Gaston Strobino, l’americano di Mosso bronzo alle Olimpiadi

Gaston Strobino, l’americano di Mosso bronzo alle Olimpiadi
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https://www.youtube.com/watch? v=wJ1U5f4CNCE. Inserite questo permalink nel vostro motore di ricerca preferito. Youtube vi mostrerà un filmato di due minuti incentrato sulla maratona delle Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Arrivati al quarantacinquesimo secondo, mettete in pausa e osservate la scena. Nel fotogramma c’è un corridore in primo piano, con la pettorina numero 610. La folla applaude il passaggio di quel piccolo atleta, esile, con la testa un po’ sproporzionata e con le gambe corte. Sulla sua maglia campeggia uno scudo che rappresenta la bandiera a stelle e strisce, perchè quel podista stava difendendo gli Stati Uniti d’America nella disciplina più epica e simbolica dei Giochi Olimpici moderni. Il giovane nel fotogramma si chiamava Gaston Maurice Strobino. Alla fine del percorso sarà il terzo a tagliare il traguardo. Gaston Maurice Strobino, medaglia di bronzo alla maratona della Quinta Olimpiade, era cresciuto negli States, ma aveva sangue tutto biellese. La storia di quella grande manifestazione sportiva è significativa, soprattutto dal punto di vista statunitense. Come al solito gli USA fecero incetta di medaglie (63 in tutto, superati solo dai padroni di casa, ma gli svedesi avevano conquistato un oro in meno) ma il loro medagliere non era ancora il manifesto di quella multietnicità nazionale cui siamo abituati da tempo. I nomi dei 174 atleti stars and stripes erano esclusivamente w.a.s.p. (white anglo-saxon protestant), anche se non mancavano gli irlandesi che, probabilmente, erano di credo cattolico. Ma si trattava di una minuscola variazione sul tema. C’erano più che altro gli Adams, i Graham, i Kelly, gli Sheppard e non pochi Mc-qualcosa. C’erano anche alcuni ebrei, come Abel Kiviat. Ma è inutile cercare latinos e negros, anche se qualche “faccia di rame” (cioè pellirossa) a dire il vero c’era. Pur con tutte le questioni razziali e politiche che quelle colorate presenze comportavano, per un paese che non aveva per niente finito di fare in conti con la diversa pigmentazione della pelle dei suoi cittadini. E tanto meno con la definizione di “veri americani” che spettava ai nativi molto più che ai coloni pionieri europei. Ecco perchè i “non bianchi” erano così pochi. C’era il nuotatore hawaiano “Duke” Kahanamoku, che vinse l’oro nei 100 stile libero. C’era il fondista Lewis Tewanima, indiano Hopi, che portò a casa l’argento sui 10.000. E c’era naturalmente il protagonista assoluto di quelle Olimpiadi, il “più grande atleta del mondo” (parola di re Gustavo V di Svezia), il pellirossa Wa-Tho-Huk, ovvero Jacobus Franciscus “Jim” Thorpe, che dominò le gare di pentathlon e di decathlon. La sua è stata una vita eroica e struggente. Ascoltarla raccontata da Francesco Graziani per Rai Radio 1 in “Numeri Primi: uomini e storie senza uguali” commuove fino alle lacrime. Atleta eccezionale, una vera forza della natura che ogni stato vorrebbe tra i suoi miti, Jim Thorpe fu invece osannato per un breve istante e poi distrutto dai suoi stessi compatrioti perché indiano, cioè non riconosciuto come adatto a rappresentare l’America bianca di allora. Le sue due medaglie d’oro furono rifiutate e riconsegnate per un insignificante cavillo formale, segnalato proprio dai giornalisti statunitensi, e quindi rimasero “non assegnate” per decenni. Gli avversari battuti sul campo si dimostrarono più che corretti e non vollero averle al collo dopo che Thorpe si era dimostrato, gareggiando sportivamente, migliore di loro. Solo di recente, quando “Jim” se n’era già andato poverissimo e ormai dimenticato da tutti, il Cio ha rimesso le cose a posto. 

