Laboratorio sociale Miagliano: colpa e merito dei Poma
Per superficie è il comune meno esteso d’Italia dopo il minuscolo Atrani. Miagliano misura solo 0,66 Km quadrati. Da Salerno in su non c’è paese più piccolo, solo Città del Vaticano ha un’estensione inferiore, 44 ettari, ma quello è uno stato estero. Un esperimento di laboratorio, ancorché di “chimica sociale”, necessita di uno spazio delimitato e determinato, possibilmente non troppo grande. Il Biellese avrebbe potuto offrire altre località con il suddetto requisito (Ternengo, Selve Marcone e Gifflenga coprono all’incirca due chilometri quadrati e, ancora oggi, si trovano tra i cento comuni più minuti del Belpaese), ma nessun altro ha avuto un destino industriale. Miagliano è quello che si dice un “case history”, un esempio da manuale, un esemplare unico da studiare. Dal 1861 al 1901 la sua popolazione è più che quadruplicata, da 300 a 1.300 anime. Colpa e merito dei Poma. Probabilmente, nello stesso lasso di tempo, vede moltiplicata per dieci volte, o anche di più, la volumetria degli edifici. Merito e colpa dei Poma. Un villaggio tra le colline, un pugno di case su un terreno quasi pianeggiante, e un torrente. Una famiglia di imprenditori e una produzione, quella cotoniera, che a Biella non viveva la concorrenza di quella laniera. Il Cervo offre la forza motrice, il paese sceglie (o, piuttosto, non può non scegliere) di abbandonare l’agricoltura di sussistenza per accogliere una grande fabbrica. La comunità diventa forza lavoro, la gente diviene maestranza, ma le braccia dei miaglianesi non bastano. Filande e telai attraggono come magneti. Le case dei miglianesi non bastano. Lo stabilimento si propaga e si intreccia con l’esiguo tessuto urbano, lo stravolge, lo riqualifica, lo migliora, lo amplia.
Poi il borgo medievale che fu contea dei Bertodano “scompare”, accerchiato e inglobato, nella company town (tra le più antiche e peculiari d’Europa) dei nuovi feudatari, i Poma. Il Castellazzo, diroccato fortilizio, risorge a magione degli imprenditori. Di norma la storia dell’archeologia e della paleoantropologia industriale di Miagliano termina qui. A dire il vero, però, questo è solo l’inizio. Se ci si fermasse a questa “fotografia” della situazione non si potrebbe apprezzare alcun fenomeno, alcuna reazione. E’ come i singoli elementi fossero stati presenti su quello straordinario banco da alchimista sociale della fine dell’Ottocento, ma lontani, non interagenti tra di loro. Il contatto tra i reagenti, invece, ci fu eccome, ma di rado se ne descrivono gli effetti. Occorre allora ricapitolare. A Miagliano si poteva osservare una notevole concentrazione di capitale allo stato puro filantropico-paternalista, padronale e assistenzialista, biellese ma “invasore”, duro ma giusto (o giusto ma duro, a seconda del punto di vista), dedito al profitto, ma non così famelico da non comprendere che, ogni tanto, bisogna dare qualcosa per pretendere tutto o di più. A Miagliano si notava una consistente quantità di lavoro più o meno qualificato, tecnico ed esperto ma non molto scolarizzato, promiscuo per sesso, età e mentalità, autoctono e/o immigrato, vincolato alla fabbrica da un salario misero, ma pronto a emigrare in America per cercar fortuna o scampo. Sugli operai dei Poma agivano forze che, in un contesto circoscritto come quello di Miagliano, riuscivano a innescare tensioni superficiali e conflitti profondi. Non è noto se fosse o meno chiaro che quello era un terreno di coltura privilegiato per sperimentare la lotta, per affinare le armi, per farsi le ossa in previsione di altri scontri su palcoscenici più vasti. Cattolici e socialisti, mazziniani e anarchici, padri di famiglia e delinquenti, lavandaie instancabili e donne che sparano, gesti generosi e violenze gratuite, bambini, tanti bambini, obbligati a crescere troppo velocemente.
