L'INCIPIT DEI VOSTRI RACCONTI

L'INCIPIT DEI VOSTRI RACCONTI
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Tirate fuori il vostro racconto dal cassetto! E diventate protagonisti della nuova rubrica "L'incipit dei vostri racconti", che Eco di Biella pubblicherà ogni sabato sull'edizione cartacea nel suo inizio (incipit). Per leggere il resto del racconto, occorrerà collegarsi al sito nel pomeriggio di sabato. Tutti possono partecipare all'inziativa gratuita, in collaborazione con la casa editrice biellese Lineadaria. Inviate i vostri racconti all'indirizzo lineadariaeditore@gmail.com, la selezione verrà effettuata da Federica Ugliengo. Buona lettura e buon esordio a tutti nella pagina, già cult per gli appassionati, L'Eco delle Parole.

 

TESTA TRA LE NUVOLE

DI ALESSIA BARDONE

 

segue da Eco di Biella in edicola questa mattina 16 FEBBRAIO 2013

 

Non mi ricordai di quel disegno fino a quando la professoressa di matematica non mi chiamò alla cattedra, una settimana dopo, per consegnarci il compito che aveva corretto. – Che cosa credi? Vuoi dirmi che questo è il tuo compito?- mi chiese l’insegnante mostrandomi quel disegno stravagante. Non mi ricordavo niente, poi, mentre fissavo il disegno, mi tornò in mente quella sera, precisamente il bacio finale dei due innamorati, nel film. – Rianne, Rianne, mi vuoi rispondere? - mi sollecitò la professoressa. La classe si stava spanciando dalle risate, a quanto pareva mi aveva già chiamato più volte. – Mi scusi professoressa… deve essere stato mio cugino, sa è piccolo…! - Non volevo dire la verità, l’avrebbe presa per una bugia, ne ero certa.

- Certo, Rianne. Domani voglio questi esercizi rifatti, in aggiunta a quelli che assegnerò.- Poi accartocciò il mio compito e andò a buttarlo nel cestino. Demoralizzata tornai al mio posto. Avrei dovuto passare tutto il pomeriggio a svolgere il compito, invece che cercare informazioni su quel simbolo. E poi perché dovevo cercare informazioni su quel simbolo? Cosa mai aveva di strano? Mi risposi da sola, appena mi resi conto dell’ingenuità delle mie domande. Certo che c’era qualcosa di strano. L’avevo disegnato senza ricordarmi niente. Ma se non mi ricordavo niente come potevo dire di averlo disegnato io? Che cosa mi assicurava che non era opera di mio cugino? Ma no, non poteva essere, non lo vedevo da quasi un mese. Lui aveva capito che casa mia era un trappola. Se non ti piace il basket sei morto. Dato che lui era un maschio si subiva tutti gli insegnamenti di mio padre.

Il suono della campanella mi fa capire che non avevo seguito neanche un po’ di lezione, sarebbero stati ancora più difficili, gli esercizi.

Per il resto della giornata cercai di concentrarmi su quello che facevo, ma rischiai di non scendere dall’autobus perché stavo riguardando il disegno, che avevo recuperato dal cestino inconsciamente.

Passai ore davanti al computer per cercare di capire cosa significasse. La settimana successiva andai anche in biblioteca a consultare tutti i testi, che trovai, sui simboli o sugli alfabeti.

Passai quasi un mese in quello stato. Gli unici momenti in cui ero abbastanza lucida, cioè non pensavo a quel simbolo, era a scuola. Lì, infatti, mi concentravo al massimo per evitare di dover fare troppo a casa, perdendo così tempo.

Alla fine del mese capii che ero pazza. Persino nei miei sogni c’era quel simbolo e mi sembrava che la risposta fosse a portata di mano, sulla punta della lingua ma non riuscivo mai a trovarla.

Poi un giorno trovai, su un testo in biblioteca, mitologia Maya, pagine intere con immagini di contrassegni vari, tra cui uno simile a un segno del mio simbolo. Ormai lo ricordavo a memoria ma, per essere sicura, estrassi il disegno dalla borsa, lo portavo sempre con me. E sì era proprio il segno tra i più esterni, vicino al margine destro. Ora dovevo solo capire cosa significasse. A fianco dell’immagine c’era solo una didascalia che mi riportava alla pagina del precedente capitolo. Sfogliai velocemente il testo, rischiando di sgualcire le pagine tanto le svoltavo velocemente. Dovetti leggere due volte per capire la traduzione: Dio Sole. Veniva però ribadito che non si era sicuri della versione. Presi in prestito il libro, poteva contenere altre risposte. Lo lessi nel giro di qualche giorno, e con mia grande felicità trovai altri due segni, sempre attinenti all’astronomia.

