Pagine biellesi di inizio Ottocento per... sentito dire

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Monsieur le Chevalier Louis Aubin Eleuthérophile Millin de Grandmaison, accademico e Conservateur du Cabinet des Médailles, des Antiques et des Pierres Gravées de la Bibliothèque du Roi si mise in viaggio il 10 settembre 1811. Lasciava la sua Parigi capitale d’Europa. Napoleone, dopo la vittoria di Borodino, stava osservando col cannocchiale Mosca incendiata in cui si apprestava a entrare da conquistatore. L’Empire era letteralmente alla sua massima espansione. Non c’era quindi momento migliore per compiere quel Gran Tour che faceva la differenza tra il vero uomo di mondo e il provinciale. Millin era un savant, un botanico, uno storico, un esperto d’arte, un giornalista e, soprattutto, un curioso. La curiosità lo aveva spinto a viaggiare e, a cinquantadue anni compiuti, si avviava a visitare l’Italia con la mente di un enciclopedista e il cuore di un romantico. Molti prima di lui avevano percorso il Belpaese alla ricerca di quello spirito immortale della civiltà che aleggiava tra le pittoresche rovine dell’antichità classica e che, tra belli e sublimi panorami, aveva e avrebbe abbagliato i Goethe, gli Stendhal e tanti altri nel corso del loro Bildungreise. Per essere accolto nel Parnaso dei nobili voyageurs (da non confondere con i borghesi touristes) era giocoforza valicare le Alpi e aggirarsi per la Penisola, tra mete obbligate e località più amene, per riportarne quelle preziose “impressioni” come un trofeo da safari da esibire in ottavo, stampate su tomi falsamente modesti da far circolare nei salotti per l’invidia dei parrucconi colleghi dell’Académie. 

Millin non poteva sfuggire al cliché (e in questo sta il suo valore, peraltro ben delineato in un paio di studi, tra cui quello curato da Cristina Trinchero e Sergio Zoppi nel 2010) e giunse a Chambéry il 13 ottobre. La Savoia era già Italia (il conservateur lo scrive senza indugio nelle sue memorie) perché all’epoca il concetto di confine non si adattava bene allo stato delle cose: di qua e di là dei monti era tutta France. Il Piemonte era una “divisione” francese e il Corso era anche re d’Italia. Di fatto il colle del Moncenisio non costituiva una frontiera, solo una montagna in un territorio continuo. Con gli ussari e l’artiglieria, Bonaparte aveva già “istituito” una zona Schengen, forse meno farlocca di quella odierna. L’entusiasta Louis Aubin Eleuthérophile, che era intenzionato a visitare solo la Savoia, il Piemonte e la Liguria, si fece poi prendere la mano e finì col raggiungere la Puglia, passando per Roma e risalendo fino a Venezia. Tant’è che rientrò a Parigi solo nel novembre del 1813. Ma in quei due anni il suo mondo era cambiato. La Russia aveva ferito a morte l’Empereur e a Lipsia gli era stato appena dato il colpo di grazia. Puntando il cannocchiale nella direzione giusta si potevano già vedere l’Elba, Waterloo e Sant’Elena. Tutto questo, però, ci interessa poco. Ciò che conta è che Millin, nel suo cahier de voyage (che uscì nel 1816, giusto un paio d’anni prima che l’autore morisse) dedicò una mezza dozzina di pagine a Biella o, per essere precisi, a Oropa. 

