Il cinerario di San Francesco: la cremazione riporta i morti in chiesa
Entrando nella chiesa di San Francesco di Biella, quella che tutti conoscono come la “chiesa dell’Ospedale” (uno dei pochi edifici di culto di recente costruzione che non sembra un capannone prefabbricato), si scorge nella navata sinistra una sorta di armadio. A dire il vero si nota poco perché le cromie e le linee sono talmente coerenti con l’architettura e le decorazioni interne che quella presenza appare non estranea o nuova. E’ come se quel mobile fosse lì da sempre, elegante ma poco vistoso. Un unico, modulato intarsio lapideo adorna le due ante. Raffigura la Resurrezione di Cristo. Il Redentore benedicente si erge sul sepolcro dopo aver sovvertito l’ordine umano delle cose, ossia dopo essere tornato da dove non si torna. La tomba è aperta, la pietra rimossa. Accanto un angelo indica Gesù per sottolineare che Lui è risorto, cioè ha sconfitto la morte. L’opera, firmata da Albano Poli, è “moderna”, ma è efficace e poetica, di per sè materica, ma lirica e, soprattutto, armonica rispetto all’ambiente in cui è stata collocata. Ma se lo scrigno è prezioso ancora di più lo sarà il suo contenuto. Queste colonne nascono da quel contenitore artistico e particolare. Si tratta infatti di un cinerario che da oggi attende di accogliere le urne, ovvero le ceneri, di coloro che vorranno eleggere a eterna dimora la chiesa di San Francesco, un contesto vitale per Fede e iniziative e, da un certo punto di vista, non nuovo alla condivisione di spazi tra vivi e defunti. In effetti la “chiesa dell’Ospedale” (che per molti è rimasta tale anche se il nosocomio cittadino è stato trasferito) sorge nelle adiacenze dell’antico convento di San Pietro, edificato dagli agostiniani nel Medioevo. Quel monastero, che nel 1800 fu demanializzato e trasformato nell’Ospedale degli Infermi di Biella, aveva ovviamente una sua chiesa (che si “intuisce” ancora: è il corpo di fabbricato ove era situato il dismesso obitorio) e un suo cimitero. Il 19 settembre 1358 furono consacrati entrambi, chiesa e camposanto, l’una dentro l’altro e viceversa, quindi seppellire in zona non è una novità. Adesso non si tratta più di dar sepoltura ai cadaveri sotto il pavimento delle navate e delle cappelle laterali (Napoleone docet), bensì di custodire i resti dei cristiani cremati. Ecco il senso del cinerario. Questa rinnovata possibilità di comunione svela inoltre tutto un “mondo”, quello della cremazione e della sua storia che, anche per il Biellese, merita un po’ di attenzione perché sconosciuta ai più, sebbene ormai il 50% degli “aventi causa e diritto”, cioè i morti, ricorra già (almeno nel Nord Italia) al forno crematorio e non più alla metodica tradizionale. E’ quindi questa una duplice buona occasione per affrontare questo democratico (la “livella” di Totò riguarda proprio tutti, senza distinzioni) quanto dilettevole argomento.
