Da Villa del Bosco a Casa del Bosco, storie di campagna

Da Villa del Bosco a Casa del Bosco, storie di campagna
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Ci sono anche nel Biellese aree che conservano una speciale aura d’antichità. Per quelle zone per lo più agresti e collinari, incastonate in un territorio industrializzato senza criterio e ormai quasi privo di identità, si possono usare quelle espressioni da dépliant turistico, tipo “dove il tempo pare essersi fermato”. Io li chiamo i “luoghi vecchi”. Si tratta di porzioni più o meno estese del Biellese nelle quali l’ambiente naturale non ha smesso di essere prevalente, dove si coglie il segno minimo di un’antropizzazione secolare, ma non invasiva, dove la terra è stata coltivata senza eccessi. Dove la selva ha concesso agli esseri umani lo spazio vitale minimo di una strada, di un mulino, di un piccolo borgo. Dove le balze e le forre argillose segnate dai ruscelli presidiano distanze prive di asfalto e di cemento, di case e di fabbriche. Dove il nome dei posti risuona nella mente sopra il frastuono indistinto di Internet, dei telefonini e dei termini inglesi: la miracolosa parola “bosco”. Nel Biellese orientale, dove le Alpi si stemperano in baragge, le vetuste “silvae” del Mortilliano (Mortigliengo) e Rovaxida (Roasio) coprono ancora tutto il quadrante compreso tra lo Strona di Mosso, il Ponzone, lo Strona di Postua, il Sessera e che si estende digradando oltre l’Ostola, il Torbola, fino al Rovasenda e, laggiù, al Sesia. La statale 142 Biella-Gattinara segna il confine meridionale del settore, ma appena al di là dei capannoni che la costeggiano si lascia questo tempo di corsa e si entra in quello fermo, o quasi. 

In questo tratto di mondo si trovano San Giacomo del Bosco, Villa del Bosco e Casa del Bosco. La provinciale 64 che unisce la Valsessera alla pianura attraversa un “luogo vecchio”. La macchia di acacie e roveri è spesso fitta lungo la strada e non se ne scorge la fine, come in quegli angoli di Monferrato e di Langhe dove il diavolo abita le colline. Ma qui gli uomini hanno portato con loro la croce e la vite, così il paesaggio è ridente sui declivi ancora dolci, almeno fino a Sostegno. Ad Azoglio comincia la montagna. Fino al primo Novecento, per non dire ai giorni nostri, la storia, da queste parti, è stata quella delle campagne profonde. I piccoli fatti diventavano avvenimenti e restavano nella memoria della gente e delle generazioni. Non è facile trovare notizie su Villa del Bosco e Casa del Bosco, un comune di 400 anime e una frazione (di Sostegno) di 100, ma, a volte, sfogliando vecchi giornali e consultando muffite riviste si può scovare qualche cenno. Per esempio si potrebbe citare quella causa con “giudizio di subasta” avviata dai fondachieri Rebora di Biella contro il geometra Bartolomeo Gila di Casa del Bosco e contro una piccola schiera di debitori di Villa del Bosco. 