Dopo essersi inoltrato nella Valle d’Aosta, Millin aveva fatto il cammino a ritroso lungo la Dora Baltea e, in vista di Chivasso, si era diretto verso Vercelli. Che non si potesse prescindere da una deviazione a Biella e, soprattutto, al Santuario di Oropa era chiaro al parigino che, sul suo taccuino, scrisse: “Beaucoup d’étrangers vont à Biella pour faire le pélerinage de la célèbre Madonne d’Oropa, je l’ai réservé pour mon retour”. Preso questo impegno con se stesso e, ex post, con i suoi lettori, il viaggiatore proseguì senza poter prevedere che, di lì a un anno e mezzo, l’astro napoleonico sarebbe tramontato e quell’inaspettato crepuscolo lo avrebbe obbligato a un frettoloso ritorno in patria. Tali condizioni devono aver costretto il Millin a marciare verso casa a tappe forzate. Dico questo, e non me ne voglia la buonanima del chevalier ovunque essa si trovi, perchè ho il fondato sospetto che la situazione contingente non gli abbia permesso di mantenere la sua promessa, ovvero, secondo me, il Millin non ebbe modo di venire né a Biella né a Oropa. Le pagine riservate al Biellese sanno di bibliografia consultata di corsa, di notizie riportate, di raffigurazioni appena sbirciate. Troppe le sviste, troppe le inesattezze in cui un testimone oculare non sarebbe potuto incorrere. 

Vero è che il viaggiatore non afferma mai di essere stato a Biella “di persona personalmente”, ma si guarda bene anche dall’esplicitare come andarono davvero le cose. Sia come sia, la narrazione è di seconda mano, non contiene nulla che non si potesse reperire su qualsiasi libro a caso sul tema Biella e/o Oropa. Nell’economia dell’opera ci sta e non fu il primo né l’ultimo a vendere per visto ciò fu solo letto e sentito raccontare, ma vale la pena di segnalare gli “errori” del Millin non per pedante vaghezza censoria postuma contro chi non può più difendersi, ma per semplice correttezza storica (la suddetta buonanima mi perdonerà convenendo sia nel merito che nel metodo). Procuratevi quindi il secondo dei due tomi del “Voyage en Savoie, en Piémont, à Nice et à Gênes”, prima edizione, quella della Librairie Wassermann del 54 di rue Richelieu, uscita per i tipi di Jean Baptiste Sajou (si trova, perfettamente leggibile, anche sul web) e andate a pagina 5. Appuntò il francese: lungo la strada che congiungeva Torino a Vercelli, a Cigliano si incrociavano due vie, “l’une conduit à Biella que les historiens appellent Bugella. Cette petite ville est voisine du Cervo et de l’Aurena, et bâtie sur le penchant d’une colline; elle est divisée en deux parties, on nomme l’une la plaine et l’autre la place”. Aurena? Gli si può condonare l’imprecisione per una questione di assonanza: Auren, Aurem, cioè Orem(o) nella lingua transalpina. Ma quel “la place”? La piazza non è il Piazzo... Era stato tanto accorto nella citazione latina (Bugella) e poi aveva tradotto così malamente... La causa, fin qui, può essere della distanza cronologica tra il viaggio e la revisione degli appunti per la stesura del libro (quasi un lustro). 

Ma i veri rilievi al lavoro del Millin, quelli che svelano che la capatina nel Biellese non fu che “letteraria”, sono altri. In primis il fatto di ignorare Biella in toto. Certo la città stava vivendo un brutto momento, agli sgoccioli della dominazione francese, e l’industrializzazione non era ancora iniziata. Ma che si passasse solo in transito per Oropa è davvero una diminutio eccessiva. Liquidare Biella con un fugace cenno alla chiesa di Santo Stefano è segno di non averla vista davvero. Certo, tra le righe Millin menziona l’acquedotto del Piazzo, ma quello lo si notava già nelle vedute del Theatrum Sabaudiae di fine Seicento. Senza contare il riferimento alla sepoltura del vescovo Lombardo della Torre ammirata nella stessa collegiata di Santo Stefano. Millin citò l’epigrafe, ma quella era inserita in più di un testo, non era necessario trascriverla dalla pietra sepolcrale del vescovo... Se non fosse che il sepolcro del presule si trovava in Santa Maria Maggiore (l’attuale duomo) fin dal 1788. Ops! In ogni caso il fulcro della vita cittadina era, stando al Millin, il pellegrinaggio a Oropa. Ma quale pellegrinaggio? Nel 1811 e nel biennio seguente non vi furono grandi processioni (l’incoronazione centenaria, la terza, della Madonna Nera sarebbe avvenuta solo nel 1820). E’ chiaro che il “nostro” si stesse riferendo a un pellegrinaggio “ideale”. 