L’8 maggio 2016 si è verificato in quel di Biella un piccolo grande evento storico. I resti mortali di una donna deceduta da tempo e tumulata nel cimitero cittadino sono stati cremati. E’ stata la prima cremazione effettuata da queste parti, ovvero il “battesimo del fuoco”, è il caso di dirlo, per il tempio crematorio della Città di Biella. Poco più di un anno fa, con la incinerazione di Giuseppina Buffa (per inciso la mamma di don Egidio Marazzina che, mancato il 20 aprile 2016, aveva già disposto per la sua cremazione e anche per quella del defunto padre, cosicché la famiglia ha potuto essere riunita in tre cellette vicine), è finita un’attesa lunga quasi un secolo e mezzo ed è iniziata una nuova era. Il tema della cremazione dei cadaveri è affascinante quanto sobriamente divisivo perché riguarda molti aspetti tra i più intimi e profondi della dimensione antropologica, civile, religiosa e sociale degli esseri umani. Soprattutto in questa parte di mondo dove la Chiesa da sempre ha scelto e difeso l’esclusività dell’inumazione come sistema di gestione dei corpi dei morti. Eppure come è accaduto in molteplici altri contesti, l’alternativa rispetto alla terra o ai loculi si è imposta comunque, anche quando era a tutti gli effetti contraria alle regole del Diritto Canonico e, più ancora, della Dottrina Cristiana. Sebbene le Scritture ci abbiamo sempre ricordato che siamo polvere (ma non cenere) e che la polvere sarà il nostro destino “fisico”, la sepoltura del corpo era da presidiare a tutti i costi perché, malgrado la disgregazione del corpo stesso, quella che ci attende è le vera resurrezione della carne. Il che si palesa “contraddittorio” a fronte della pressoché totale corrosione, trascorso poco tempo, della carne risurgenda. Eppure è dall’avello che il buon cristiano uscirà dopo il Giorno del Giudizio, ma solo se il suo corpo mortale si sarà mantenuto almeno idealmente integro, tutto raccolto nello stesso posto. Il problema (e da qui il veto) della cremazione è che trasforma il suddetto corpo mortale in un mucchietto di cenere che, in quanto tale, è potenzialmente volatile, ossia adatto per la dispersione. In quello stato è dunque impensabile una qualsiasi resurrezione. A ben guardare, infatti, la Chiesa medesima praticava con il rogo la cremazione, intesa come rito purificatorio non tanto dell’anima (che il Buon Dio, anche del peggior eretico, aveva già chiamato misericordiosamente a sè in quanto il reo resosi confesso e pentito dei suoi peccati), quanto piuttosto della “materia organica” diabolica ed esecranda, al punto di non voler correre il rischio di vederla ricomparire in qualche modo. Si distruggeva con il fuoco ciò che non doveva ricomporsi. Da qui la condanna non solo alla combustione, ma alla suddetta dispersione delle ceneri.
In ogni caso, roghi a parte, per quanto il Cattolicesimo si sia opposto alla cremazione, quest’ultima si è affermata dalla fine del XIX secolo come opzione laica (e un po’ massonica), igienica e, più che altro, funzionale. In verità anche molti credenti e praticanti si sono lasciati tentare e convincere dalla prospettiva di passare nel forno e poi nell’urna. Quando nel 1963 il Concilio Ecumenico Vaticano II aprì alla cremazione come possibilità tollerata, quei fedeli poterono disporre di sé post mortem senza più doversi porre gravi casi di coscienza. Era passato quasi un secolo dalla nascita della cremazione moderna, ma al cospetto della morte non c’è mai fretta. L’entrata in esercizio del forno crematorio di Biella nel maggio del 2016 ha risposto a una precisa e sempre più pressante esigenza, ma il traguardo è stato ben poco agevole da raggiungere e il percorso è interessante da ricostruire. Va perciò premesso che i biellesi hanno una certa familiarità con la