Grigioverde, dal telaio alla trincea. E Biella vestì la Grande Guerra

Grigioverde, dal telaio alla trincea. E Biella vestì la Grande Guerra
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Il tenente Frederic Henry, in quell’inverno tra il 1916 e il 1917, si trovava a Gorizia. Si combatteva appena oltre, sul Carso, ma la neve che stava cominciando a scendere avrebbe rallentato o fermato le operazioni. Una sera, sullo sfondo della coltre sporca e della fanghiglia delle strade, l’ufficiale americano e i suoi compagni d’arme cenavano nella mensa del reparto. A quel punto un altro colore si aggiungeva, con toni di metafora, al dipinto di quella retroguardia: il rosso del vino che mescevano dal fiasco. A pochi chilometri si versava, non tra amici e non al caldo, il sangue dei soldati. Ma mancava ancora una tinta a quella scena ed eccola arrivare addosso a un cappellano militare. “Il cappellano era giovane e arrossiva facilmente. Portava un’uniforme simile alla nostra, con una croce di velluto rosso sul taschino del grigioverde”. Sulla divisa del sacerdote c’era ancora un segno, un simbolo, una “goccia” di sangue ritagliata nella mostreggiatura cruciforme (che non era di velluto, ma di stoffa molto follata, infeltrita, quasi un panno Lenci). Ma la bicromia dominante era il grigioverde. È la prima volta (ce ne sarà soltanto un’altra, ma in tutt’altro contesto) che il termine compare in tutto l’immortale capolavoro di Ernest Hemingway. “Addio alle armi”, romanzo di e per soldati, si svolge talmente immerso nel grigioverde che nella tavolozza di Hemingway neppure c’era: perché era grigioverde la tela stessa del quadro su cui l’autore de “Per chi suona la campana” e “Il vecchio e il mare” andava dipingendo quell’opera d’arte straordinaria.

Il paesaggio della Grande Guerra italiana ha tre varianti (mono)cromatiche: il grigiomarrone più o meno scuro del fango e della pietra, il grigiobianco della neve e del ghiaccio e il grigioverde delle uniformi. I primi due sono naturali, l’ultimo è fabbricato. Il 70% di quella terza coloritura veniva da Biella. Il 70% dei milioni di uomini del Regio Esercito impegnati sul fronte austro-ungarico si è inzuppato d’acqua, ha tremato di freddo, ha dato la caccia ai suoi pidocchi, si è ammalato, è andato in licenza, ha baciato la “mama” e la morosa, è entrato nei bordelli, ha preso e ripreso la tradotta, ha lanciato il cuore oltre l’ostacolo, se l’è fatta sotto, ha stramaledetto il Cadorna e il Sciabioletta, ha urlato “Avanti Savoia!”, ha scritto o dettato e letto lettere, è stato fatto prigioniero, ha disertato, è finito a Gaeta, si è fatto fucilare... tutto questo indossando tessuto grigioverde per lo più biellese. Il 70% delle giubbe, dei calzoni, delle fasce mollettiere che si strapparono sui fili spinati e che furono forate dai proiettili nemici era, come si direbbe oggi, made in Biella. Il 70% dei 600.000 caduti italiani della Prima Guerra Mondiale indossava panno prodotto nel Biellese. E’ più che probabile che il Milite Ignoto riposi sotto l’Altare della Patria in una divisa ricavata da stoffa biellese. “Scoprire” il grigioverde consente di vivere una esperienza conoscitiva duplice. In prima battuta la Grande Guerra appare nei suoi colori “veri” e non nel bianconero delle fotografie e delle pellicole d’epoca. Non è poca cosa, soprattutto se si riesce anche a toccarlo: non è una stoffa come tutte le altre perché è umile e gloriosa insieme, grezza ed eroica. In secondo luogo si comincia a osservare il fenomeno bellico da un altro punto di vista. Non più dalla trincea, oltre il sacco di sabbia e i reticolati, verso i crucchi. Ma all’indietro, con lo sguardo rivolto alle retrovie e più ancora lontano dove l’industria lavorava per la guerra in quel sistema articolato, complesso e non sempre limpido che erano le “forniture militari”. I lanifici italiani sostennero lo sforzo delle truppe combattenti aumentando la cadenza da 30.000 metri a 3.000.000 di metri al mese.