Ma il clou arriva proprio a Oropa. Millin narrò della salita al santuario in modo più che vago per poi aggiungere che, per entrare nel complesso, non si poteva far altro che camminare da una cappella all’altra del Sacro Monte... Sicuro? E il Prato delle Oche? E che dire delle due fontane del chiostro? E’ vero, ci sono incisioni seicentesche che mostrano due pile zampillanti (addirittura tre), ma nella realtà ci fu sempre e solo un bôrnel, che all’inizio del XIX secolo era già dove si trova adesso. Se l’avesse veduto coi suoi occhi non si sarebbe sbagliato. E nemmeno gli occhi della Vergine Bruna si posarono su di lui. Come a dire che non vide mai la Statua. Altrimenti non avrebbe scambiato il pomo con le foglie (che la Madonna Nera regge come un giocatore di basket del NBA sul solo dito medio destro), per un cuore alato! Ri-ops! Ci sono un altro paio di fautes del genere, ma non è il caso di infierire. Anzi, ci sono anche delle attenuanti. Appunti in disordine a fronte di due anni di annotazioni forsennate? Oppure potrebbe essersi fidato troppo di uno dei suoi accompagnatori. Uno di loro potrebbe averlo involontariamente tratto in inganno con un racconto approssimativo. E poi non capita a tutti di vivere la caduta di Napoleone... Però, a ragion veduta, non mi sento di consigliare il “Voyage” di Millin come la migliore delle Lonely Planet per chi avesse intenzione di tornare indietro nel tempo e scoprire il Biellese nel primo Ottocento.

Danilo Craveia

Monsieur le Chevalier Louis Aubin Eleuthérophile Millin de Grandmaison, accademico e Conservateur du Cabinet des Médailles, des Antiques et des Pierres Gravées de la Bibliothèque du Roi si mise in viaggio il 10 settembre 1811. Lasciava la sua Parigi capitale d’Europa. Napoleone, dopo la vittoria di Borodino, stava osservando col cannocchiale Mosca incendiata in cui si apprestava a entrare da conquistatore. L’Empire era letteralmente alla sua massima espansione. Non c’era quindi momento migliore per compiere quel Gran Tour che faceva la differenza tra il vero uomo di mondo e il provinciale. Millin era un savant, un botanico, uno storico, un esperto d’arte, un giornalista e, soprattutto, un curioso. La curiosità lo aveva spinto a viaggiare e, a cinquantadue anni compiuti, si avviava a visitare l’Italia con la mente di un enciclopedista e il cuore di un romantico. Molti prima di lui avevano percorso il Belpaese alla ricerca di quello spirito immortale della civiltà che aleggiava tra le pittoresche rovine dell’antichità classica e che, tra belli e sublimi panorami, aveva e avrebbe abbagliato i Goethe, gli Stendhal e tanti altri nel corso del loro Bildungreise. Per essere accolto nel Parnaso dei nobili voyageurs (da non confondere con i borghesi touristes) era giocoforza valicare le Alpi e aggirarsi per la Penisola, tra mete obbligate e località più amene, per riportarne quelle preziose “impressioni” come un trofeo da safari da esibire in ottavo, stampate su tomi falsamente modesti da far circolare nei salotti per l’invidia dei parrucconi colleghi dell’Académie. 