La convivenza forzata e povera in quei caseggiati affollati, in quel paese-reparto, in quel villaggio senza anima né storia. Erano i tempi, sul finire dell’Ottocento e all’inizio del secolo nuovo, del vino e del coltello, dei barabba e della rivoltella, dei comizi in trincea, dei preti d’assalto e delle invettive a mezzo stampa. Si considerino anche solo i cinque anni compresi tra il 1896 e il 1901: il risultato sarà già significativo. Il 26 aprile 1896, in una bella serata domenicale, ecco una “orgia di sangue” (così la definì “Biella Cattolica”) sulla strada che da Miagliano mena a Tollegno. Una piccola comitiva di allegri giovanotti viglianesi di ritorno da una gita, accompagnati da coetanei del posto, fu assalita da una banda, anzi da una “masnada”, di accoltellatori senza Dio. Il dottor Margary, accorso da Andorno, applicò punti di sutura per tutta la notte. Dieci tra i facinorosi furono tratti in arresto e l’immotivato attacco fu spiegato con la notoria rivalità tra gli operai dello stabilimento principale di Miagliano e quelli attivi nella sede della Polla. Trecento metri di distanza, stessi titolari, stessa paga, stesse case, eppure la differenza di potenziale era sufficiente per far scoccare una scintilla di crudeltà e di rivalsa.
I Poma, dal loro Olimpo, scesero e non si fecero sfuggire l’occasione per dare alla massa una lezione richiesta a gran voce dai fogli diocesani, spesso più realisti del re. “E’ tempo di finirla, prima che una reazione già latente si manifesti. Il primo esempio lo diede la Ditta fratelli Poma di Miagliano, che con savio umanitario provvedimento licenziò per sabato dal suo Cotonificio circa centoventi di queste scorie forestiere che inquinarono la nostra popolazione e per cui il delitto è vanto, la prostituzione onore ricercato.” Ecco, non poteva mancare l’ingrediente razzista, l’immortale diffidenza-paura del non nostrano. Per amore di verità o per gusto del contraddittorio qualcuno ebbe voglia di correggere il tiro precisando che i feritori arrestati erano tutti miaglianesi e che la “spedizione punitiva” era tutta in famiglia o quasi. In questo clima, due mesi dopo, i lavoratori dimostrarono affetto e rispetto per i loro datori di lavoro. Bassorilievo in bronzo del Biscarra con cornice di granito, epigrafe asciutta per Antonio e Giuseppe Poma a dar lustro al frontone dello opificio e a celebrare il “mondo nuovo” creato dagli stessi Poma, fieri degli “alti fumaioli che mandano al cielo nugoli di fumo come tributo a Dio del lavoro che ferve.” Un idillio di concordia e di do ut des. Eppure, due anni dopo un altro centinaio di dipendenti fu messo alla porta. Erano i ragazzi e le ragazze che nascondevano, in una intercapedine ricavata sotto il pavimento, parte dei pacchi di filato che dovevano produrre e consegnare. Poi li spacciavano sottobanco, finchè qualcuno non se n’era accorto e/o aveva fatto la spia. Tre tonnellate, 12.000 lire di allora. Gli asili, le opere sociali, le cooperative, le scuole, il benessere diffuso in quel “mondo nuovo” di cui sopra non era sufficiente o, forse, non era così diffuso.
Nel mentre il parroco di Miagliano era chiamato in causa dalla “Lega di Resistenza” rossa, accusato di far comunella con il padrone e don Cantono, campione della democrazia cristiana, ebbe non poche difficoltà a terminare la sua conferenza nel “caldo” novembre del 1901. Fu interrotto e rintuzzato dai socialisti locali, poi si “mandarono a chiamare soccorso ai caporioni gratuiti del partito: Casalini e Savio.” Stando a “il Biellese” i due si esibirono “in mezzo ad una truppa di anarcoidi ammaestrati” e non seppero dir altro che “nella enciclica del Papa sugli operai vi sono dei sofismi.” C’erano poi le vie di fatto, le pistolettate, anche al femminile. Il 5 dicembre 1898 Caterina G. piantò un proiettile nella nuca di Emilia C. Per miracolo la vittima se la cavò senza conseguenze. La tentata esecuzione aveva radici lontane, in un fatto di scioperi e di crumiraggi di qualche anno prima, quando la ferita “aveva servito così vilmente agli interessi della borghesia.” La pistolera miaglianese “ragazza alta, bruna, dalle linee maschili e da molti anni affiliata al partito anarchico” si era immediatamente imbarcata con destinazione Paterson da dove non è tornata. L’odierna quiete di Miagliano cela epoche tristi e cattive dalle quali, però, è nata, in una provetta di shed e palazzine, quella in cui viviamo.