In quel contesto così difficile, così poco inclusivo, fa effetto notare un nome italiano. L’unico tra 174. L’unico malgrado gli italiani fossero già diversi milioni negli USA e malgrado molti di loro avessero già dimostrato di non essere soltanto maccheroni e pizza. E colpisce ancora di più se si constata che quell’unico nome era biellese. Gaston Maurice, detto “Gal”, Strobino era nato in Svizzera, a Büren sull’Aare (Cantone di Berna), il 23 agosto 1891 da genitori provenienti da Mosso Santa Maria. Non è chiaro il motivo di quella destinazione per la famiglia Strobino. Il villaggio di Büren aveva poco da offrire se non qualche fabbrica di orologi e un po’ di agricoltura. Forse fu per le poche opportunità che quella località poteva dare che nel 1892 gli Strobino decisero di spostarsi negli Stati Uniti. Giunsero quindi a Paterson, la cittadina industriale del New Jersey. Paterson, la “Silk city”, era invece la meta ideale per chi avesse dimestichezza con i telai, anche se da quelle parti, come dice il soprannome, si tesseva la seta e non la lana. Paterson era piena di opifici, piena di italiani e piena di anarchici. Quando Gaston aveva nove anni qualcuno deve avergli spiegato che un certo Gaetano Bresci era partito proprio da Paterson per tornare in Italia allo scopo di uccidere il re. Non si hanno notizie precise dell’infanzia del mossese trapiantato in New Jersey, ma è invece appurato che la sua passione per la corsa lo aveva indotto a iscriversi al “South Paterson Athletic Club”. Il sodalizio sportivo cittadino doveva essere una buona scuola visto che in quegli anni sfornava corridori di belle speranze, tra cui quel Louis Scott che entrò nel giro della Nazionale e che a Stoccolma si aggiudicò l’oro nei 3.000 metri. La prima menzione ufficiale al nostro Gaston arrivò in occasione della corsa organizzata dal giornale newyorkese “The Evening Mail”, all’epoca di proprietà di quel genio di Rube Goldberg. La competizione, indetta dalla testata di Broadway, fu una delle prime a svolgersi in città ed è considerata la progenitrice dell’attuale maratona di New York. La gara si svolse il 6 maggio 1911, tra il Bronx e la City Hall, su uno sviluppo di 12 miglia (poco meno di 20 Km). Di fatto una mezza maratona con un migliaio di atleti alla partenza. Secondo la stampa dell’epoca almeno un milione di persone assistette alla manifestazione. Si impose il citato Lewis Tewanima e secondo giunse un altro asso, Mitchell Arquette, anch’egli nativo americano. C’è una fotografia che li ritrae entrambi. Ma accanto a loro c’è anche Gaston Strobino, un vero sconosciuto fino a quel momento, che però riuscì a piazzarsi quarto assoluto (tempo 1h 11’ 20”). Un risultato inaspettato, sorprendente anche per gli addetti ai lavori. 

L’anno successivo il “New York Evening Mail” ripropose la stessa iniziativa con l’intento di bissare il successo sportivo e di pubblico. Questa volta vinse Louis Scott, ma appena dietro di lui si presentò Gaston Strobino che aveva anche migliorato il suo tempo (1h 09’ 20”). Con le Olimpiadi svedesi ormai prossime, il ragazzo italiano che gareggiava per il “South Paterson Athletic Club” non poteva essere ignorato nelle convocazioni per la squadra americana diretta in Scandinavia. Fu quindi inserito in una sorta di lista per riserve, ma per poter prender parte alla spedizione quegli atleti di “seconda scelta” dovevano pagarsi il viaggio. Grazie al suo club, alla famiglia e agli amici, lo Strobino riuscì a mettere insieme la somma necessaria e fu quindi accolto nel team che si stava imbarcando sul “Finland” per Stoccolma. Il suo rango di ultimo arrivato e di emigrante lo fece designare come gregario rispetto a coloro che erano già stati indicati quali capitani nelle varie discipline a lui congeniali. Strobino, che non aveva mai affrontato una vera maratona, doveva correre non per sè, ma per gli altri compagni di squadra ritenuti più dotati. Ma una gara così massacrante e lunga si può pianificare solo fino a un certo punto e little Gaston, quando il campione designato, Lewis Tewanima, al venticinquesimo chilometro non ce la fece più a reggere il passo delle lepri sudafricane, capì che doveva tentare il tutto per tutto. Nel pomeriggio del 14 luglio 1912, sotto un sole cocente e con una temperatura insolitamente alta per la capitale svedese (32°), la maratona di Stoccolma si