Millin non poteva sfuggire al cliché (e in questo sta il suo valore, peraltro ben delineato in un paio di studi, tra cui quello curato da Cristina Trinchero e Sergio Zoppi nel 2010) e giunse a Chambéry il 13 ottobre. La Savoia era già Italia (il conservateur lo scrive senza indugio nelle sue memorie) perché all’epoca il concetto di confine non si adattava bene allo stato delle cose: di qua e di là dei monti era tutta France. Il Piemonte era una “divisione” francese e il Corso era anche re d’Italia. Di fatto il colle del Moncenisio non costituiva una frontiera, solo una montagna in un territorio continuo. Con gli ussari e l’artiglieria, Bonaparte aveva già “istituito” una zona Schengen, forse meno farlocca di quella odierna. L’entusiasta Louis Aubin Eleuthérophile, che era intenzionato a visitare solo la Savoia, il Piemonte e la Liguria, si fece poi prendere la mano e finì col raggiungere la Puglia, passando per Roma e risalendo fino a Venezia. Tant’è che rientrò a Parigi solo nel novembre del 1813. Ma in quei due anni il suo mondo era cambiato. La Russia aveva ferito a morte l’Empereur e a Lipsia gli era stato appena dato il colpo di grazia. Puntando il cannocchiale nella direzione giusta si potevano già vedere l’Elba, Waterloo e Sant’Elena. Tutto questo, però, ci interessa poco. Ciò che conta è che Millin, nel suo cahier de voyage (che uscì nel 1816, giusto un paio d’anni prima che l’autore morisse) dedicò una mezza dozzina di pagine a Biella o, per essere precisi, a Oropa. 

Dopo essersi inoltrato nella Valle d’Aosta, Millin aveva fatto il cammino a ritroso lungo la Dora Baltea e, in vista di Chivasso, si era diretto verso Vercelli. Che non si potesse prescindere da una deviazione a Biella e, soprattutto, al Santuario di Oropa era chiaro al parigino che, sul suo taccuino, scrisse: “Beaucoup d’étrangers vont à Biella pour faire le pélerinage de la célèbre Madonne d’Oropa, je l’ai réservé pour mon retour”. Preso questo impegno con se stesso e, ex post, con i suoi lettori, il viaggiatore proseguì senza poter prevedere che, di lì a un anno e mezzo, l’astro napoleonico sarebbe tramontato e quell’inaspettato crepuscolo lo avrebbe obbligato a un frettoloso ritorno in patria. Tali condizioni devono aver costretto il Millin a marciare verso casa a tappe forzate. Dico questo, e non me ne voglia la buonanima del chevalier ovunque essa si trovi, perchè ho il fondato sospetto che la situazione contingente non gli abbia permesso di mantenere la sua promessa, ovvero, secondo me, il Millin non ebbe modo di venire né a Biella né a Oropa. Le pagine riservate al Biellese sanno di bibliografia consultata di corsa, di notizie riportate, di raffigurazioni appena sbirciate. Troppe le sviste, troppe le inesattezze in cui un testimone oculare non sarebbe potuto incorrere. 

Vero è che il viaggiatore non afferma mai di essere stato a Biella “di persona personalmente”, ma si guarda bene anche dall’esplicitare come andarono davvero le cose. Sia come sia, la narrazione è di seconda mano, non contiene nulla che non si potesse reperire su qualsiasi libro a caso sul tema Biella e/o Oropa. Nell’economia dell’opera ci sta e non fu il primo né l’ultimo a vendere per visto ciò fu solo letto e sentito raccontare, ma vale la pena di segnalare gli “errori” del Millin non per pedante vaghezza censoria postuma contro chi non può più difendersi, ma per semplice correttezza storica (la suddetta buonanima mi perdonerà convenendo sia nel merito che nel metodo). Procuratevi quindi il secondo dei due tomi del “Voyage en Savoie, en Piémont, à Nice et à Gênes”, prima edizione, quella della Librairie Wassermann del 54 di rue Richelieu, uscita per i tipi di Jean Baptiste Sajou (si trova, perfettamente leggibile, anche sul web) e andate a pagina 5. Appuntò il francese: lungo la strada che congiungeva Torino a Vercelli, a Cigliano si incrociavano due vie, “l’une conduit à Biella que les historiens appellent Bugella. Cette petite ville est voisine du Cervo et de l’Aurena, et bâtie sur le penchant d’une colline; elle est divisée en deux parties, on nomme l’une la plaine et l’autre la place”. Aurena? Gli si può condonare l’imprecisione per una questione di assonanza: Auren, Aurem, cioè Orem(o) nella lingua transalpina. Ma quel “la place”? La piazza non è il Piazzo... Era stato tanto accorto nella citazione latina (Bugella) e poi aveva tradotto così malamente... La causa, fin qui, può essere della distanza cronologica tra il viaggio e la revisione degli appunti per la stesura del libro (quasi un lustro). 