Danilo Craveia
Per superficie è il comune meno esteso d’Italia dopo il minuscolo Atrani. Miagliano misura solo 0,66 Km quadrati. Da Salerno in su non c’è paese più piccolo, solo Città del Vaticano ha un’estensione inferiore, 44 ettari, ma quello è uno stato estero. Un esperimento di laboratorio, ancorché di “chimica sociale”, necessita di uno spazio delimitato e determinato, possibilmente non troppo grande. Il Biellese avrebbe potuto offrire altre località con il suddetto requisito (Ternengo, Selve Marcone e Gifflenga coprono all’incirca due chilometri quadrati e, ancora oggi, si trovano tra i cento comuni più minuti del Belpaese), ma nessun altro ha avuto un destino industriale. Miagliano è quello che si dice un “case history”, un esempio da manuale, un esemplare unico da studiare. Dal 1861 al 1901 la sua popolazione è più che quadruplicata, da 300 a 1.300 anime. Colpa e merito dei Poma. Probabilmente, nello stesso lasso di tempo, vede moltiplicata per dieci volte, o anche di più, la volumetria degli edifici. Merito e colpa dei Poma. Un villaggio tra le colline, un pugno di case su un terreno quasi pianeggiante, e un torrente. Una famiglia di imprenditori e una produzione, quella cotoniera, che a Biella non viveva la concorrenza di quella laniera. Il Cervo offre la forza motrice, il paese sceglie (o, piuttosto, non può non scegliere) di abbandonare l’agricoltura di sussistenza per accogliere una grande fabbrica. La comunità diventa forza lavoro, la gente diviene maestranza, ma le braccia dei miaglianesi non bastano. Filande e telai attraggono come magneti. Le case dei miglianesi non bastano. Lo stabilimento si propaga e si intreccia con l’esiguo tessuto urbano, lo stravolge, lo riqualifica, lo migliora, lo amplia.
Poi il borgo medievale che fu contea dei Bertodano “scompare”, accerchiato e inglobato, nella company town (tra le più antiche e peculiari d’Europa) dei nuovi feudatari, i Poma. Il Castellazzo, diroccato fortilizio, risorge a magione degli imprenditori. Di norma la storia dell’archeologia e della paleoantropologia industriale di Miagliano termina qui. A dire il vero, però, questo è solo l’inizio. Se ci si fermasse a questa “fotografia” della situazione non si potrebbe apprezzare alcun fenomeno, alcuna reazione. E’ come i singoli elementi fossero stati presenti su quello straordinario banco da alchimista sociale della fine dell’Ottocento, ma lontani, non interagenti tra di loro. Il contatto tra i reagenti, invece, ci fu eccome, ma di rado se ne descrivono gli effetti. Occorre allora ricapitolare. A Miagliano si poteva osservare una notevole concentrazione di capitale allo stato puro filantropico-paternalista, padronale e assistenzialista, biellese ma “invasore”, duro ma giusto (o giusto ma duro, a seconda del punto di vista), dedito al profitto, ma non così famelico da non comprendere che, ogni tanto, bisogna dare qualcosa per pretendere tutto o di più. A Miagliano si notava una consistente quantità di lavoro più o meno qualificato, tecnico ed esperto ma non molto scolarizzato, promiscuo per sesso, età e mentalità, autoctono e/o immigrato, vincolato alla fabbrica da un salario misero, ma pronto a emigrare in America per cercar fortuna o scampo. Sugli operai dei Poma agivano forze che, in un contesto circoscritto come quello di Miagliano, riuscivano a innescare tensioni superficiali e conflitti profondi. Non è noto se fosse o meno chiaro che quello era un terreno di coltura privilegiato per sperimentare la lotta, per affinare le armi, per farsi le ossa in previsione di altri scontri su palcoscenici più vasti. Cattolici e socialisti, mazziniani e anarchici, padri di famiglia e delinquenti, lavandaie instancabili e donne che sparano, gesti generosi e violenze gratuite, bambini, tanti bambini, obbligati a crescere troppo velocemente.