rivelò una prova tremenda. Sebbene la distanza fosse inferiore di due chilometri rispetto a quella attuale di 42.195 metri, il caldo, la polvere sulle strade, i quasi nulli punti di ristoro risultarono condizioni proibitive che causarono seri problemi ai concorrenti. Al trentesimo chilometro, il portoghese Francisco Lazaro stramazzò al suolo per la disidratazione e la fatica. Morirà nelle ore successive. Poco prima il nipponico Shizo Kanakuri, che pure ambiva al successo finale, si ritirò (anzi si “assentò”) in maniera rocambolesca non dando più notizie di sè. Fu dichiarato ufficialmente come “persona scomparsa” e la sua vicenda, peraltro nota e proverbiale in Svezia, lo portò a concludere il suo percorso in 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti, 20 secondi e 3 decimi... Nel mentre Gaston Strobino, con la sua andatura cadenzata e regolare, risaliva dal nono al terzo posto e a cinque chilometri dalla conclusione si poneva all’inseguimento di Ken McArthur e Christian Gitsham. I due podisti del Sud Africa erano in stato di grazia, ma l’italo-americano non mollò fino alla fine. Bronzo clamoroso con il cronometro fermo sulle 2 ore, 38 minuti, 42 secondi e 4 decimi. Niente male, a meno di due minuti da McArthur, il vincitore. Quel terzo posto fu un vero trionfo, un exploit che fece fare al nome di Gaston Strobino il giro del mondo. E arrivò anche a Biella. “il Biellese” rilanciò la “Gazzetta dello Sport” che così descrisse il mossese: “E’ un forte e un giovane intelligentissimo che ha saputo oggi, con una corsa regolarissima e progressiva, minacciare ben da vicino i vincitori... potendo far credere per un momento che la stellata bandiera americana, a cui noi avremmo sorriso come fosse la nostra, anzichè alla terza antenna si elevasse alla prima. E ce lo fece sperare per un istante, data la sua meravigliosa freschezza, che contrastava ben fortemente con lo stato depresso del vincitore.” Gaston fu accolto al suo ritorno come avesse vinto davvero e divenne uno sportivo famoso. Negli anni seguenti si distinse in alcune competizioni nazionali e nel 1915, quando si iscrisse al prestigioso “New York Athletic Club”, fu campione assoluto della corsa campestre sulle sei miglia. 

Dopo la Prima Guerra Mondiale, che lo vide arruolato, ma non combattente, Gaston Strobino non era più in grado di correre ad alto livello. I soldi della pubblicità per la Tuxedo, una manifattura di tabacchi attiva a Paterson (allora fumo e sport andavano d’accordo, anche se l’immagine del maratoneta con la sigaretta in bocca doveva essere poco credibile già all’epoca), non erano più sufficienti e i risparmi derivati dalle gare vinte nemmeno. Per vivere, non avendo alcun tipo di formazione, Gaston Strobino dovette adattarsi a lavorare in un’officina, ma non è detto che quella attività fosse per lui così umiliante. Anzi, il biellese che vinse per gli USA una medaglia alle Olimpiadi di Stoccolma, non aveva talento solo per la corsa. Doveva aver appreso o ereditato un minimo di attitudine per la meccanica di precisione. Tant’è che iniziò a depositare brevetti per strani marchingegni. Brevetti tuttora esistenti e liberi, debitamente registrati e descritti. Nel 1920 si inventò una macchina per sagomare oggetti ovali, nel 1926 studiò un sistema per migliorare il suono dei fonografi. Nel 1947 si occupò di misure con i giroscopi. Nello stesso anno elaborò uno strumento musicale a vento. Ma la lista è assai più lunga. In effetti, quando nel 1928 si trasferì da Paterson in Illinois, la sua professione dichiarata era quella dell’inventore. Gaston Strobino morì a Downers Grove (nei pressi di Chicago) il 30 marzo del 1969 e fu sepolto nel locale cimitero. La sua storia è, almeno in parte, quella del “sogno americano.” Chi ha i numeri o, come nel suo caso, le gambe e i polmoni, può farcela stupendo tutti. Anche il figlio di poveri emigranti di Mosso può avere la sua chance e deve solo saperla sfruttare, anche se si presenta sotto forma di maratona olimpica. Gaston non fu mai un campionissimo, ma seppe stare al gioco e al mondo, tribolando, ma anche divertendosi, competendo con i migliori senza soggezione. E il nostro Strobino è anche un esempio di come gli Stati Uniti d’America, nel bene e nel male, premiano chi è capace di cambiare vita, di sviluppare altre abilità senza rimpiangere le esperienze precedenti.