 

Le commesse derivanti dalla guerra, che dal 1916 di fatto monopolizzarono la filiera, obbligarono le manifatture tessili laniere a centuplicare letteralmente la capacità produttiva. Cento volte di più! La percentuale del 70% cui sopra resta valida per tutti i 102.507.401 metri di grigioverde realizzati in tutto nei 42 mesi guerra. Biella ha vestito la Grande Guerra. Più di cento milioni di metri, più di centomila chilometri di tessuto sparati dalle navette biellesi (ma anche pratesi e venete) che, come mitragliatrici, hanno coperto e protetto gli alpini, i bersaglieri e i fanti. Il telaio schierato appena dietro la trincea. Per il Biellese non meno di cinquanta lanifici (senza contare la Pettinatura Italiana di Vigliano, la Filatura di Tollegno e molte altre filande più piccole) formarono un blocco compatto sotto l’egida dell’Associazione dell’Industria Laniera Italiana e guidarono il contingente di riferimento per tutto il comparto a livello nazionale. Biella fu per tutta la guerra il quartier generale del settore laniero italiano e non per la concentrazione delle fabbriche, ma anche per essere stata in grado di governare un gigantesco meccanismo economico-finanziario, oltre che strettamente industriale, che, come il conflitto in corso, era mondiale. Mondiale vuol dire globale e la Grande Guerra fu la prima guerra globale.

L’industria laniera anche in tempo di pace era già allora ramificata a livello planetario. Tale dimensionamento rimase e si amplificò nei tre anni e mezzo di combattimenti. La Laniera aveva la sua sede amministrativa e operativa a Biella, a Biella fu istituito l’Opificio Militare Laniero con compiti logistici e tecnici di approvvigionamento a supporto dei lanifici locali e non, su Biella convergevano (se non fisicamente di certo contabilmente) i cospicui movimenti di materia prima che il Regno Unito consentiva di importare dal Commonwealth, che l’Italia tentava di acquistare dalle haciendas argentine, che la stessa Italia cercava sul proprio suolo censendo e requisendo senza requie. A Biella, infine, funzionava l’istituto di credito che ungeva gli ingranaggi e permetteva alla macchina di girare, ovvero la Banca Biellese. Tutto questo fu messo in atto convertendo alla causa bellica la grande fabbrica tessile nostrana. Tutto questo non senza pagare un costo sociale elevato malgrado le commesse statali di valore esorbitante che, però, non si traducevano in diffuso benessere, anzi. Gli operai che non furono convertiti in soldati vissero un periodo difficile, di impegno mal pagato, convulso e discontinuo, di miseria e di forte tensione con la classe padronale e, più ancora, con quelle “seconde linee” di dirigenti e di tecnici entro cui si

potevano scovare (secondo quello che sembrava diventato uno sport venatorio a mezzo stampa per i socialisti del “Corriere Biellese” e, ogni tanto, per i cattolici de “il Biellese”) gli esonerati abusivi, gli imboscati. Alcuni lanifici, come Piacenza e Rivetti, si misurarono con le stringenti condizioni di consegna imposte dai contratti di fornitura (soprattutto per i cosiddetti “stabilimenti ausiliari”) e gli scioperi che, in quella situazione, rappresentavano un’arma efficace, ma da usare con cautela per non essere accusati di “intelligenza con il nemico” e di sabotaggio. La produzione del grigioverde dal 24 Maggio al 4 Novembre ha cambiato l’assetto industriale del Biellese segnando la fine dell’Ottocento rampante e ruspante, con luci e ombre, e l’inizio del Novecento più tecnologico, competitivo e feroce. I biellesi hanno una lunga storia di forniture militari e la “mista” bicolore nata nel 1905 è solo la più recente e più consistente di tali esperienze. Ma fu quello un momento quali-quantitativo di svolta, così come lo è stata tragicamente la Grande Guerra cento anni fa. Da domenica prossima, 3 luglio, alla Fabbrica della Ruota, il DocBi racconta il grigioverde biellese della Prima Guerra Mondiale. Il panno del Piave, di Caporetto e di Vittorio Veneto sarà il centro di una mostra frutto di una ricerca ad ampio raggio e di prestiti di rilievo, come le uniformi originali della Grande Guerra in arrivo dal Museo Storico Nazionale degli Alpini di Trento e dal Gruppo Alpini di Bioglio, come il campionario dei panni militari del Lanificio Ermenegildo Zegna e come i cimeli risorgimentali dell’Archivio Vercellone e delle Officine di Netro.

