi.

Eppure, anche nelle antiche registrazioni dei parroci si scorgono, qualche volta, le tracce di quei fatti tristi nascoste tra le righe di una versione più con- sona e “accettabile.” In ogni caso è stata l’industrializzazione a cambiare in peggio i connotati di questa zona: la correlazione tra sviluppo industriale, benessere sempre più condiviso e suicidi andrebbe approfondita fin dalla seconda metà dell’Ottocento, quando le fonti cominciano a darne con- to esplicitamente e con regolarità. Ma l’argomento di più stretta attualità è quello dei ponti e nessun ponte, prima di quello di Pistolesa, ha avuto il tremendo primato dei suicidi quanto quello di Sordevolo. Realizzate nel 1886 su progetto dell’ing. Tommaso Gavosto, le due arcate in mattoni rossi scavalcano l’Elvo tra Sordevolo e Muzzano a più di 50 metri dall’alveo del torrente. Il salto rappresentava di per sé una mesta garanzia. L’8 dicembre del 1888 fu un diciannovenne di Netro ad aprire una fitta sequenza di disperati che individuarono in quel volo il modo più efficace di andarsene. Al gennaio del 1898 gli emuli di quel primo sventurato erano già una decina. Quando morì in quella maniera anche una giovane sarta di Pavignano, la stampa locale, e in particolare “L’Eco del- l’Industria”, sollevò il problema delle protezioni: “insistiamo come già altre volte, presso le autorità affinché sia elevato di qualche poco il parapetto del ponte onde evitare disgrazie e suicidi. Per questi si sa che chi vuole guadagnare la cancellata non ha da prendere un abbrivio per superarla; dall’altra parte per le disgrazie non bisogna aspettare che succedano per Ecco, l’istanza era più che delineata anche allora. Non esistevano gli hashtag, ma la mancanza di barriere era già evidente e la pubblica opinione richiamava l’attenzione su un sistema di dissuasione minimo, ma comunque necessario e in grado di opporre, se non altro, un contrattempo che, in alcuni casi, sarebbe potuto es- sere il discrimine tra la vita e la morte. Ai primi di marzo del 1899 un operaio conciatore che aveva perso il lavoro da qualche settimana si lanciò a sua volta. Malgrado il numero dei cadaveri andasse crescendo inesorabilmente, i giornali sottolinearono che “non è un mese che la Deputazione Provinciale di Novara con diverse motivazioni, respingeva il ricorso presentato da centinaia di capi di famiglia di Sordevolo e Muzzano, affinché l’autorità avesse provveduto per l’alzamento del parapetto di questo ponte; ma finché qualche pezzo grosso non vi lascerà la pelle non fa bisogno di ripararvi”. Altre giovani donne gravate da vite di stenti e da prole numerosa, altri uomini sul lastrico per scarsità di lavoro o per la crisi generale che bloccava il Biellese al cambio di secolo trovarono nell’Elvo che scorre là sotto il loro letto di morte. Era in corso, da almeno tre lustri, una vera e propria “epidemia suicida” che, fatte le debite proporzioni per la popolazione residente di allora, non è inferiore a quella denunciata oggi, anzi. Era il 1902 quando una maestra di di- segno di 32 anni la fece finita con le solite modalità e si tornò a invocare una ringhiera più alta senza ottenere alcunché. “A che cifra, di grazia, dovrà ascendere il numero delle vittime perché si provveda ad eliminare la suggestione di questo nefasto ponte della morte?”. Il 5 maggio del 1908 un gragliese, malato incurabile, approfittò pure lui del ponte.

Era il suicida numero 33 in soli 22 anni da che l’ingegner Gavosto aveva compiuto la sua opera, anche se il novero era di certo più consistente perché alcuni “incidenti” dovevano essere, invece, calcolati come cadute inten- zionali. Stesso orribile destino, stesso lamento: “Ma un riparo a questo ponte della morte non si può mettere, o non è bene? E’ un pericolo perenne, è una tentazione continua degli squilibrati, dei maniaci, degli infelici a cui la sventura toglie il senno” scriveva “il Biellese” e prometteva di tornare sull’argomento “perché è una vergogna che, potendo con leggiera spesa porre questo riparo, si trascuri cooperando così a far continuare sì dolorosi e frequenti lutti”. Già nell’aprile di quello stesso 1908, il sordevolese Vito Gillio aveva promosso un’iniziativa a mezzo stampa per sollecitare una soluzione. Si mise a capo di un comitato costituitosi in paese e si fece portavoce di un malcontento che era, a tutti gli effetti, una battaglia di civiltà. Partì anche una raccolta di fondi. La gente di quelle parti era disposta a pagare le barriere di tasca propria. Il Gillio riempì non poche colonne su “il Biellese” di quella primavera per provocare una reazione positiva alle giuste richieste dei suoi compaesani, dei muzzanesi e di tutti i biellesi.