cremazione. Non si sono fatti mancare niente ai tempi delle streghe (la povera Giovanna di Miagliano, tanto per fare un nome, arsa viva nel 1471) e anche oggi paganeggiano con disinvoltura attorno ai falò, siano essi quelli abbondanti di Rongio o quelli comburenti il Baby, moderno retaggio dell’antica pratica di “cremare il Carnovale” (si diceva proprio così, con quel verbo e con la “o”) in piazza d’Armi. Semel in anno, d’accordo, ma tant’è. Senza contare che nel I secolo d.C. i nostri antenati cives romani si facevano seppellire in urnette cinerarie vitree o di coccio, come è stato rivelato dagli scavi degli Anni ‘50 ai piedi della Vialarda. Come detto, per le note vicende storiche, la cremazione è di fatto scomparsa dall’uso comune per parecchi secoli, ma quando nella Milano della seconda metà dell’Ottocento l’ipotesi è tornata d’attualità come possibilità o necessità, anche a Biella se n’è discusso eccome. I forni crematori attivati in via sperimentale presso il Cimitero Monumentale meneghino da Polli e Clericetti nel 1876 e poi dal riconosciuto padre della cremazione, ossia lo scienziato lodigiano Paolo Gorini (1813-1881), suscitarono appassionate polemiche a mezzo stampa sui principali fogli locali. Uomini del calibro di Ernesto Flaminio Bona, avvocato di fama, si opponevano più per ragioni giudiziarie (per esempio in caso di esumazioni in corso di procedimenti penali rese impossibili dalla cremazione), che morali o religiose, pur dando atto a chi propugnava il nuovo procedimento di averlo reso meno irriguardoso verso i cadaveri. Con tutto che i costi, all’epoca, risultavano gravosi e lo stesso Bona ne sconsigliava il carico per le pubbliche amministrazioni. Tuttavia il suo pensiero era equilibrato e lasciava anche una certa libertà d’azione extra confessionale, a patto che gli ufficiali medici e i prefetti fossero responsabili di ciascun provvedimento di assenso a favore dei cremandi. Allora a nessuno era ancora venuto in mente di allestire in Biella un forno crematorio ma, sebbene le posizioni più convincenti fossero quelle conservatrici, le esperienze di Milano e i successi internazionali del “metodo Gorini” non cessavano di presentarsi agli amministratori della cosa pubblica come una possibile soluzione al problema della “sovrappopolazione” dei cimiteri e del costante bisogno di ampliamenti. Più gente viva, più gente morta e le aree utili diventavano sempre più ridotte e quindi costose.
A conti fatti un’urna occupa meno spazio e significa meno lavoro di una bara e, dati i grandi numeri, la variazione sul tema genera uno scenario di risparmio economico non trascurabile. La prima proposta documentata di costruzione di un forno crematorio nel Biellese si fece nel 1912. In seno al Consiglio Comunale di Biella una minoranza di consiglieri (Savio, Daneo, Barbera e Neri) presentò istanza affinché si prendesse in esame la realizzazione dell’impianto, ma malgrado il sindaco Corradino Sella fosse notoriamente favorevole alla cremazione, l’intento non ebbe seguito. Dopo le due guerre, in attesa della svolta del 1963, i cremati erano ancora una percentuale minima, e anche l’effetto delle positive decisioni conciliari in materia non fu subito dirompente. Prova ne sia che nel 1975 le cremazioni eseguite presso il cimitero di Torino furono poco più di 400 su 13.000 sepolture. In quelle quattro centinaia, però, i biellesi costituivano una quota assai cospicua, segno che da noi la cenere esercitava già una certa attrazione. Tra il 1982 e il 1986 il Comune di Biella ha più volte affrontato il punto all’ordine del giorno (anche valutando l’opportunità di attivarlo presso il cimitero di Chiavazza), ma per il tempio crematorio i tempi non erano ancora maturi. Trent’anni dopo la maturazione è avvenuta. “Socrebi (Società Cremazione Biella) nasce nel 2003 da un’idea di Roberto Ravetti, figlio di Mario, storico impresario funebre del Biellese, con il preciso scopo di fornire al territorio un proprio Tempio Crematorio” (www.socrebi.it). Nel maggio del 2016, come detto, quell’idea si è potuta concretizzare. E il “Tempio Crematorio” di Biella e la sua realtà operativa richiedono un maggiore approfondimento, che è solo rimandato di poco. Nel frattempo i tanti assidui e i prossimi novelli frequentatori della chiesa di San Francesco diano un’occhiata al cinerario e, come è doveroso e giusto, facciano “due righe di conti” (non finanziari, gli altri...) e fatti anche i doverosi e giusti riti scaramantici si prendano il tempo per una serena valutazione. Tra l’altro nella “chiesa dell’Ospedale” non avrebbero solo il conforto perpetuo di messe e rosari, bensì anche, di tanto in tanto, di buona musica e di una vivace compagnia.Danilo Craveia
Entrando nella chiesa di San Francesco di Biella, quella che tutti conoscono come la “chiesa dell’Ospedale” (uno dei pochi edifici di culto di recente costruzione che non sembra un capannone prefabbricato), si scorge nella navata sinistra una sorta di armadio. A dire il vero si nota poco perché le cromie e le linee sono talmente coerenti con l’architettura e le decorazioni interne che quella presenza appare non estranea o nuova. E’ come se quel mobile fosse lì da sempre, elegante ma poco vistoso. Un unico, modulato intarsio lapideo adorna le due ante. Raffigura la Resurrezione di Cristo. Il Redentore benedicente si erge sul sepolcro dopo aver sovvertito l’ordine umano delle cose, ossia dopo essere tornato da dove non si torna. La tomba è aperta, la pietra rimossa. Accanto un angelo indica Gesù per sottolineare che Lui è risorto, cioè ha sconfitto la morte. L’opera, firmata da Albano Poli, è “moderna”, ma è efficace e poetica, di per sè materica, ma lirica e, soprattutto, armonica rispetto all’ambiente in cui è stata collocata. Ma se lo scrigno è prezioso ancora di più lo sarà il suo contenuto. Queste colonne nascono da quel contenitore artistico e particolare. Si tratta infatti di un cinerario che da oggi attende di accogliere le urne, ovvero le ceneri, di coloro che vorranno eleggere a eterna dimora la chiesa di San Francesco, un contesto vitale per Fede e iniziative e, da un certo punto di vista, non nuovo alla condivisione di spazi tra vivi e defunti. In effetti la “chiesa dell’Ospedale” (che per molti è rimasta tale anche se il nosocomio cittadino è stato trasferito) sorge nelle adiacenze dell’antico convento di San Pietro, edificato dagli agostiniani nel Medioevo. Quel monastero, che nel 1800 fu demanializzato e trasformato nell’Ospedale degli Infermi di Biella, aveva ovviamente una sua chiesa (che si “intuisce” ancora: è il corpo di fabbricato ove era situato il dismesso obitorio) e un suo cimitero. Il 19 settembre 1358 furono consacrati entrambi, chiesa e camposanto, l’una dentro l’altro e viceversa, quindi seppellire in zona non è una novità. Adesso non si tratta più di dar sepoltura ai cadaveri sotto il pavimento delle navate e delle cappelle laterali (Napoleone docet), bensì di custodire i resti dei cristiani cremati. Ecco il senso del cinerario. Questa rinnovata possibilità di comunione svela inoltre tutto un “mondo”, quello della cremazione e della sua storia che, anche per il Biellese, merita un po’ di attenzione perché sconosciuta ai più, sebbene ormai il 50% degli “aventi causa e diritto”, cioè i morti, ricorra già (almeno nel Nord Italia) al forno crematorio e non più alla metodica tradizionale. E’ quindi questa una duplice buona occasione per affrontare questo democratico (la “livella” di Totò riguarda proprio tutti, senza distinzioni) quanto dilettevole argomento.