Ma i veri rilievi al lavoro del Millin, quelli che svelano che la capatina nel Biellese non fu che “letteraria”, sono altri. In primis il fatto di ignorare Biella in toto. Certo la città stava vivendo un brutto momento, agli sgoccioli della dominazione francese, e l’industrializzazione non era ancora iniziata. Ma che si passasse solo in transito per Oropa è davvero una diminutio eccessiva. Liquidare Biella con un fugace cenno alla chiesa di Santo Stefano è segno di non averla vista davvero. Certo, tra le righe Millin menziona l’acquedotto del Piazzo, ma quello lo si notava già nelle vedute del Theatrum Sabaudiae di fine Seicento. Senza contare il riferimento alla sepoltura del vescovo Lombardo della Torre ammirata nella stessa collegiata di Santo Stefano. Millin citò l’epigrafe, ma quella era inserita in più di un testo, non era necessario trascriverla dalla pietra sepolcrale del vescovo... Se non fosse che il sepolcro del presule si trovava in Santa Maria Maggiore (l’attuale duomo) fin dal 1788. Ops! In ogni caso il fulcro della vita cittadina era, stando al Millin, il pellegrinaggio a Oropa. Ma quale pellegrinaggio? Nel 1811 e nel biennio seguente non vi furono grandi processioni (l’incoronazione centenaria, la terza, della Madonna Nera sarebbe avvenuta solo nel 1820). E’ chiaro che il “nostro” si stesse riferendo a un pellegrinaggio “ideale”. 

Ma il clou arriva proprio a Oropa. Millin narrò della salita al santuario in modo più che vago per poi aggiungere che, per entrare nel complesso, non si poteva far altro che camminare da una cappella all’altra del Sacro Monte... Sicuro? E il Prato delle Oche? E che dire delle due fontane del chiostro? E’ vero, ci sono incisioni seicentesche che mostrano due pile zampillanti (addirittura tre), ma nella realtà ci fu sempre e solo un bôrnel, che all’inizio del XIX secolo era già dove si trova adesso. Se l’avesse veduto coi suoi occhi non si sarebbe sbagliato. E nemmeno gli occhi della Vergine Bruna si posarono su di lui. Come a dire che non vide mai la Statua. Altrimenti non avrebbe scambiato il pomo con le foglie (che la Madonna Nera regge come un giocatore di basket del NBA sul solo dito medio destro), per un cuore alato! Ri-ops! Ci sono un altro paio di fautes del genere, ma non è il caso di infierire. Anzi, ci sono anche delle attenuanti. Appunti in disordine a fronte di due anni di annotazioni forsennate? Oppure potrebbe essersi fidato troppo di uno dei suoi accompagnatori. Uno di loro potrebbe averlo involontariamente tratto in inganno con un racconto approssimativo. E poi non capita a tutti di vivere la caduta di Napoleone... Però, a ragion veduta, non mi sento di consigliare il “Voyage” di Millin come la migliore delle Lonely Planet per chi avesse intenzione di tornare indietro nel tempo e scoprire il Biellese nel primo Ottocento.

Danilo Craveia

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