Danilo Craveia

Il tenente Frederic Henry, in quell’inverno tra il 1916 e il 1917, si trovava a Gorizia. Si combatteva appena oltre, sul Carso, ma la neve che stava cominciando a scendere avrebbe rallentato o fermato le operazioni. Una sera, sullo sfondo della coltre sporca e della fanghiglia delle strade, l’ufficiale americano e i suoi compagni d’arme cenavano nella mensa del reparto. A quel punto un altro colore si aggiungeva, con toni di metafora, al dipinto di quella retroguardia: il rosso del vino che mescevano dal fiasco. A pochi chilometri si versava, non tra amici e non al caldo, il sangue dei soldati. Ma mancava ancora una tinta a quella scena ed eccola arrivare addosso a un cappellano militare. “Il cappellano era giovane e arrossiva facilmente. Portava un’uniforme simile alla nostra, con una croce di velluto rosso sul taschino del grigioverde”. Sulla divisa del sacerdote c’era ancora un segno, un simbolo, una “goccia” di sangue ritagliata nella mostreggiatura cruciforme (che non era di velluto, ma di stoffa molto follata, infeltrita, quasi un panno Lenci). Ma la bicromia dominante era il grigioverde. È la prima volta (ce ne sarà soltanto un’altra, ma in tutt’altro contesto) che il termine compare in tutto l’immortale capolavoro di Ernest Hemingway. “Addio alle armi”, romanzo di e per soldati, si svolge talmente immerso nel grigioverde che nella tavolozza di Hemingway neppure c’era: perché era grigioverde la tela stessa del quadro su cui l’autore de “Per chi suona la campana” e “Il vecchio e il mare” andava dipingendo quell’opera d’arte straordinaria.

Il paesaggio della Grande Guerra italiana ha tre varianti (mono)cromatiche: il grigiomarrone più o meno scuro del fango e della pietra, il grigiobianco della neve e del ghiaccio e il grigioverde delle uniformi. I primi due sono naturali, l’ultimo è fabbricato. Il 70% di quella terza coloritura veniva da Biella. Il 70% dei milioni di uomini del Regio Esercito impegnati sul fronte austro-ungarico si è inzuppato d’acqua, ha tremato di freddo, ha dato la caccia ai suoi pidocchi, si è ammalato, è andato in licenza, ha baciato la “mama” e la morosa, è entrato nei bordelli, ha preso e ripreso la tradotta, ha lanciato il cuore oltre l’ostacolo, se l’è fatta sotto, ha stramaledetto il Cadorna e il Sciabioletta, ha urlato “Avanti Savoia!”, ha scritto o dettato e letto lettere, è stato fatto prigioniero, ha disertato, è finito a Gaeta, si è fatto fucilare... tutto questo indossando tessuto grigioverde per lo più biellese. Il 70% delle giubbe, dei calzoni, delle fasce mollettiere che si strapparono sui fili spinati e che furono forate dai proiettili nemici era, come si direbbe oggi, made in Biella. Il 70% dei 600.000 caduti italiani della Prima Guerra Mondiale indossava panno prodotto nel Biellese. E’ più che probabile che il Milite Ignoto riposi sotto l’Altare della Patria in una divisa ricavata da stoffa biellese. “Scoprire” il grigioverde consente di vivere una esperienza conoscitiva duplice. In prima battuta la Grande Guerra appare nei suoi colori “veri” e non nel bianconero delle fotografie e delle pellicole d’epoca. Non è poca cosa, soprattutto se si riesce anche a toccarlo: non è una stoffa come tutte le altre perché è umile e gloriosa insieme, grezza ed eroica. In secondo luogo si comincia a osservare il fenomeno bellico da un altro punto di vista. Non più dalla trincea, oltre il sacco di sabbia e i reticolati, verso i crucchi. Ma all’indietro, con lo sguardo rivolto alle retrovie e più ancora lontano dove l’industria lavorava per la guerra in quel sistema articolato, complesso e non sempre limpido che erano le “forniture militari”. I lanifici italiani sostennero lo sforzo delle truppe combattenti aumentando la cadenza da 30.000 metri a 3.000.000 di metri al mese.