Mi dedicai quindi alla mitologia Maya ma non trovai niente di nuovo in altri due testi che lessi, tanto da demoralizzarmi un'altra volta. Feci delle ricerca su Internet ma ricavai solo un altro dei tantissimi segni: era fiore. Il significato mi sorprese, ormai avevo pensato che tutto fosse attinente all’astronomia. L’unica differenza era che quel segno si trovava quasi dalla parte opposta a quelli prima trovati.

Ci misi molto, molto, molto tempo per riuscire a tradurne gran parte. Il problema principale era che derivavano da più alfabeti e sicuramente non erano di utilizzo corrente. Erano tutti mitologici o termini obsoleti nel caso cinese. Per trovarli ero già alle vacanze pasquali, avevo disegnato il simbolo agli inizi di ottobre.

L’unica cosa che faceva piacere a mia madre e mi faceva sentire un po’ meno pazza era che almeno studiavo la storia. Quello era certo. E pensare che epica e storia erano delle materie che non mi piacevano tanto.

Durante le vacanze pasquali feci la scoperta più importante di tutte. L’otto capovolto sapevo già che significava infinito. Attorno a quello c’erano ideogrammi generali, terra, cielo, vita, morte e tutti gli altri segni ampliavano i concetti racchiusi nei quattro termini. Naturalmente non conoscevo tutti i geroglifici e sapevo che le traduzioni erano approssimative.

L’ultimo pomeriggio delle vacanze ero in giardino, finalmente faceva bello, aveva smesso di piovere. Ero sollevata e felice per aver risolto quel rompicapo, mi restava però oscura una cosa non proprio da poco. Come facevo ad aver disegnato quel simbolo e soprattutto a che cosa serviva?! Vidi un sorriso, si proprio un sorriso a trentadue denti, che sembrava risplendere alla luce del sole. Poi scomparve. Mi alzai a vedere se c’era qualcosa per terra che aveva riflesso luce solare proiettandomi l’immagine. Sentii come una domanda, un punto interrogativo sospeso in aria, o appoggiato all’erba dove stavo guardando. Chiusi gli occhi e mi sfregai le meningi. Allucinazioni, ero preda di allucinazioni. Ora non potevo più mentirmi, ero pazza. Vedevo punti interrogativi sull’erba!

Avvistai di nuovo il simbolo, ma avevo gli occhi chiusi, me lo stavo sicuramente immaginando. Però era perfetto, non si vedeva neanche il disegno di geometria sotto! Poi di nuovo il sorriso e contemporaneamente una specie di sensazione di felicità, eppure mi sentivo ancora confusa; il che mi disorientava ulteriormente. Non mi era mai accaduto di provare due sensazioni tanto diverse insieme. Mi domandai se ciò fosse possibile. Poi un viso. Aveva un pigmento più scuro della pelle, come se fosse molto abbronzato. Le labbra erano piene, il naso dalle narici leggermente larghe, un po’ la fisionomia dei popoli africani. Aveva occhi verde intenso e capelli ricci nero carbone. Era il viso di ragazzo più bello che avessi mai visto, eppure dovevo averlo notato da qualche parte, per immaginarlo così ricco di particolari. Poi anche il volto scomparve e rimase il punto interrogativo. Ebbi la sensazione che mi venisse chiesta la mia presentazione. Chi me lo chiedeva? Perché rispondere? Le soluzioni che mi davo mi riportavano alle stesse domande. Stavo precipitando nella confusione più totale. Mi sentii invadere dalla calma, che però non sembrava mia.

Aprii gli occhi, per tornare alla realtà. Quello che mi stava capitando era decisamente confuso e surreale.

Andai a lavarmi il viso per svegliarmi, ero arrivata alla conclusione di aver sognato tutto. Quando alzai lo sguardo e mi vidi riflessa allo specchio fui travolta da quella sensazione di felicità, strana, non mia. Un altro sorriso. La confusione mi circondava e vi annegavo; forse, come salvagente, iniziarono a susseguirsi moltissime immagini, come in un film. Erano rappresentazioni che raccontavano giornate di qualcuno che abitava in Italia, la città mi sembrava di conoscerla.