Sussisteva un unico elemento contrario, il costo delle opere da eseguire per mettere in sicurezza il ponte, ma era giunta l’ora di eliminare “la facilità colla quale possono compiere il triste passo. Urge perciò che questa facilità sia fatta totalmente sparire: il riparo si impone, né più ammissibili sarebbero altre lungaggini”. Qualcosa si mosse (anche se i suicidi continuarono per de- cenni, come altrove nel Biellese), non senza difficoltà e non senza oppositori. La “Tribuna Biellese” giudicò priva di utilità la buona volontà del Gillio e motivò il punto di vista con una dissertazione filosofica venata di atroce nichilismo: “Il suicida porta con sè, nella sua complessione fisica, il desiderio fatale del dissolvimento. E’ lo spirito, sprigionantesi da un corpo affranto che cerca la sua liberazione nel nulla”. Come a dire: siano liberi di agire come meglio credono, non si ergano inutili ripari per chi desidera dar requie a se stesso. Troppo facile. Il consesso umano deve mirare a conservare ogni suo membro, nel 1908 come oggi. Ed è avvilente che un secolo di suicidi non abbia sviluppato nel medesimo consesso umano una sensibilità tale da far rispondere con prontezza a una così semplice domanda di sicurezza (per quanto relativa). Ma il fatto è che, l’articolista della “Tribuna Biellese”, senza volerlo, poneva la questione sotto una luce diversa che ci riporta ai nostri giorni. Le barriere restano un obiettivo primario, ma il traguardo vero è quello di prevenire il più possibile la volontà di portarsi sui ponti (o di agire con altri metodi). Il Biellese dimostra di essere un territorio più che fertile, non solo da ieri bensì da tanto tempo, per questo grave e sempre più preoccupante fenomeno.

Danilo Craveia

 

 

 

 

 

Danilo Craveia 

Qualcuno disse che, in certe situazioni, sarebbe meglio non saper scrivere. Perchè c’è un di- ritto/dovere del silenzio che dovrebbe tenere i massmedia alla larga dal dolore delle persone. Ma c’è anche un diritto/do- vere critico che deve cogliere il presente, che non deve tacerne gli aspetti più tetri, per non correre il rischio di trasformare il silenzio in abitudine, indifferenza, presa di distanza. Il taglio alto di questo giornale del 2 giugno scorso impone una riflessione non solo nella triste emergenza odierna, ma anche in una prospettiva storica. 130 suicidi in 5 anni sono un’enormità, una tragedia individuale e collettiva, uno stato delle cose che interroga tutti. Ma quella cifra sconvolgente che cosa rap- presenta su un orizzonte storico più ampio? Siamo di fronte a una sorta di aberrazione statistica o il suicidio è l’esito di un “male di vivere” che nel Biellese ha radici lunghe e profonde? E la questione delle barriere sui ponti è una necessità di oggi o è un bisogno che ricorre nel nostro passato?

l tema del suicidio “massivo”, al di là di ogni considerazione etica e della indiscutibile pietas dovuta tanto alle vittime quanto alle loro famiglie e comunità, ha un notevole portato antropologico, culturale e sociale. Lo stesso vale per le risposte intellettuali, morali e politiche a una condizione limite che anche in altre epoche ha assunto, qui nel Biellese, i tratti del “contagio” diffuso. Idem per le contromisure pratiche cui si ricorse in tempi diversi dal nostro. Il gesto in se stesso, in quanto contrario alla dottrina cattolica, è stato spesso negato anche in circostanze più che certe, sia per non impedire al suicida il conforto di una sepoltura cristiana in terra consacrata sia per evitare alla famiglia discredito e problemi.