L’8 maggio 2016 si è verificato in quel di Biella un piccolo grande evento storico. I resti mortali di una donna deceduta da tempo e tumulata nel cimitero cittadino sono stati cremati. E’ stata la prima cremazione effettuata da queste parti, ovvero il “battesimo del fuoco”, è il caso di dirlo, per il tempio crematorio della Città di Biella. Poco più di un anno fa, con la incinerazione di Giuseppina Buffa (per inciso la mamma di don Egidio Marazzina che, mancato il 20 aprile 2016, aveva già disposto per la sua cremazione e anche per quella del defunto padre, cosicché la famiglia ha potuto essere riunita in tre cellette vicine), è finita un’attesa lunga quasi un secolo e mezzo ed è iniziata una nuova era. Il tema della cremazione dei cadaveri è affascinante quanto sobriamente divisivo perché riguarda molti aspetti tra i più intimi e profondi della dimensione antropologica, civile, religiosa e sociale degli esseri umani. Soprattutto in questa parte di mondo dove la Chiesa da sempre ha scelto e difeso l’esclusività dell’inumazione come sistema di gestione dei corpi dei morti. Eppure come è accaduto in molteplici altri contesti, l’alternativa rispetto alla terra o ai loculi si è imposta comunque, anche quando era a tutti gli effetti contraria alle regole del Diritto Canonico e, più ancora, della Dottrina Cristiana. Sebbene le Scritture ci abbiamo sempre ricordato che siamo polvere (ma non cenere) e che la polvere sarà il nostro destino “fisico”, la sepoltura del corpo era da presidiare a tutti i costi perché, malgrado la disgregazione del corpo stesso, quella che ci attende è le vera resurrezione della carne. Il che si palesa “contraddittorio” a fronte della pressoché totale corrosione, trascorso poco tempo, della carne risurgenda. Eppure è dall’avello che il buon cristiano uscirà dopo il Giorno del Giudizio, ma solo se il suo corpo mortale si sarà mantenuto almeno idealmente integro, tutto raccolto nello stesso posto. Il problema (e da qui il veto) della cremazione è che trasforma il suddetto corpo mortale in un mucchietto di cenere che, in quanto tale, è potenzialmente volatile, ossia adatto per la dispersione. In quello stato è dunque impensabile una qualsiasi resurrezione. A ben guardare, infatti, la Chiesa medesima praticava con il rogo la cremazione, intesa come rito purificatorio non tanto dell’anima (che il Buon Dio, anche del peggior eretico, aveva già chiamato misericordiosamente a sè in quanto il reo resosi confesso e pentito dei suoi peccati), quanto piuttosto della “materia organica” diabolica ed esecranda, al punto di non voler correre il rischio di vederla ricomparire in qualche modo. Si distruggeva con il fuoco ciò che non doveva ricomporsi. Da qui la condanna non solo alla combustione, ma alla suddetta dispersione delle ceneri.
In ogni caso, roghi a parte, per quanto il Cattolicesimo si sia opposto alla cremazione, quest’ultima si è affermata dalla fine del XIX secolo come opzione laica (e un po’ massonica), igienica e, più che altro, funzionale. In verità anche molti credenti e praticanti si sono lasciati tentare e convincere dalla prospettiva di passare nel forno e poi nell’urna. Quando nel 1963 il Concilio Ecumenico Vaticano II aprì alla cremazione come possibilità tollerata, quei fedeli poterono disporre di sé post mortem senza più doversi porre gravi casi di coscienza. Era passato quasi un secolo dalla nascita della cremazione moderna, ma al cospetto della morte non c’è mai fretta. L’entrata in esercizio del forno crematorio di Biella nel maggio del 2016 ha risposto a una precisa e sempre più pressante esigenza, ma il traguardo è stato ben poco agevole da raggiungere e il percorso è interessante da ricostruire. Va perciò premesso che i biellesi hanno una certa familiarità con la cremazione. Non si sono fatti mancare niente ai tempi delle streghe (la povera Giovanna di Miagliano, tanto per fare un nome, arsa viva nel 1471) e anche oggi paganeggiano con disinvoltura attorno ai falò, siano essi quelli abbondanti di Rongio o quelli comburenti il Baby, moderno retaggio dell’antica pratica di “cremare il Carnovale” (si diceva proprio così, con quel verbo e con la “o”) in piazza d’Armi. Semel in anno, d’accordo, ma tant’è. Senza contare che nel