 

Fino ad allora avevo trascorso i pomeriggi a comprendere il simbolo. Ora, che lo avevo risolto, mi ritrovavo a fissarlo. In quei periodi ero impaziente, mi sembrava di dover fare qualcosa, ma cosa?

Perdevo la cognizione del tempo, trascorrevo ore a ricevere immagini che non mi appartenevano, ma che forse rispondevano ai miei perché.

Lentamente, inconsciamente, nel giro di qualche mese iniziai ad accettarle. Alla fine capii che in quei mesi ero stata in comunicazione con qualcuno, forse il ragazzo dagli occhi verdi, e che la chiave di tutto era il simbolo. Nel fissare il simbolo trasmisi questa nuova consapevolezza, le spiegazioni divennero più precise e capii che questa comunicazione era basata, proprio, sul trasmettere immagini e sensazioni. Lui era l’unico capace di usarla oltre a me.

 

Per il resto dell’anno scolastico restammo in contatto. Parlavamo soprattutto prima di addormentarci, dove non dovevo concentrarmi su qualcosa.

Era passata una settimana dalla fine della scuola quando, mentre facevo colazione, vidi un aereo e poi un sorriso. Risposi con un punto interrogativo. Lui mi mostrò un aeroporto, poi una città, quella la conoscevo, era la mia. Stava venendo da me. Ero super mega felice e risposi con quelle emozioni. –Rianne, sai bene?- mi chiese mia sorella. Mi stava guardando confusa.

- Si! – per poco non urlai dalla felicità.

Allora perché sei rimasta immobile per quasi quindici minuti?- mi chiese guardando l’orologio.

- Mi ero incantata. – risposi stupita di aver parlato così tanto.

 

-Mamma, ti prego. Ti prego. Andiamo a quel centro commerciale?- chiesi quasi piangendo. Era una scusa naturalmente. Volevo andare ad aspettare Lui, ma certamente non volevo dirlo a mia madre. Avevo trovato il pretesto di andare a fare acquisti lì vicino, poi usare un scusa per raggiungere l’aeroporto.

- Va bene. – acconsentì mamma. – Io però devo andare al lavoro quindi sbrigati – Ok, non c’era neanche bisogno della scusa.

Mi lasciò davanti al centro commerciale. Io aspettai che svoltasse e poi mi diressi all’aeroporto. Aprii il collegamento, e gli mostrai dov’ero. Lui sorrise.

Lo aspettai davanti al terminal, dove sarebbe uscito. Chiacchierando con lui, o meglio scambiandoci la gioia di poterci finalmente incontrare.

Lo vidi quando uscì e incontrammo i nostri occhi nello stesso momento. Era più alto di quanto immaginassi, o di quanto mi avesse mostrato. Ma era bello come lo avevo visto.

- Ciao!- mi disse, la sua prima parola che sentii. Aveva la voce roca e sorrideva.

- Ciao!- la mia voce sembrava quella di una rana e arrossii.

Incominciammo a camminare. Io ero imbarazzata, non riuscivo ad essere normale accanto a lui, così grande. Vidi un sorriso e poi un punto di domanda. Io risposi con un punto interrogativo. Non sapevo cosa mi stava succedendo.

- Non aspettavi me?- chiese fermandosi e sedendosi su una panchina davanti al centro commerciale.

- No. Tu sei tu. Solo... che non so cosa dire. – risposi, imbarazzata.

- Sono Danilo. Non ero mai riuscito a dirtelo prima. –disse sorridendo e guardandomi.

- Rianne – dissi.

Ho diciassette anni. Anche questo era piuttosto difficile da dire – aggiunse.

Sedici – bofonchiai. Come mai ero tanto timida? Prima ero felicissima di incontrarlo e adesso non ero capace di scambiare una parola!

- per convincerti ce ne è voluto di tempo! E ogni tanto non mi ascolti, perché?- mi chiese.

- Ehm, a volte non sono tanto sicura che tutto questo sia vero. A volte mi sembra di essere pazza. – Come potevo spiegargli che aspettavo la sera per poter conversare con lui?

- Oh, anche a me succede, e da più tempo!-. Rise. Il suono era bello, il suo sorriso era diverso da come me lo mostrava, era... vero, reale.