Danilo Craveia

https://www.youtube.com/watch? v=wJ1U5f4CNCE. Inserite questo permalink nel vostro motore di ricerca preferito. Youtube vi mostrerà un filmato di due minuti incentrato sulla maratona delle Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Arrivati al quarantacinquesimo secondo, mettete in pausa e osservate la scena. Nel fotogramma c’è un corridore in primo piano, con la pettorina numero 610. La folla applaude il passaggio di quel piccolo atleta, esile, con la testa un po’ sproporzionata e con le gambe corte. Sulla sua maglia campeggia uno scudo che rappresenta la bandiera a stelle e strisce, perchè quel podista stava difendendo gli Stati Uniti d’America nella disciplina più epica e simbolica dei Giochi Olimpici moderni. Il giovane nel fotogramma si chiamava Gaston Maurice Strobino. Alla fine del percorso sarà il terzo a tagliare il traguardo. Gaston Maurice Strobino, medaglia di bronzo alla maratona della Quinta Olimpiade, era cresciuto negli States, ma aveva sangue tutto biellese. La storia di quella grande manifestazione sportiva è significativa, soprattutto dal punto di vista statunitense. Come al solito gli USA fecero incetta di medaglie (63 in tutto, superati solo dai padroni di casa, ma gli svedesi avevano conquistato un oro in meno) ma il loro medagliere non era ancora il manifesto di quella multietnicità nazionale cui siamo abituati da tempo. I nomi dei 174 atleti stars and stripes erano esclusivamente w.a.s.p. (white anglo-saxon protestant), anche se non mancavano gli irlandesi che, probabilmente, erano di credo cattolico. Ma si trattava di una minuscola variazione sul tema. C’erano più che altro gli Adams, i Graham, i Kelly, gli Sheppard e non pochi Mc-qualcosa. C’erano anche alcuni ebrei, come Abel Kiviat. Ma è inutile cercare latinos e negros, anche se qualche “faccia di rame” (cioè pellirossa) a dire il vero c’era. Pur con tutte le questioni razziali e politiche che quelle colorate presenze comportavano, per un paese che non aveva per niente finito di fare in conti con la diversa pigmentazione della pelle dei suoi cittadini. E tanto meno con la definizione di “veri americani” che spettava ai nativi molto più che ai coloni pionieri europei. Ecco perchè i “non bianchi” erano così pochi. C’era il nuotatore hawaiano “Duke” Kahanamoku, che vinse l’oro nei 100 stile libero. C’era il fondista Lewis Tewanima, indiano Hopi, che portò a casa l’argento sui 10.000. E c’era naturalmente il protagonista assoluto di quelle Olimpiadi, il “più grande atleta del mondo” (parola di re Gustavo V di Svezia), il pellirossa Wa-Tho-Huk, ovvero Jacobus Franciscus “Jim” Thorpe, che dominò le gare di pentathlon e di decathlon. La sua è stata una vita eroica e struggente. Ascoltarla raccontata da Francesco Graziani per Rai Radio 1 in “Numeri Primi: uomini e storie senza uguali” commuove fino alle lacrime. Atleta eccezionale, una vera forza della natura che ogni stato vorrebbe tra i suoi miti, Jim Thorpe fu invece osannato per un breve istante e poi distrutto dai suoi stessi compatrioti perché indiano, cioè non riconosciuto come adatto a rappresentare l’America bianca di allora. Le sue due medaglie d’oro furono rifiutate e riconsegnate per un insignificante cavillo formale, segnalato proprio dai giornalisti statunitensi, e quindi rimasero “non assegnate” per decenni. Gli avversari battuti sul campo si dimostrarono più che corretti e non vollero averle al collo dopo che Thorpe si era dimostrato, gareggiando sportivamente, migliore di loro. Solo di recente, quando “Jim” se n’era già andato poverissimo e ormai dimenticato da tutti, il Cio ha rimesso le cose a posto. 