I secolo d.C. i nostri antenati cives romani si facevano seppellire in urnette cinerarie vitree o di coccio, come è stato rivelato dagli scavi degli Anni ‘50 ai piedi della Vialarda. Come detto, per le note vicende storiche, la cremazione è di fatto scomparsa dall’uso comune per parecchi secoli, ma quando nella Milano della seconda metà dell’Ottocento l’ipotesi è tornata d’attualità come possibilità o necessità, anche a Biella se n’è discusso eccome. I forni crematori attivati in via sperimentale presso il Cimitero Monumentale meneghino da Polli e Clericetti nel 1876 e poi dal riconosciuto padre della cremazione, ossia lo scienziato lodigiano Paolo Gorini (1813-1881), suscitarono appassionate polemiche a mezzo stampa sui principali fogli locali. Uomini del calibro di Ernesto Flaminio Bona, avvocato di fama, si opponevano più per ragioni giudiziarie (per esempio in caso di esumazioni in corso di procedimenti penali rese impossibili dalla cremazione), che morali o religiose, pur dando atto a chi propugnava il nuovo procedimento di averlo reso meno irriguardoso verso i cadaveri. Con tutto che i costi, all’epoca, risultavano gravosi e lo stesso Bona ne sconsigliava il carico per le pubbliche amministrazioni. Tuttavia il suo pensiero era equilibrato e lasciava anche una certa libertà d’azione extra confessionale, a patto che gli ufficiali medici e i prefetti fossero responsabili di ciascun provvedimento di assenso a favore dei cremandi. Allora a nessuno era ancora venuto in mente di allestire in Biella un forno crematorio ma, sebbene le posizioni più convincenti fossero quelle conservatrici, le esperienze di Milano e i successi internazionali del “metodo Gorini” non cessavano di presentarsi agli amministratori della cosa pubblica come una possibile soluzione al problema della “sovrappopolazione” dei cimiteri e del costante bisogno di ampliamenti. Più gente viva, più gente morta e le aree utili diventavano sempre più ridotte e quindi costose.
A conti fatti un’urna occupa meno spazio e significa meno lavoro di una bara e, dati i grandi numeri, la variazione sul tema genera uno scenario di risparmio economico non trascurabile. La prima proposta documentata di costruzione di un forno crematorio nel Biellese si fece nel 1912. In seno al Consiglio Comunale di Biella una minoranza di consiglieri (Savio, Daneo, Barbera e Neri) presentò istanza affinché si prendesse in esame la realizzazione dell’impianto, ma malgrado il sindaco Corradino Sella fosse notoriamente favorevole alla cremazione, l’intento non ebbe seguito. Dopo le due guerre, in attesa della svolta del 1963, i cremati erano ancora una percentuale minima, e anche l’effetto delle positive decisioni conciliari in materia non fu subito dirompente. Prova ne sia che nel 1975 le cremazioni eseguite presso il cimitero di Torino furono poco più di 400 su 13.000 sepolture. In quelle quattro centinaia, però, i biellesi costituivano una quota assai cospicua, segno che da noi la cenere esercitava già una certa attrazione. Tra il 1982 e il 1986 il Comune di Biella ha più volte affrontato il punto all’ordine del giorno (anche valutando l’opportunità di attivarlo presso il cimitero di Chiavazza), ma per il tempio crematorio i tempi non erano ancora maturi. Trent’anni dopo la maturazione è avvenuta. “Socrebi (Società Cremazione Biella) nasce nel 2003 da un’idea di Roberto Ravetti, figlio di Mario, storico impresario funebre del Biellese, con il preciso scopo di fornire al territorio un proprio Tempio Crematorio” (www.socrebi.it). Nel maggio del 2016, come detto, quell’idea si è potuta concretizzare. E il “Tempio Crematorio” di Biella e la sua realtà operativa richiedono un maggiore approfondimento, che è solo rimandato di poco. Nel frattempo i tanti assidui e i prossimi novelli frequentatori della chiesa di San Francesco diano un’occhiata al cinerario e, come è doveroso e giusto, facciano “due righe di conti” (non finanziari, gli altri...) e fatti anche i doverosi e giusti riti scaramantici si prendano il tempo per una serena valutazione. Tra l’altro nella “chiesa dell’Ospedale” non avrebbero solo il conforto perpetuo di messe e rosari, bensì anche, di tanto in tanto, di buona musica e di una vivace compagnia.Danilo Craveia