Nell’estate del 1867 la questione tenne banco in paese: i creditori arrivarono a far vendere i beni di tutte quelle persone per recuperare ben 16,121 lire. Due anni dopo, alla fine di giugno del 1869, fu la tempesta a condizionare la stagione e l’annata di quelle contrade. Nel pomeriggio del 29 giugno sui campi compresi tra Brusnengo e Lozzolo, Sostegno e Villa del Bosco, Rongio e Castelletto Villa (un tempo comune autonomo poi ridotto a frazione di Roasio) “imperversò un furioso temporale, che lasciò cadere tanta grandine, che portò via pressoché tutte le speranze delle fatiche di un anno intiero di quei poveri abitanti, dati esclusivamente alla sola industria dell’agricoltura”. La gragnola fu davvero tremenda, tanto che nei dintorni si raccoglievano a decine “uccelli, lepri e volpi vittime della tempesta, che a memoria d’uomo non si vide mai di egual grossezza. A Roasio dovette perire anche una donna”. Nell’agosto del 1905 la grandine tornò a cadere sulle stesse comunità provocando danni per milioni di lire. Il Governo promosse una pubblica sottoscrizione per sussidiare gli sfortunati agricoltori e stanziò 1.500 lire per i primi interventi d’aiuto. Un territorio così fortemente votato all’agricoltura e, in special modo, alla coltivazione dell’uva, correva rischi seri anche su altri fronti. Uno tra tutti quello delle malattie delle vigne, come la filossera. Nello stesso 1905 e nel 1906, quello di Villa del Bosco fu inserito nell’elenco dei comuni definiti filosserici “dai cui territori è vietato di asportare vegetali”. E pensare che quella gente poteva contare su un vero e proprio apostolo missionario dell’agricoltura. Quel don Paolo Antoniotti che da Casa del Bosco e tutto intorno aveva diffuso il verbo dell’efficienza e delle colture sperimentali, avviando anche una colonia agricola nel 1899 a Villa del Bosco “per far apprendere a poveri giovanetti le pratiche razionali dell’arte agricola”. Su don Antoniotti, anzi sul cavalier don Antoniotti, si possono avere buone note fin dalla “Rivista Biellese” degli anni Venti. E’ un personaggio di grande rilievo, che da solo rende lustro a quei romitosi paraggi, e a lui si deve il seme di quella pia istituzione che fu l’Ospedaletto di Sant’Antonio di Villa del Bosco attivato sotto gli auspici di don Orione, allievo di don Bosco. Da quel semplice “ricovero” è poi sorta la grande casa di riposo dedicata a Santa Rita da Cascia, edificata da Madre Teresa Michel, ampia e bella magione che domina l’abitato come il piccolo maniero che torreggiava già nel primo ‘400.  

Ma le insidie della vita campagnola erano anche altre. La tarda estate del 1906 vide anche il fuoco di un grave incendio aggiungersi agli argomenti di discussione nelle locande e nei cortili del villaggio. Il 27 agosto, di notte, fiamme di origine ignota invasero il cascinale di Teresa Lorenzini provocando danneggiamenti per 9.000 lire “per guasti al fabbricato e attrezzi rurali”. I fatti di cronaca, abbastanza rari a dire il vero (e proprio per questo più memorabili), di tanto in tanto raggiungevano anche queste borgate alimentando per anni le chiacchiere dei terrazzani. Nell’autunno del 1889 fu il caso di un certo Giacomo L. Costui aveva dato pessima prova di sé in quel di Ronco Biellese, dove aveva pestato a sangue una povera vedova con la quale, da qualche tempo, intratteneva “non lecite relazioni”. Nel susseguente tentativo di linciaggio si era buscato una pallottola in un fianco. Il simpaticone, che si era sempre spacciato come un “disertore toscano”, era scampato ai forconi e agli schioppi dei ronchesi.  La sua fuga finì però a Villa del Bosco. La ferita lo costrinse a rivolgersi a un medico che, insospettito, ne segnalò la presenza alle autorità. Subito arrestato, fu scoperto niente affatto toscano. Era solo un biogliese con una bella parlantina senza troppo accento. Trascorse la sua convalescenza in carcere e anche parecchi altri mesi.  In una realtà tanto tranquilla da essere messa in subbuglio da un mezzo delinquente con un buco nella pancia, non poteva mancare la scuola rurale, una pennellata immancabile nel quadro dell'idillio bucolico. 

Nel 1906 la maestra Angiolina Colombo si era vista respingere il ricorso per la “classificazione” della scuola della frazione Ferracane. L'insegnante non avrebbe perso lo stipendio, ma il competente ministero aveva stabilito di mantenere il micro-istituto come “facoltativo fuori classe”. In ogni caso i bambini avrebbero continuato ad andare a scuola tra le boscaglie e le vigne. Quelle vigne che già allora si identificavano con il Bramaterra. Fin dal 1883, in occasione dell’inchiesta agraria realizzata in Piemonte, era stato evidenziato il potenziale di quella porzione di Biellese. La valorizzazione di un ambito enologico straordinario era stata poi avviata dai figli di Giuseppe Venanzio Sella a partire dal 1894 (anche con l’aiuto del citato don Antoniotti) e i primi frutti di quell'investimento sostenibile e virtuoso si andavano già cogliendo al cambio di secolo. La selva cedeva terreno ai filari senza che l’equilibrio ecologico fosse turbato. Il bosco di quei “luoghi vecchi” accoglieva gli aratri e le roncole stabilendo una proporzione giusta che va difesa e goduta ancora oggi senza per forza dover rimettere in moto il tempo. 