In quel contesto così difficile, così poco inclusivo, fa effetto notare un nome italiano. L’unico tra 174. L’unico malgrado gli italiani fossero già diversi milioni negli USA e malgrado molti di loro avessero già dimostrato di non essere soltanto maccheroni e pizza. E colpisce ancora di più se si constata che quell’unico nome era biellese. Gaston Maurice, detto “Gal”, Strobino era nato in Svizzera, a Büren sull’Aare (Cantone di Berna), il 23 agosto 1891 da genitori provenienti da Mosso Santa Maria. Non è chiaro il motivo di quella destinazione per la famiglia Strobino. Il villaggio di Büren aveva poco da offrire se non qualche fabbrica di orologi e un po’ di agricoltura. Forse fu per le poche opportunità che quella località poteva dare che nel 1892 gli Strobino decisero di spostarsi negli Stati Uniti. Giunsero quindi a Paterson, la cittadina industriale del New Jersey. Paterson, la “Silk city”, era invece la meta ideale per chi avesse dimestichezza con i telai, anche se da quelle parti, come dice il soprannome, si tesseva la seta e non la lana. Paterson era piena di opifici, piena di italiani e piena di anarchici. Quando Gaston aveva nove anni qualcuno deve avergli spiegato che un certo Gaetano Bresci era partito proprio da Paterson per tornare in Italia allo scopo di uccidere il re. Non si hanno notizie precise dell’infanzia del mossese trapiantato in New Jersey, ma è invece appurato che la sua passione per la corsa lo aveva indotto a iscriversi al “South Paterson Athletic Club”. Il sodalizio sportivo cittadino doveva essere una buona scuola visto che in quegli anni sfornava corridori di belle speranze, tra cui quel Louis Scott che entrò nel giro della Nazionale e che a Stoccolma si aggiudicò l’oro nei 3.000 metri. La prima menzione ufficiale al nostro Gaston arrivò in occasione della corsa organizzata dal giornale newyorkese “The Evening Mail”, all’epoca di proprietà di quel genio di Rube Goldberg. La competizione, indetta dalla testata di Broadway, fu una delle prime a svolgersi in città ed è considerata la progenitrice dell’attuale maratona di New York. La gara si svolse il 6 maggio 1911, tra il Bronx e la City Hall, su uno sviluppo di 12 miglia (poco meno di 20 Km). Di fatto una mezza maratona con un migliaio di atleti alla partenza. Secondo la stampa dell’epoca almeno un milione di persone assistette alla manifestazione. Si impose il citato Lewis Tewanima e secondo giunse un altro asso, Mitchell Arquette, anch’egli nativo americano. C’è una fotografia che li ritrae entrambi. Ma accanto a loro c’è anche Gaston Strobino, un vero sconosciuto fino a quel momento, che però riuscì a piazzarsi quarto assoluto (tempo 1h 11’ 20”). Un risultato inaspettato, sorprendente anche per gli addetti ai lavori. 

L’anno successivo il “New York Evening Mail” ripropose la stessa iniziativa con l’intento di bissare il successo sportivo e di pubblico. Questa volta vinse Louis Scott, ma appena dietro di lui si presentò Gaston Strobino che aveva anche migliorato il suo tempo (1h 09’ 20”). Con le Olimpiadi svedesi ormai prossime, il ragazzo italiano che gareggiava per il “South Paterson Athletic Club” non poteva essere ignorato nelle convocazioni per la squadra americana diretta in Scandinavia. Fu quindi inserito in una sorta di lista per riserve, ma per poter prender parte alla spedizione quegli atleti di “seconda scelta” dovevano pagarsi il viaggio. Grazie al suo club, alla famiglia e agli amici, lo Strobino riuscì a mettere insieme la somma necessaria e fu quindi accolto nel team che si stava imbarcando sul “Finland” per Stoccolma. Il suo rango di ultimo arrivato e di emigrante lo fece designare come gregario rispetto a coloro che erano già stati indicati quali capitani nelle varie discipline a lui congeniali. Strobino, che non aveva mai affrontato una vera maratona, doveva correre non per sè, ma per gli altri compagni di squadra ritenuti più dotati. Ma una gara così massacrante e lunga si può pianificare solo fino a un certo punto e little Gaston, quando il campione designato, Lewis Tewanima, al venticinquesimo chilometro non ce la fece più a reggere il passo delle lepri sudafricane, capì che doveva tentare il tutto per tutto. Nel pomeriggio del 14 luglio 1912, sotto un sole cocente e con una temperatura insolitamente alta per la capitale svedese (32°), la maratona di Stoccolma si rivelò una prova tremenda. Sebbene la