Correva l’anno... ’16. Dai terreni in fitto allo studio Rossetti

Correva l’anno... ’16. Dai terreni in fitto allo studio Rossetti
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Ci vogliono ancora dieci anni per poter celebrare i dodici secoli esatti dalla prima comparsa su di un documento del nome di “Biella” (anzi di “Bugella ”). Correva l’anno 826. Quella, però, è un’altra storia. Siamo solo nel 2016 e ci dobbiamo distrarre nell’attesa con qualche altro giochino cronologico. Magari si potrebbe festeggiare questo nuovo anno andando indietro, finché si può, a cercare qualche curiosa, ma millesimata, ricorrenza. Come a dire: che cosa è accaduto nel 1916? E nel 1816? E cent’anni prima? E così via. Come al solito non ci interessano le grandi notizie, i clamorosi fatti storici, gli eventi epocali. I rubricisti (chi scrive la rubrica e quelli che la leggono) sono gente semplice, di poche pretese, avvezzi ad apprezzare o, almeno, a farsi bastare il dettaglio, l’inezia, il pensiero debole e la traccia minima. Sono gli episodi meno eclatanti a forgiare i binari su cui avanza, sbuffando, la Storia. La piccola e non sempre eroica quotidianità è il “terreno di coltura” ideale per veder germogliare il Passato dove i piccoli destini degli ultimi crescono tra quelli dei papaveri, che son alti alti alti. Bisogna tenere a mente tutto questo anche perchè, spesso, si deve fare di necessità virtù: quando viene in mente di costruire un divertissement come questo si parte bene, con qualche spunto valido, poi subentra il sospetto che, per esempio, nel 1516 non sia successo niente per cui valga la pena di scrivere un rigo. Sì, certo, nel 1516 Carlo V diventa re di Spagna e Tommaso Moro pubblica “L’Utopia”, ma Biella e il Biellese che cosa hanno a che fare con queste due date così rilevanti per l’umanità? Questa non è mica Wikipedia!

E’ una rubrica biellese, di biellesi e per biellesi credenti e praticanti nella biellesità, qualunque cosa sia (ma sono ben accetti anche gli agnostici, gli atei professi ecc.). Ci vuole almeno un po’ di coerenza territoriale. Quindi? Quindi non resta che salire (o scendere, come in politica) in archivio e/o in biblioteca e mettersi a cercare.

Le preci sono sempre esaudite e il miracolo invariabilmente accade. Da che qualcuno in queste terre ha cominciato a vergare carte e a legare tomi, giorno per giorno il flusso si è ingrossato e la memoria dei tempi che furono da rivolo si è fatta torrente in piena. E non c’è istante trascorso qui da chicchessia che non sia degno di qualche parola o di un libro intero, di un trafiletto o di una pagina come questa. Ecco perché ogni singolo attimo testimoniato, per quanto lontano e per quanto legato a un perfetto sconosciuto, svela un mondo, quel particolare mondo, e attesta una realtà vissuta che parla anche di quella odierna e di quella che verrà. Ecco perché, di sicuro, anche nel 1516 è successo qualcosa di cui è interessante dar memoria. Il problema, semmai, è quello della selezione. Che cosa merita e che cosa no? A questo quesito non c’è risposta. O, meglio, ce ne sono infinite: ognuno ha la sua.

E’ come se ciascuno di noi potesse disporre delle news di oggi di tutto il mondo: non ci sarebbe un telegiornale uguale all’altro. Le gerarchie di importanza e di significato sono soggettive, e il bello sta nella varietà. Allora partiamo.

Correva l’anno 1216. Ottocento anni fa. Il Capitolo di Santo Stefano possiede molti terreni e non solo a Biella. Come avviene da sempre i canonici assegnano quei fondi per riscuotere quote in denaro e in natura. Michele, genero del fu Evardo de Sapello, è investito di alcuni appezzamenti in enfiteusi: dovrà versare ogni anno la metà della biada, un terzo della segala, un quarto del panico, la metà del vino e sei soldi. Inoltre dovrà piantare una vigna. E pagare altri 30 soldi una tantum per l’investitura. Giulio del fu Uberto de Prato di Casaleto e suo fratello gestiscono le terre di Sandigliano, Martino Musa quelle di Chiavazza pagando dodici imperiali di fitto e due staia di frumento “alla misura di Biella”, più due soldi imperiali di fodro (diritto di ospitalità) per il vescovo. 

Correva l’anno 1316. Sulla piazza della chiesa di Mosso si riunisce la “Credencia et Vicinancia” della comunità per eleggere un procuratore. I consoli sono Nicolino Crolle e Pietro de Henrico. L’uomo da designare dovrà tutelare i mossesi in una operazione finanziaria insidiosa: contrarre un mutuo di cento lire pavesi, una somma notevole di cui Mosso necessita. Il rischio è alto e il rappresentante deve essere più che affidabile, ma anche capace di trovare un buon prestatore alle migliori condizioni. Il mossese Galoppo di Guadalbertino è riconosciuto adatto alla missione ed è eletto “missum, nuncium, sindicum, et procuratorem.” 