Danilo Craveia

Ci sono anche nel Biellese aree che conservano una speciale aura d’antichità. Per quelle zone per lo più agresti e collinari, incastonate in un territorio industrializzato senza criterio e ormai quasi privo di identità, si possono usare quelle espressioni da dépliant turistico, tipo “dove il tempo pare essersi fermato”. Io li chiamo i “luoghi vecchi”. Si tratta di porzioni più o meno estese del Biellese nelle quali l’ambiente naturale non ha smesso di essere prevalente, dove si coglie il segno minimo di un’antropizzazione secolare, ma non invasiva, dove la terra è stata coltivata senza eccessi. Dove la selva ha concesso agli esseri umani lo spazio vitale minimo di una strada, di un mulino, di un piccolo borgo. Dove le balze e le forre argillose segnate dai ruscelli presidiano distanze prive di asfalto e di cemento, di case e di fabbriche. Dove il nome dei posti risuona nella mente sopra il frastuono indistinto di Internet, dei telefonini e dei termini inglesi: la miracolosa parola “bosco”. Nel Biellese orientale, dove le Alpi si stemperano in baragge, le vetuste “silvae” del Mortilliano (Mortigliengo) e Rovaxida (Roasio) coprono ancora tutto il quadrante compreso tra lo Strona di Mosso, il Ponzone, lo Strona di Postua, il Sessera e che si estende digradando oltre l’Ostola, il Torbola, fino al Rovasenda e, laggiù, al Sesia. La statale 142 Biella-Gattinara segna il confine meridionale del settore, ma appena al di là dei capannoni che la costeggiano si lascia questo tempo di corsa e si entra in quello fermo, o quasi. 

In questo tratto di mondo si trovano San Giacomo del Bosco, Villa del Bosco e Casa del Bosco. La provinciale 64 che unisce la Valsessera alla pianura attraversa un “luogo vecchio”. La macchia di acacie e roveri è spesso fitta lungo la strada e non se ne scorge la fine, come in quegli angoli di Monferrato e di Langhe dove il diavolo abita le colline. Ma qui gli uomini hanno portato con loro la croce e la vite, così il paesaggio è ridente sui declivi ancora dolci, almeno fino a Sostegno. Ad Azoglio comincia la montagna. Fino al primo Novecento, per non dire ai giorni nostri, la storia, da queste parti, è stata quella delle campagne profonde. I piccoli fatti diventavano avvenimenti e restavano nella memoria della gente e delle generazioni. Non è facile trovare notizie su Villa del Bosco e Casa del Bosco, un comune di 400 anime e una frazione (di Sostegno) di 100, ma, a volte, sfogliando vecchi giornali e consultando muffite riviste si può scovare qualche cenno. Per esempio si potrebbe citare quella causa con “giudizio di subasta” avviata dai fondachieri Rebora di Biella contro il geometra Bartolomeo Gila di Casa del Bosco e contro una piccola schiera di debitori di Villa del Bosco. 