distanza fosse inferiore di due chilometri rispetto a quella attuale di 42.195 metri, il caldo, la polvere sulle strade, i quasi nulli punti di ristoro risultarono condizioni proibitive che causarono seri problemi ai concorrenti. Al trentesimo chilometro, il portoghese Francisco Lazaro stramazzò al suolo per la disidratazione e la fatica. Morirà nelle ore successive. Poco prima il nipponico Shizo Kanakuri, che pure ambiva al successo finale, si ritirò (anzi si “assentò”) in maniera rocambolesca non dando più notizie di sè. Fu dichiarato ufficialmente come “persona scomparsa” e la sua vicenda, peraltro nota e proverbiale in Svezia, lo portò a concludere il suo percorso in 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti, 20 secondi e 3 decimi... Nel mentre Gaston Strobino, con la sua andatura cadenzata e regolare, risaliva dal nono al terzo posto e a cinque chilometri dalla conclusione si poneva all’inseguimento di Ken McArthur e Christian Gitsham. I due podisti del Sud Africa erano in stato di grazia, ma l’italo-americano non mollò fino alla fine. Bronzo clamoroso con il cronometro fermo sulle 2 ore, 38 minuti, 42 secondi e 4 decimi. Niente male, a meno di due minuti da McArthur, il vincitore. Quel terzo posto fu un vero trionfo, un exploit che fece fare al nome di Gaston Strobino il giro del mondo. E arrivò anche a Biella. “il Biellese” rilanciò la “Gazzetta dello Sport” che così descrisse il mossese: “E’ un forte e un giovane intelligentissimo che ha saputo oggi, con una corsa regolarissima e progressiva, minacciare ben da vicino i vincitori... potendo far credere per un momento che la stellata bandiera americana, a cui noi avremmo sorriso come fosse la nostra, anzichè alla terza antenna si elevasse alla prima. E ce lo fece sperare per un istante, data la sua meravigliosa freschezza, che contrastava ben fortemente con lo stato depresso del vincitore.” Gaston fu accolto al suo ritorno come avesse vinto davvero e divenne uno sportivo famoso. Negli anni seguenti si distinse in alcune competizioni nazionali e nel 1915, quando si iscrisse al prestigioso “New York Athletic Club”, fu campione assoluto della corsa campestre sulle sei miglia. 

Dopo la Prima Guerra Mondiale, che lo vide arruolato, ma non combattente, Gaston Strobino non era più in grado di correre ad alto livello. I soldi della pubblicità per la Tuxedo, una manifattura di tabacchi attiva a Paterson (allora fumo e sport andavano d’accordo, anche se l’immagine del maratoneta con la sigaretta in bocca doveva essere poco credibile già all’epoca), non erano più sufficienti e i risparmi derivati dalle gare vinte nemmeno. Per vivere, non avendo alcun tipo di formazione, Gaston Strobino dovette adattarsi a lavorare in un’officina, ma non è detto che quella attività fosse per lui così umiliante. Anzi, il biellese che vinse per gli USA una medaglia alle Olimpiadi di Stoccolma, non aveva talento solo per la corsa. Doveva aver appreso o ereditato un minimo di attitudine per la meccanica di precisione. Tant’è che iniziò a depositare brevetti per strani marchingegni. Brevetti tuttora esistenti e liberi, debitamente registrati e descritti. Nel 1920 si inventò una macchina per sagomare oggetti ovali, nel 1926 studiò un sistema per migliorare il suono dei fonografi. Nel 1947 si occupò di misure con i giroscopi. Nello stesso anno elaborò uno strumento musicale a vento. Ma la lista è assai più lunga. In effetti, quando nel 1928 si trasferì da Paterson in Illinois, la sua professione dichiarata era quella dell’inventore. Gaston Strobino morì a Downers Grove (nei pressi di Chicago) il 30 marzo del 1969 e fu sepolto nel locale cimitero. La sua storia è, almeno in parte, quella del “sogno americano.” Chi ha i numeri o, come nel suo caso, le gambe e i polmoni, può farcela stupendo tutti. Anche il figlio di poveri emigranti di Mosso può avere la sua chance e deve solo saperla sfruttare, anche se si presenta sotto forma di maratona olimpica. Gaston non fu mai un campionissimo, ma seppe stare al gioco e al mondo, tribolando, ma anche divertendosi, competendo con i migliori senza soggezione. E il nostro Strobino è anche un esempio di come gli Stati Uniti d’America, nel bene e nel male, premiano chi è capace di cambiare vita, di sviluppare altre abilità senza rimpiangere le esperienze precedenti.
Danilo Craveia

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