Le commesse derivanti dalla guerra, che dal 1916 di fatto monopolizzarono la filiera, obbligarono le manifatture tessili laniere a centuplicare letteralmente la capacità produttiva. Cento volte di più! La percentuale del 70% cui sopra resta valida per tutti i 102.507.401 metri di grigioverde realizzati in tutto nei 42 mesi guerra. Biella ha vestito la Grande Guerra. Più di cento milioni di metri, più di centomila chilometri di tessuto sparati dalle navette biellesi (ma anche pratesi e venete) che, come mitragliatrici, hanno coperto e protetto gli alpini, i bersaglieri e i fanti. Il telaio schierato appena dietro la trincea. Per il Biellese non meno di cinquanta lanifici (senza contare la Pettinatura Italiana di Vigliano, la Filatura di Tollegno e molte altre filande più piccole) formarono un blocco compatto sotto l’egida dell’Associazione dell’Industria Laniera Italiana e guidarono il contingente di riferimento per tutto il comparto a livello nazionale. Biella fu per tutta la guerra il quartier generale del settore laniero italiano e non per la concentrazione delle fabbriche, ma anche per essere stata in grado di governare un gigantesco meccanismo economico-finanziario, oltre che strettamente industriale, che, come il conflitto in corso, era mondiale. Mondiale vuol dire globale e la Grande Guerra fu la prima guerra globale.

L’industria laniera anche in tempo di pace era già allora ramificata a livello planetario. Tale dimensionamento rimase e si amplificò nei tre anni e mezzo di combattimenti. La Laniera aveva la sua sede amministrativa e operativa a Biella, a Biella fu istituito l’Opificio Militare Laniero con compiti logistici e tecnici di approvvigionamento a supporto dei lanifici locali e non, su Biella convergevano (se non fisicamente di certo contabilmente) i cospicui movimenti di materia prima che il Regno Unito consentiva di importare dal Commonwealth, che l’Italia tentava di acquistare dalle haciendas argentine, che la stessa Italia cercava sul proprio suolo censendo e requisendo senza requie. A Biella, infine, funzionava l’istituto di credito che ungeva gli ingranaggi e permetteva alla macchina di girare, ovvero la Banca Biellese. Tutto questo fu messo in atto convertendo alla causa bellica la grande fabbrica tessile nostrana. Tutto questo non senza pagare un costo sociale elevato malgrado le commesse statali di valore esorbitante che, però, non si traducevano in diffuso benessere, anzi. Gli operai che non furono convertiti in soldati vissero un periodo difficile, di impegno mal pagato, convulso e discontinuo, di miseria e di forte tensione con la classe padronale e, più ancora, con quelle “seconde linee” di dirigenti e di tecnici entro cui si

potevano scovare (secondo quello che sembrava diventato uno sport venatorio a mezzo stampa per i socialisti del “Corriere Biellese” e, ogni tanto, per i cattolici de “il Biellese”) gli esonerati abusivi, gli imboscati. Alcuni lanifici, come Piacenza e Rivetti, si misurarono con le stringenti condizioni di consegna imposte dai contratti di fornitura (soprattutto per i cosiddetti “stabilimenti ausiliari”) e gli scioperi che, in quella situazione, rappresentavano un’arma efficace, ma da usare con cautela per non essere accusati di “intelligenza con il nemico” e di sabotaggio. La produzione del grigioverde dal 24 Maggio al 4 Novembre ha cambiato l’assetto industriale del Biellese segnando la fine dell’Ottocento rampante e ruspante, con luci e ombre, e l’inizio del Novecento più tecnologico, competitivo e feroce. I biellesi hanno una lunga storia di forniture militari e la “mista” bicolore nata nel 1905 è solo la più recente e più consistente di tali esperienze. Ma fu quello un momento quali-quantitativo di svolta, così come lo è stata tragicamente la Grande Guerra cento anni fa. Da domenica prossima, 3 luglio, alla Fabbrica della Ruota, il DocBi racconta il grigioverde biellese della Prima Guerra Mondiale. Il panno del Piave, di Caporetto e di Vittorio Veneto sarà il centro di una mostra frutto di una ricerca ad ampio raggio e di prestiti di rilievo, come le uniformi originali della Grande Guerra in arrivo dal Museo Storico Nazionale degli Alpini di Trento e dal Gruppo Alpini di Bioglio, come il campionario dei panni militari del Lanificio Ermenegildo Zegna e come i cimeli risorgimentali dell’Archivio Vercellone e delle Officine di Netro.

Danilo Craveia

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