Dal telaio alla trincea. E fu anche scandalo del grigioverde

Dal telaio alla trincea. E fu anche scandalo del grigioverde
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Uno degli ultimi libri del collettivo Wu Ming, “L’invisibile ovunque”, tratta anche del tema del mimetismo bellico. Come spesso accade con gli “oggetti letterari non identificati” di quegli scrittori “senza nome”, anche in questo caso l’argomento e la trama (le trame?) del racconto (dei racconti?) appaiono come uno dei tanti possibili livelli di lettura, anzi come una “scusa buona” per parlare d’altro. La guerra (la Grande Guerra) e la mimetizzazione sembrano essere solo il dispositivo di camuffamento metaforico per far passare - invisibile sebbene sotto il naso del nemico - uno o più ipertesti, uno o più messaggi subliminali (e non), uno o più di quegli stimolanti cortocircuiti ideologico-narrativi cui Wu Ming ci ha abituati. E’ strano (anzi no, a dire il vero) che nelle pagine de “L’invisibile ovunque” non si faccia mai cenno al grigioverde. Certo, gli autori mirano con tutta evidenza più in alto, ben oltre la banale e massiva tintura della truppa. Il loro bersaglio è quello dichiarato dell’arte della guerra che, nel distillare l’impalpabile essenza del camouflage (l’essere che diventa “presente-assente” per sottrazione dai sensi dell’avversario, soprattutto da quello della vista), si tramuta in Arte a tutti gli effetti. Nascondersi e colpire, colpire e sparire, nascondersi e sparire senza più bisogno di colpire, talmente letali da indurre i nemici a non porsi più come tali per efficacia di reciproca deterrenza. Sublimare la guerra a mero esercizio di stile (letterario?), a colpi di idee, di mosse inutili perché previste e annullate infinitamente in anticipo. Sulla carta è abbastanza facile e senza dubbio suggestivo, ma la trincea vista e vissuta dalla trincea non corrisponde mai all’immagine della trincea, all’archetipo della trincea, all’estetica e alla poetica della trincea. E’ una questione di punti di vista: si può occultare la verità schermandola con la filosofia e con la teoria, ma tra chi pensa e chi combatte c’è sempre una certa differenza. Il primo ha ragione o torto, il secondo è vivo o morto. Per i sofismi da retrovia sono cadute in battaglia generazioni intere. Per le infallibili strategie da salotto si sono contati milioni di cadaveri.

La guerra non è mai come la si legge in Sun Tzu, anche se sarebbe bello. La guerra andrebbe evitata per essere davvero vinta, questo è certo, ma il più delle volte si combatte perché tra due litiganti (perdenti) c’è sempre una fitta schiera di terzi che gode. La guerra perfetta è sempre la prossima. Il grigioverde è stato solo una goccia di colore nel mare di sangue della Grande Guerra, ma fu comunque un tentativo di prevenire se non di fermare l’emorragia.

 La settimana scorsa, affrontando lo stesso tema anche in occasione dell’annuncio dell’apertura della mostra “Grigioverde dal telaio alla trincea” (che il DocBi inaugura oggi alle ore 18 alla Fabbrica della Ruota), si sono evidenziati a grandi linee gli elementi principali che costituivano il “mondo” delle forniture militari in riferimento al Biellese, specialmente per quanto riguarda il tessuto grigioverde. Ognuno di quegli elementi può essere approfondito e la mostra di cui sopra permette di compiere un primo passo di avvicinamento verso ciascuna tematica, ma qui e ora è già possibile compierne altri su percorsi specifici e ulteriori. Per esempio, al di là del grigioverde inteso come “modello” ideale di bicolore mimetico, che cosa significa produrre un buon grigioverde? Come si faceva? Era tutto uguale o c’era grigioverde e grigioverde? Sembra un domanda oziosa, ma non lo è. Se gli Uffici di Collaudo del Regio Esercito (uno era attivo anche a Biella) avessero accettato qualsiasi “variante”, magari scadente per qualità o per tinta, si sarebbe verificato un disastro.