La convivenza forzata e povera in quei caseggiati affollati, in quel paese-reparto, in quel villaggio senza anima né storia. Erano i tempi, sul finire dell’Ottocento e all’inizio del secolo nuovo, del vino e del coltello, dei barabba e della rivoltella, dei comizi in trincea, dei preti d’assalto e delle invettive a mezzo stampa. Si considerino anche solo i cinque anni compresi tra il 1896 e il 1901: il risultato sarà già significativo. Il 26 aprile 1896, in una bella serata domenicale, ecco una “orgia di sangue” (così la definì “Biella Cattolica”) sulla strada che da Miagliano mena a Tollegno. Una piccola comitiva di allegri giovanotti viglianesi di ritorno da una gita, accompagnati da coetanei del posto, fu assalita da una banda, anzi da una “masnada”, di accoltellatori senza Dio. Il dottor Margary, accorso da Andorno, applicò punti di sutura per tutta la notte. Dieci tra i facinorosi furono tratti in arresto e l’immotivato attacco fu spiegato con la notoria rivalità tra gli operai dello stabilimento principale di Miagliano e quelli attivi nella sede della Polla. Trecento metri di distanza, stessi titolari, stessa paga, stesse case, eppure la differenza di potenziale era sufficiente per far scoccare una scintilla di crudeltà e di rivalsa.
I Poma, dal loro Olimpo, scesero e non si fecero sfuggire l’occasione per dare alla massa una lezione richiesta a gran voce dai fogli diocesani, spesso più realisti del re. “E’ tempo di finirla, prima che una reazione già latente si manifesti. Il primo esempio lo diede la Ditta fratelli Poma di Miagliano, che con savio umanitario provvedimento licenziò per sabato dal suo Cotonificio circa centoventi di queste scorie forestiere che inquinarono la nostra popolazione e per cui il delitto è vanto, la prostituzione onore ricercato.” Ecco, non poteva mancare l’ingrediente razzista, l’immortale diffidenza-paura del non nostrano. Per amore di verità o per gusto del contraddittorio qualcuno ebbe voglia di correggere il tiro precisando che i feritori arrestati erano tutti miaglianesi e che la “spedizione punitiva” era tutta in famiglia o quasi. In questo clima, due mesi dopo, i lavoratori dimostrarono affetto e rispetto per i loro datori di lavoro. Bassorilievo in bronzo del Biscarra con cornice di granito, epigrafe asciutta per Antonio e Giuseppe Poma a dar lustro al frontone dello opificio e a celebrare il “mondo nuovo” creato dagli stessi Poma, fieri degli “alti fumaioli che mandano al cielo nugoli di fumo come tributo a Dio del lavoro che ferve.” Un idillio di concordia e di do ut des. Eppure, due anni dopo un altro centinaio di dipendenti fu messo alla porta. Erano i ragazzi e le ragazze che nascondevano, in una intercapedine ricavata sotto il pavimento, parte dei pacchi di filato che dovevano produrre e consegnare. Poi li spacciavano sottobanco, finchè qualcuno non se n’era accorto e/o aveva fatto la spia. Tre tonnellate, 12.000 lire di allora. Gli asili, le opere sociali, le cooperative, le scuole, il benessere diffuso in quel “mondo nuovo” di cui sopra non era sufficiente o, forse, non era così diffuso.
Nel mentre il parroco di Miagliano era chiamato in causa dalla “Lega di Resistenza” rossa, accusato di far comunella con il padrone e don Cantono, campione della democrazia cristiana, ebbe non poche difficoltà a terminare la sua conferenza nel “caldo” novembre del 1901. Fu interrotto e rintuzzato dai socialisti locali, poi si “mandarono a chiamare soccorso ai caporioni gratuiti del partito: Casalini e Savio.” Stando a “il Biellese” i due si esibirono “in mezzo ad una truppa di anarcoidi ammaestrati” e non seppero dir altro che “nella enciclica del Papa sugli operai vi sono dei sofismi.” C’erano poi le vie di fatto, le pistolettate, anche al femminile. Il 5 dicembre 1898 Caterina G. piantò un proiettile nella nuca di Emilia C. Per miracolo la vittima se la cavò senza conseguenze. La tentata esecuzione aveva radici lontane, in un fatto di scioperi e di crumiraggi di qualche anno prima, quando la ferita “aveva servito così vilmente agli interessi della borghesia.” La pistolera miaglianese “ragazza alta, bruna, dalle linee maschili e da molti anni affiliata al partito anarchico” si era immediatamente imbarcata con destinazione Paterson da dove non è tornata. L’odierna quiete di Miagliano cela epoche tristi e cattive dalle quali, però, è nata, in una provetta di shed e palazzine, quella in cui viviamo.
Danilo Craveia