Eppure, anche nelle antiche registrazioni dei parroci si scorgono, qualche volta, le tracce di quei fatti tristi nascoste tra le righe di una versione più con- sona e “accettabile.” In ogni caso è stata l’industrializzazione a cambiare in peggio i connotati di questa zona: la correlazione tra sviluppo industriale, benessere sempre più condiviso e suicidi andrebbe approfondita fin dalla seconda metà dell’Ottocento, quando le fonti cominciano a darne con- to esplicitamente e con regolarità. Ma l’argomento di più stretta attualità è quello dei ponti e nessun ponte, prima di quello di Pistolesa, ha avuto il tremendo primato dei suicidi quanto quello di Sordevolo. Realizzate nel 1886 su progetto dell’ing. Tommaso Gavosto, le due arcate in mattoni rossi scavalcano l’Elvo tra Sordevolo e Muzzano a più di 50 metri dall’alveo del torrente. Il salto rappresentava di per sé una mesta garanzia. L’8 dicembre del 1888 fu un diciannovenne di Netro ad aprire una fitta sequenza di disperati che individuarono in quel volo il modo più efficace di andarsene. Al gennaio del 1898 gli emuli di quel primo sventurato erano già una decina. Quando morì in quella maniera anche una giovane sarta di Pavignano, la stampa locale, e in particolare “L’Eco del- l’Industria”, sollevò il problema delle protezioni: “insistiamo come già altre volte, presso le autorità affinché sia elevato di qualche poco il parapetto del ponte onde evitare disgrazie e suicidi. Per questi si sa che chi vuole guadagnare la cancellata non ha da prendere un abbrivio per superarla; dall’altra parte per le disgrazie non bisogna aspettare che succedano per Ecco, l’istanza era più che delineata anche allora. Non esistevano gli hashtag, ma la mancanza di barriere era già evidente e la pubblica opinione richiamava l’attenzione su un sistema di dissuasione minimo, ma comunque necessario e in grado di opporre, se non altro, un contrattempo che, in alcuni casi, sarebbe potuto es- sere il discrimine tra la vita e la morte. Ai primi di marzo del 1899 un operaio conciatore che aveva perso il lavoro da qualche settimana si lanciò a sua volta. Malgrado il numero dei cadaveri andasse crescendo inesorabilmente, i giornali sottolinearono che “non è un mese che la Deputazione Provinciale di Novara con diverse motivazioni, respingeva il ricorso presentato da centinaia di capi di famiglia di Sordevolo e Muzzano, affinché l’autorità avesse provveduto per l’alzamento del parapetto di questo ponte; ma finché qualche pezzo grosso non vi lascerà la pelle non fa bisogno di ripararvi”. Altre giovani donne gravate da vite di stenti e da prole numerosa, altri uomini sul lastrico per scarsità di lavoro o per la crisi generale che bloccava il Biellese al cambio di secolo trovarono nell’Elvo che scorre là sotto il loro letto di morte. Era in corso, da almeno tre lustri, una vera e propria “epidemia suicida” che, fatte le debite proporzioni per la popolazione residente di allora, non è inferiore a quella denunciata oggi, anzi. Era il 1902 quando una maestra di di- segno di 32 anni la fece finita con le solite modalità e si tornò a invocare una ringhiera più alta senza ottenere alcunché. “A che cifra, di grazia, dovrà ascendere il numero delle vittime perché si provveda ad eliminare la suggestione di questo nefasto ponte della morte?”. Il 5 maggio del 1908 un gragliese, malato incurabile, approfittò pure lui del ponte.

Era il suicida numero 33 in soli 22 anni da che l’ingegner Gavosto aveva compiuto la sua opera, anche se il novero era di certo più consistente perché alcuni “incidenti” dovevano essere, invece, calcolati come cadute inten- zionali. Stesso orribile destino, stesso lamento: “Ma un riparo a questo ponte della morte non si può mettere, o non è bene? E’ un pericolo perenne, è una tentazione continua degli squilibrati, dei maniaci, degli infelici a cui la sventura toglie il senno” scriveva “il Biellese” e prometteva di tornare sull’argomento “perché è una vergogna che, potendo con leggiera spesa porre questo riparo, si trascuri cooperando così a far continuare sì dolorosi e frequenti lutti”. Già nell’aprile di quello stesso 1908, il sordevolese Vito Gillio aveva promosso un’iniziativa a mezzo stampa per sollecitare una soluzione. Si mise a capo di un comitato costituitosi in paese e si fece portavoce di un malcontento che era, a tutti gli effetti, una battaglia di civiltà. Partì anche una raccolta di fondi. La gente di quelle parti era disposta a pagare le barriere di tasca propria. Il Gillio riempì non poche colonne su “il Biellese” di quella primavera per provocare una reazione positiva alle giuste richieste dei suoi compaesani, dei muzzanesi e di tutti i biellesi.

Sussisteva un unico elemento contrario, il costo delle opere da eseguire per mettere in sicurezza il ponte, ma era giunta l’ora di eliminare “la facilità colla quale possono compiere il triste passo. Urge perciò che questa facilità sia fatta totalmente sparire: il riparo si impone, né più ammissibili sarebbero altre lungaggini”. Qualcosa si mosse (anche se i suicidi continuarono per de- cenni, come altrove nel Biellese), non senza difficoltà e non senza oppositori. La “Tribuna Biellese” giudicò priva di utilità la buona volontà del Gillio e motivò il punto di vista con una dissertazione filosofica venata di atroce nichilismo: “Il suicida porta con sè, nella sua complessione fisica, il desiderio fatale del dissolvimento. E’ lo spirito, sprigionantesi da un corpo affranto che cerca la sua liberazione nel nulla”. Come a dire: siano liberi di agire come meglio credono, non si ergano inutili ripari per chi desidera dar requie a se stesso. Troppo facile. Il consesso umano deve mirare a conservare ogni suo membro, nel 1908 come oggi. Ed è avvilente che un secolo di suicidi non abbia sviluppato nel medesimo consesso umano una sensibilità tale da far rispondere con prontezza a una così semplice domanda di sicurezza (per quanto relativa). Ma il fatto è che, l’articolista della “Tribuna Biellese”, senza volerlo, poneva la questione sotto una luce diversa che ci riporta ai nostri giorni. Le barriere restano un obiettivo primario, ma il traguardo vero è quello di prevenire il più possibile la volontà di portarsi sui ponti (o di agire con altri metodi). Il Biellese dimostra di essere un territorio più che fertile, non solo da ieri bensì da tanto tempo, per questo grave e sempre più preoccupante fenomeno.

Danilo Craveia

 

 

 

 

 

Danilo Craveia 

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