 

Esisteva un campione di riferimento cui era obbligatorio attenersi, altrimenti avremmo avuto una miscela incoerente di uniformi arlecchino, poco dignitose e, soprattutto, inutili allo scopo. Occorreva omogeneizzare o rispedire al mittente (anche a titolo di monito per gli altri) quei panni non rispettosi dei parametri. Così il 2 novembre 1915, a nemmeno sei mesi dall’entrata in guerra, nel Biellese scoppiava lo “scandalo del grigioverde” generato da fabbricanti disonesti che si erano visti respingere le pezze consegnate ai collaudatori comandati dal maggiore cav. Pertusati. Il primo imputato a essere chiamato in causa fu il Lanificio Successori Sella di Valle Mosso. Alla redazione del giornale dei socialisti, il “Corriere Biellese”, non parve vero di poter sparare ad alzo zero sui padroni, concedendosi anche un po’ di moralismo da caserma. “Se può dolere che distinti persone siano ora trascinate in un processo comune, si deve pur reclamare la giusta severità”. D’altro canto, come ci teneva a puntualizzare l’anonimo articolista del bisettimanale “rosso”, “i guadagni del grigio-verde sono sempre stati assai abbondanti; i fabbricanti, anche procedendo per la via pulita che dovrebbe essere la prima norma del commercio, hanno fatto delle vere ricchezze. Ebbene, quando questi guadagni non bastano e si cerca per vie illecite di accrescerli ancora, ogni sentimento di pietà scompare e si deve reclamare che piena giustizia venga fatta”. Il panno dell’azienda mossese non aveva superato i test di resistenza perché conteneva troppo cotone. Essendo ben chiari i limiti percentuali di detta fibra nella composizione delle “miste” di filatura, un eccesso così conclamato prefigurava un tentativo di frode. Molte pezze furono sequestrate e contro i titolari Buratti, Crolle e Maggi fu spiccato un mandato di cattura. Ma solo il primo, ammalato, fu raggiunto dalla misura costrittiva a domicilio. Gli altri due si erano già dati alla fuga. “Dare cotone invece di lana, vestire il soldato che combatte tra i rigori del freddo con una stoffa meno resistente di quella che dovrebbe avere, è un delitto contro la nazione che deve pagare di propria borsa gli illeciti guadagni degli industriali ed è un danno a chi espone il proprio petto per il paese”. Il traditore si celava non solo in prima linea, bensì anche a casa, lucrando sulla pelle dei propri compatrioti al fronte. Ma anche il gesto così patriottico e perentorio di punire i colpevoli di cotanto oltraggio rischia di passare, se non per mimetizzazione, almeno per azione diversiva. Nel giro di poche settimane si alzò un gran polverone e, come si suol dire, cadde qualche testa. Fu quasi una decimazione alla Cadorna: preventiva, tanto perché gli altri nove stessero in campana.

 

I “tre di Valle Mosso” arrestati e giudicati, i “due di Pralungo” (Boggio e Ubertalli) condannati, i Vercellone di Sordevolo degradati con disonore dai dinamometri dell’Ufficio Collaudi per la loro stoffa indegna... Il fatto è che si trattava di pesci piccoli e, per restare nel regno animale, di capri espiatori. Il proletariato ebbe la sua giustizia, l’opinione pubblica ebbe l’impressione che si stesse facendo sul serio, lo Stato Maggiore ebbe il merito di annodare ancor di più il telaio alla trincea nello strenuo sacrificio per la causa nazionale, ma dopo tre commissioni d’inchiesta (due militari e una giolittiana a conflitto concluso) e dopo un secolo trascorso un sospetto rimane. Nella fredda e sporca luce della guerra si poterono nascondere affari d’oro. L’arte di far soldi con la guerra supera in abilità ed efficacia le performance mimetico-metafisiche della “Compagnia Camaleonte” (che ovviamente è “scomparsa”, ma bisognerebbe stabilire se, come e perché) di cui narra Wu Ming. Si resta perplessi allora nello sfogliare il campionario di Ermenegildo Zegna, che prima di arrivare al suo grigioverde perfetto fece non meno di venti tentativi tutti precisamente documentati nei loro pregi e difetti. Ma in questo caso specifico la questione si poggia, forse, su un piano differente: è probabile che il futuro conte di Monte Rubello fosse già in preda a quella ossessione per la qualità che ne condizionò l’esistenza e che cercasse di eccellere anche nelle forniture militari. Perché, visibile o meno al nemico, era importante che quel grigioverde fosse comunque il migliore, anche solo per morirci dignitosamente ed elegantemente dentro.