Nell’estate del 1867 la questione tenne banco in paese: i creditori arrivarono a far vendere i beni di tutte quelle persone per recuperare ben 16,121 lire. Due anni dopo, alla fine di giugno del 1869, fu la tempesta a condizionare la stagione e l’annata di quelle contrade. Nel pomeriggio del 29 giugno sui campi compresi tra Brusnengo e Lozzolo, Sostegno e Villa del Bosco, Rongio e Castelletto Villa (un tempo comune autonomo poi ridotto a frazione di Roasio) “imperversò un furioso temporale, che lasciò cadere tanta grandine, che portò via pressoché tutte le speranze delle fatiche di un anno intiero di quei poveri abitanti, dati esclusivamente alla sola industria dell’agricoltura”. La gragnola fu davvero tremenda, tanto che nei dintorni si raccoglievano a decine “uccelli, lepri e volpi vittime della tempesta, che a memoria d’uomo non si vide mai di egual grossezza. A Roasio dovette perire anche una donna”. Nell’agosto del 1905 la grandine tornò a cadere sulle stesse comunità provocando danni per milioni di lire. Il Governo promosse una pubblica sottoscrizione per sussidiare gli sfortunati agricoltori e stanziò 1.500 lire per i primi interventi d’aiuto. Un territorio così fortemente votato all’agricoltura e, in special modo, alla coltivazione dell’uva, correva rischi seri anche su altri fronti. Uno tra tutti quello delle malattie delle vigne, come la filossera. Nello stesso 1905 e nel 1906, quello di Villa del Bosco fu inserito nell’elenco dei comuni definiti filosserici “dai cui territori è vietato di asportare vegetali”. E pensare che quella gente poteva contare su un vero e proprio apostolo missionario dell’agricoltura. Quel don Paolo Antoniotti che da Casa del Bosco e tutto intorno aveva diffuso il verbo dell’efficienza e delle colture sperimentali, avviando anche una colonia agricola nel 1899 a Villa del Bosco “per far apprendere a poveri giovanetti le pratiche razionali dell’arte agricola”. Su don Antoniotti, anzi sul cavalier don Antoniotti, si possono avere buone note fin dalla “Rivista Biellese” degli anni Venti. E’ un personaggio di grande rilievo, che da solo rende lustro a quei romitosi paraggi, e a lui si deve il seme di quella pia istituzione che fu l’Ospedaletto di Sant’Antonio di Villa del Bosco attivato sotto gli auspici di don Orione, allievo di don Bosco. Da quel semplice “ricovero” è poi sorta la grande casa di riposo dedicata a Santa Rita da Cascia, edificata da Madre Teresa Michel, ampia e bella magione che domina l’abitato come il piccolo maniero che torreggiava già nel primo ‘400.  

Ma le insidie della vita campagnola erano anche altre. La tarda estate del 1906 vide anche il fuoco di un grave incendio aggiungersi agli argomenti di discussione nelle locande e nei cortili del villaggio. Il 27 agosto, di notte, fiamme di origine ignota invasero il cascinale di Teresa Lorenzini provocando danneggiamenti per 9.000 lire “per guasti al fabbricato e attrezzi rurali”. I fatti di cronaca, abbastanza rari a dire il vero (e proprio per questo più memorabili), di tanto in tanto raggiungevano anche queste borgate alimentando per anni le chiacchiere dei terrazzani. Nell’autunno del 1889 fu il caso di un certo Giacomo L. Costui aveva dato pessima prova di sé in quel di Ronco Biellese, dove aveva pestato a sangue una povera vedova con la quale, da qualche tempo, intratteneva “non lecite relazioni”. Nel susseguente tentativo di linciaggio si era buscato una pallottola in un fianco. Il simpaticone, che si era sempre spacciato come un “disertore toscano”, era scampato ai forconi e agli schioppi dei ronchesi.  La sua fuga finì però a Villa del Bosco. La ferita lo costrinse a rivolgersi a un medico che, insospettito, ne segnalò la presenza alle autorità. Subito arrestato, fu scoperto niente affatto toscano. Era solo un biogliese con una bella parlantina senza troppo accento. Trascorse la sua convalescenza in carcere e anche parecchi altri mesi.  In una realtà tanto tranquilla da essere messa in subbuglio da un mezzo delinquente con un buco nella pancia, non poteva mancare la scuola rurale, una pennellata immancabile nel quadro dell'idillio bucolico. 

Nel 1906 la maestra Angiolina Colombo si era vista respingere il ricorso per la “classificazione” della scuola della frazione Ferracane. L'insegnante non avrebbe perso lo stipendio, ma il competente ministero aveva stabilito di mantenere il micro-istituto come “facoltativo fuori classe”. In ogni caso i bambini avrebbero continuato ad andare a scuola tra le boscaglie e le vigne. Quelle vigne che già allora si identificavano con il Bramaterra. Fin dal 1883, in occasione dell’inchiesta agraria realizzata in Piemonte, era stato evidenziato il potenziale di quella porzione di Biellese. La valorizzazione di un ambito enologico straordinario era stata poi avviata dai figli di Giuseppe Venanzio Sella a partire dal 1894 (anche con l’aiuto del citato don Antoniotti) e i primi frutti di quell'investimento sostenibile e virtuoso si andavano già cogliendo al cambio di secolo. La selva cedeva terreno ai filari senza che l’equilibrio ecologico fosse turbato. Il bosco di quei “luoghi vecchi” accoglieva gli aratri e le roncole stabilendo una proporzione giusta che va difesa e goduta ancora oggi senza per forza dover rimettere in moto il tempo. 

Danilo Craveia

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