Mi accorsi che entrambi ci fissavamo e rimanevamo in silenzio. Volevo dire qualcosa, ma non sapevo cosa. Non mi veniva in mente niente.

- Ehm, sto qua per una settimana, da mio zio – disse.

 

Durante quella settimana ero in un altro mondo. Passavo praticamente tutto il giorno a girovagare per la città, con lui. Suo zio abitava solo a qualche isolato di distanza. Gli mostrai molti posti, ma ne scoprii anche di nuovi. Credo di non aver mai camminato tanto. La sera rimanevamo comunque in contatto, senza però mostrarci niente. Era molto utile come ninna nanna. O forse mi addormentavo subito perché ero stanchissima.

 

Lo accompagnai al aeroporto. Per convincere i miei genitori, questa volta era stato più difficile. Avevo inventato la presenza di un’amica con cui sarei andata per negozi.

Stavo cambiato, non avrei mai pensato di essere capace di raccontare una bugia tanto grande, tanto... inventata ai miei genitori. Con loro avevo un rapporto piuttosto amichevole.

- Ciao- dissi. L’aeroporto doveva farmi uno strano effetto. Quando ero lì, ero timida.

- Ciao- anche lui era a disagio. O forse era solo una mia idea.

Si voltò, fece qualche passo, sembrava combattere qualcosa. Mi dava la sensazione che stesse per voltarsi... e così fece.

Tornò verso di me, un sorriso, il solito, sulle labbra. Si fermo quando era davanti a me. Lo fissavo negli occhi e lui nei miei. Mi sentivo in dover di dire qualcosa, ma non avevo la più pallida idea su cosa. Perché mi guardava negli occhi? Perché sembrava combattere contro se stesso? E soprattutto, perché mi faceva un così strano effetto avere i suoi occhi nei miei? Ma a questa domanda dovevo rispondermi da sola.

Avvicinò il viso, il mio cuore prese il volo, mentre premeva la labbra sulle mie. Calde, morbide. Le sfiorò per un solo istante eppure a me sembrò infinito. Si voltò e, senza salutarmi, se ne andò.

PERCHE’? urlavo dentro di me. Perché se ne andava? Volevo ancora baciarlo. Volevo stare ancora con lui. Volevo sapere cosa pensava, ora. Eppure, dentro di me, non volli accendere la comunicazione.

Gli parlai solo la sera, come sempre. L’emozione che traspariva e mi sommergeva completamente era l’imbarazzo. Erano il suo e il mio, il nostro. Entrambi eravamo imbarazzati, tanto che mi sentii arrossire, come se lo avessi davanti.

Poi lui mi mostrò il nostro bacio, la felicità che aveva provato e che provava. Io sorrisi e gli risposi con le stesse emozioni. Il suo sorriso mi abbagliò in risposta. L’imbarazzo si era volatilizzato. Capii che anche lui provava quello che provavo io. Mi addormentai con il pensiero del suo bacio.

 

- Andiamo in vacanza, domani. – dichiarò papà a colazione la domenica mattina.

- Dove?- chiese mia sorella, anche lei visibilmente scontenta.

- Ci siamo già andati. E’ al mare. Dove staziona, per due settimane, un’importante squadra di basket. Non posso perdere l’occasione. E’ in Sardegna. Guarda, ecco il depliant – disse porgendo a mia sorella il volantino.

Lei sorrise, al mare era sempre meglio che in montagna o in un'altra città uguale alla nostra. Anche io pensavo come lei. In quei casi provavamo le stesse emozioni.

Mi porse il volantino e rimasi a bocca aperta. Scritto enorme c’era Porto S. Paolo. Ma l’immagine sotto mi aveva bloccato più di ogni altra cosa. In un attimo, o forse in un secolo, feci il collegamento. Lasciai che la mia felicità si espandesse nel contatto. Lui me ne domandò il perché. Io risposi con la foto del depliant. Lui replicò con la mia stessa contentezza.

-Rianne, Rianne. Non ti va bene il posto? Non ti piace?- chiese quasi isterico papà.

- No, è perfetto. Domandi andiamo a Porto S. Paolo – dichiarai. Avevo voglia di saltare, quasi di ballare. – Vado a fare le valige. – Avevo bisogno di calmarmi.

Domani sarei andata da Danilo.

 

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