Danilo Craveia

Uno degli ultimi libri del collettivo Wu Ming, “L’invisibile ovunque”, tratta anche del tema del mimetismo bellico. Come spesso accade con gli “oggetti letterari non identificati” di quegli scrittori “senza nome”, anche in questo caso l’argomento e la trama (le trame?) del racconto (dei racconti?) appaiono come uno dei tanti possibili livelli di lettura, anzi come una “scusa buona” per parlare d’altro. La guerra (la Grande Guerra) e la mimetizzazione sembrano essere solo il dispositivo di camuffamento metaforico per far passare - invisibile sebbene sotto il naso del nemico - uno o più ipertesti, uno o più messaggi subliminali (e non), uno o più di quegli stimolanti cortocircuiti ideologico-narrativi cui Wu Ming ci ha abituati. E’ strano (anzi no, a dire il vero) che nelle pagine de “L’invisibile ovunque” non si faccia mai cenno al grigioverde. Certo, gli autori mirano con tutta evidenza più in alto, ben oltre la banale e massiva tintura della truppa. Il loro bersaglio è quello dichiarato dell’arte della guerra che, nel distillare l’impalpabile essenza del camouflage (l’essere che diventa “presente-assente” per sottrazione dai sensi dell’avversario, soprattutto da quello della vista), si tramuta in Arte a tutti gli effetti. Nascondersi e colpire, colpire e sparire, nascondersi e sparire senza più bisogno di colpire, talmente letali da indurre i nemici a non porsi più come tali per efficacia di reciproca deterrenza. Sublimare la guerra a mero esercizio di stile (letterario?), a colpi di idee, di mosse inutili perché previste e annullate infinitamente in anticipo. Sulla carta è abbastanza facile e senza dubbio suggestivo, ma la trincea vista e vissuta dalla trincea non corrisponde mai all’immagine della trincea, all’archetipo della trincea, all’estetica e alla poetica della trincea. E’ una questione di punti di vista: si può occultare la verità schermandola con la filosofia e con la teoria, ma tra chi pensa e chi combatte c’è sempre una certa differenza. Il primo ha ragione o torto, il secondo è vivo o morto. Per i sofismi da retrovia sono cadute in battaglia generazioni intere. Per le infallibili strategie da salotto si sono contati milioni di cadaveri.

La guerra non è mai come la si legge in Sun Tzu, anche se sarebbe bello. La guerra andrebbe evitata per essere davvero vinta, questo è certo, ma il più delle volte si combatte perché tra due litiganti (perdenti) c’è sempre una fitta schiera di terzi che gode. La guerra perfetta è sempre la prossima. Il grigioverde è stato solo una goccia di colore nel mare di sangue della Grande Guerra, ma fu comunque un tentativo di prevenire se non di fermare l’emorragia.

 La settimana scorsa, affrontando lo stesso tema anche in occasione dell’annuncio dell’apertura della mostra “Grigioverde dal telaio alla trincea” (che il DocBi inaugura oggi alle ore 18 alla Fabbrica della Ruota), si sono evidenziati a grandi linee gli elementi principali che costituivano il “mondo” delle forniture militari in riferimento al Biellese, specialmente per quanto riguarda il tessuto grigioverde. Ognuno di quegli elementi può essere approfondito e la mostra di cui sopra permette di compiere un primo passo di avvicinamento verso ciascuna tematica, ma qui e ora è già possibile compierne altri su percorsi specifici e ulteriori. Per esempio, al di là del grigioverde inteso come “modello” ideale di bicolore mimetico, che cosa significa produrre un buon grigioverde? Come si faceva? Era tutto uguale o c’era grigioverde e grigioverde? Sembra un domanda oziosa, ma non lo è. Se gli Uffici di Collaudo del Regio Esercito (uno era attivo anche a Biella) avessero accettato qualsiasi “variante”, magari scadente per qualità o per tinta, si sarebbe verificato un disastro.