Correva l’anno 1416. Ancora il Capitolo di Santo Stefano. C’è qualche frizione con il convento di Sant’Agata, anzi, per la precisione, con i massari delle monache del Vernato. I potenti canonici del Piano convocano i contadini che dipendono dal monastero extra moenia per chiarire la vicenda, ma questi non si presentano. La contumacia è una pessima strategia difensiva, un indizio concreto di colpevolezza e, più ancora, è un affronto grave, specialmente contro l’autorità (ecclesiastica) costituita. All’epoca il peccato è reato e la pena più pesante è la scomunica. I fattori vernatesi rischiano grosso. 

Correva l’anno 1516. Muore Besso Ferrero, figlio del grande Sebastiano. Di per sé parrebbe poca cosa, ma al contrario è l’innesco di mirabili e inattesi sviluppi storico-genealogici. Besso lascia un ragazzino di dodici anni, Filiberto, che tanto piace al conte Ludovico di Lavagna (che ha solo eredi femmine) da farne il suo figlio adottivo e successore. Ma il conte di Lavagna, un Fieschi, è anche il signore di Masserano, Crevacuore e altre borgate di quel feudo pontificio. Dalla morte di un Ferrero “nasce” il primo dei marchesi e principi Ferrero-Fieschi. 

Correva l’anno 1616. A Oropa fervono le opere attorno alla chiesa. L’edificio è un unico vasto cantiere: sono gli interventi che conferiranno alla Basilica Antica l’aspetto attuale. Servono assi per i ponteggi e sabbia per le murature, mattoni per le volte e pietre per la facciata. Il legname si ricava dai boschi della conca (ma si devono reclutare i taglialegna), i laterizi arrivano da Cossila o da Occhieppo, Antonio Solaro è il mastro “piccapietre”. Il povero tesoriere don Giovanni Angelo Quarasa è oberato di lavoro: incombe la prima Incoronazione della Madonna di Oropa (1620).

Correva l’anno 1716. In un secolo Oropa non solo ha sistemato la chiesa e realizzato il chiostro, ma ha anche ampliato il suo “giro d’affari”. Alla fine del Seicento ha attivato un filatoio da seta lungo il Cervo verso Chiavazza (dove già c’era la cartiera Mondella e dove poi si impianteranno i Sella con il lanificio e poi la banca). Nel 1716 la filanda è ceduta in locazione al tessitore Pietro Gromo. Ma quella non era una semplice “fabbrica” di filati. Tra quelle mura, il santuario aveva inteso produrre, attraverso il lavoro, buone azioni e fanciulle virtuose, dotate di... dote. Quello, infatti, era un “Albergo di virtù”.

Correva l’anno 1816. Il filo del discorso porta ai Sella che, allora, erano ancora nella valle dello Strona. Due secoli fa Pietro Sella si recò in Belgio, a Seraing, e acquistò alcuni macchinari tessili. Con non poca fatica li trasportò fino al lanificio di famiglia e “diede acqua”. Niente di strano, a parte che erano i primi in assoluto a entrare in funzione in Italia. Duecento anni fa iniziava la rivoluzione industriale italiana. A Valle Mosso.

Correva l’anno 1916. I fratelli Alfredo e Oreste figli ed eredi di Simone Rossetti costituiscono una società in nome collettivo sotto la ragione sociale “Ditta S. Rossetti” con sede a Biella e avente per oggetto l’esercizio di studio e laboratorio fotografico. Proprio così: il fondatore, il vecchio Simone, passava le consegne alla nuova generazione. Lo studio rimarrà in attività per altri decenni, raggiungendo quasi cent’anni di onorato servizio, fotografando di fatto tutti i biellesi, almeno una volta.

Corre l’anno 2016. Che sia buono per tutti, rubricisti e non. Che sia da ricordare, così che qualcuno, tra un secolo, abbia modo di proseguire il giochino. Auguri!

Danilo Craveia

 

Nella foto il Palazzo dei Principi di Masserano nel disegno di Clemente Rovere (1847)