 

Esisteva un campione di riferimento cui era obbligatorio attenersi, altrimenti avremmo avuto una miscela incoerente di uniformi arlecchino, poco dignitose e, soprattutto, inutili allo scopo. Occorreva omogeneizzare o rispedire al mittente (anche a titolo di monito per gli altri) quei panni non rispettosi dei parametri. Così il 2 novembre 1915, a nemmeno sei mesi dall’entrata in guerra, nel Biellese scoppiava lo “scandalo del grigioverde” generato da fabbricanti disonesti che si erano visti respingere le pezze consegnate ai collaudatori comandati dal maggiore cav. Pertusati. Il primo imputato a essere chiamato in causa fu il Lanificio Successori Sella di Valle Mosso. Alla redazione del giornale dei socialisti, il “Corriere Biellese”, non parve vero di poter sparare ad alzo zero sui padroni, concedendosi anche un po’ di moralismo da caserma. “Se può dolere che distinti persone siano ora trascinate in un processo comune, si deve pur reclamare la giusta severità”. D’altro canto, come ci teneva a puntualizzare l’anonimo articolista del bisettimanale “rosso”, “i guadagni del grigio-verde sono sempre stati assai abbondanti; i fabbricanti, anche procedendo per la via pulita che dovrebbe essere la prima norma del commercio, hanno fatto delle vere ricchezze. Ebbene, quando questi guadagni non bastano e si cerca per vie illecite di accrescerli ancora, ogni sentimento di pietà scompare e si deve reclamare che piena giustizia venga fatta”. Il panno dell’azienda mossese non aveva superato i test di resistenza perché conteneva troppo cotone. Essendo ben chiari i limiti percentuali di detta fibra nella composizione delle “miste” di filatura, un eccesso così conclamato prefigurava un tentativo di frode. Molte pezze furono sequestrate e contro i titolari Buratti, Crolle e Maggi fu spiccato un mandato di cattura. Ma solo il primo, ammalato, fu raggiunto dalla misura costrittiva a domicilio. Gli altri due si erano già dati alla fuga. “Dare cotone invece di lana, vestire il soldato che combatte tra i rigori del freddo con una stoffa meno resistente di quella che dovrebbe avere, è un delitto contro la nazione che deve pagare di propria borsa gli illeciti guadagni degli industriali ed è un danno a chi espone il proprio petto per il paese”. Il traditore si celava non solo in prima linea, bensì anche a casa, lucrando sulla pelle dei propri compatrioti al fronte. Ma anche il gesto così patriottico e perentorio di punire i colpevoli di cotanto oltraggio rischia di passare, se non per mimetizzazione, almeno per azione diversiva. Nel giro di poche settimane si alzò un gran polverone e, come si suol dire, cadde qualche testa. Fu quasi una decimazione alla Cadorna: preventiva, tanto perché gli altri nove stessero in campana.

 

I “tre di Valle Mosso” arrestati e giudicati, i “due di Pralungo” (Boggio e Ubertalli) condannati, i Vercellone di Sordevolo degradati con disonore dai dinamometri dell’Ufficio Collaudi per la loro stoffa indegna... Il fatto è che si trattava di pesci piccoli e, per restare nel regno animale, di capri espiatori. Il proletariato ebbe la sua giustizia, l’opinione pubblica ebbe l’impressione che si stesse facendo sul serio, lo Stato Maggiore ebbe il merito di annodare ancor di più il telaio alla trincea nello strenuo sacrificio per la causa nazionale, ma dopo tre commissioni d’inchiesta (due militari e una giolittiana a conflitto concluso) e dopo un secolo trascorso un sospetto rimane. Nella fredda e sporca luce della guerra si poterono nascondere affari d’oro. L’arte di far soldi con la guerra supera in abilità ed efficacia le performance mimetico-metafisiche della “Compagnia Camaleonte” (che ovviamente è “scomparsa”, ma bisognerebbe stabilire se, come e perché) di cui narra Wu Ming. Si resta perplessi allora nello sfogliare il campionario di Ermenegildo Zegna, che prima di arrivare al suo grigioverde perfetto fece non meno di venti tentativi tutti precisamente documentati nei loro pregi e difetti. Ma in questo caso specifico la questione si poggia, forse, su un piano differente: è probabile che il futuro conte di Monte Rubello fosse già in preda a quella ossessione per la qualità che ne condizionò l’esistenza e che cercasse di eccellere anche nelle forniture militari. Perché, visibile o meno al nemico, era importante che quel grigioverde fosse comunque il migliore, anche solo per morirci dignitosamente ed elegantemente dentro.

Danilo Craveia

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