Ci vogliono ancora dieci anni per poter celebrare i dodici secoli esatti dalla prima comparsa su di un documento del nome di “Biella” (anzi di “Bugella ”). Correva l’anno 826. Quella, però, è un’altra storia. Siamo solo nel 2016 e ci dobbiamo distrarre nell’attesa con qualche altro giochino cronologico. Magari si potrebbe festeggiare questo nuovo anno andando indietro, finché si può, a cercare qualche curiosa, ma millesimata, ricorrenza. Come a dire: che cosa è accaduto nel 1916? E nel 1816? E cent’anni prima? E così via. Come al solito non ci interessano le grandi notizie, i clamorosi fatti storici, gli eventi epocali. I rubricisti (chi scrive la rubrica e quelli che la leggono) sono gente semplice, di poche pretese, avvezzi ad apprezzare o, almeno, a farsi bastare il dettaglio, l’inezia, il pensiero debole e la traccia minima. Sono gli episodi meno eclatanti a forgiare i binari su cui avanza, sbuffando, la Storia. La piccola e non sempre eroica quotidianità è il “terreno di coltura” ideale per veder germogliare il Passato dove i piccoli destini degli ultimi crescono tra quelli dei papaveri, che son alti alti alti. Bisogna tenere a mente tutto questo anche perchè, spesso, si deve fare di necessità virtù: quando viene in mente di costruire un divertissement come questo si parte bene, con qualche spunto valido, poi subentra il sospetto che, per esempio, nel 1516 non sia successo niente per cui valga la pena di scrivere un rigo. Sì, certo, nel 1516 Carlo V diventa re di Spagna e Tommaso Moro pubblica “L’Utopia”, ma Biella e il Biellese che cosa hanno a che fare con queste due date così rilevanti per l’umanità? Questa non è mica Wikipedia!

E’ una rubrica biellese, di biellesi e per biellesi credenti e praticanti nella biellesità, qualunque cosa sia (ma sono ben accetti anche gli agnostici, gli atei professi ecc.). Ci vuole almeno un po’ di coerenza territoriale. Quindi? Quindi non resta che salire (o scendere, come in politica) in archivio e/o in biblioteca e mettersi a cercare.

Le preci sono sempre esaudite e il miracolo invariabilmente accade. Da che qualcuno in queste terre ha cominciato a vergare carte e a legare tomi, giorno per giorno il flusso si è ingrossato e la memoria dei tempi che furono da rivolo si è fatta torrente in piena. E non c’è istante trascorso qui da chicchessia che non sia degno di qualche parola o di un libro intero, di un trafiletto o di una pagina come questa. Ecco perché ogni singolo attimo testimoniato, per quanto lontano e per quanto legato a un perfetto sconosciuto, svela un mondo, quel particolare mondo, e attesta una realtà vissuta che parla anche di quella odierna e di quella che verrà. Ecco perché, di sicuro, anche nel 1516 è successo qualcosa di cui è interessante dar memoria. Il problema, semmai, è quello della selezione. Che cosa merita e che cosa no? A questo quesito non c’è risposta. O, meglio, ce ne sono infinite: ognuno ha la sua.

E’ come se ciascuno di noi potesse disporre delle news di oggi di tutto il mondo: non ci sarebbe un telegiornale uguale all’altro. Le gerarchie di importanza e di significato sono soggettive, e il bello sta nella varietà. Allora partiamo.

Correva l’anno 1216. Ottocento anni fa. Il Capitolo di Santo Stefano possiede molti terreni e non solo a Biella. Come avviene da sempre i canonici assegnano quei fondi per riscuotere quote in denaro e in natura. Michele, genero del fu Evardo de Sapello, è investito di alcuni appezzamenti in enfiteusi: dovrà versare ogni anno la metà della biada, un terzo della segala, un quarto del panico, la metà del vino e sei soldi. Inoltre dovrà piantare una vigna. E pagare altri 30 soldi una tantum per l’investitura. Giulio del fu Uberto de Prato di Casaleto e suo fratello gestiscono le terre di Sandigliano, Martino Musa quelle di Chiavazza pagando dodici imperiali di fitto e due staia di frumento “alla misura di Biella”, più due soldi imperiali di fodro (diritto di ospitalità) per il vescovo. 

Correva l’anno 1316. Sulla piazza della chiesa di Mosso si riunisce la “Credencia et Vicinancia” della comunità per eleggere un procuratore. I consoli sono Nicolino Crolle e Pietro de Henrico. L’uomo da designare dovrà tutelare i mossesi in una operazione finanziaria insidiosa: contrarre un mutuo di cento lire pavesi, una somma notevole di cui Mosso necessita. Il rischio è alto e il rappresentante deve essere più che affidabile, ma anche capace di trovare un buon prestatore alle migliori condizioni. Il mossese Galoppo di Guadalbertino è riconosciuto adatto alla missione ed è eletto “missum, nuncium, sindicum, et procuratorem.” 

Correva l’anno 1416. Ancora il Capitolo di Santo Stefano. C’è qualche frizione con il convento di Sant’Agata, anzi, per la precisione, con i massari delle monache del Vernato. I potenti canonici del Piano convocano i contadini che dipendono dal monastero extra moenia per chiarire la vicenda, ma questi non si presentano. La contumacia è una pessima strategia difensiva, un indizio concreto di colpevolezza e, più ancora, è un affronto grave, specialmente contro l’autorità (ecclesiastica) costituita. All’epoca il peccato è reato e la pena più pesante è la scomunica. I fattori vernatesi rischiano grosso. 

Correva l’anno 1516. Muore Besso Ferrero, figlio del grande Sebastiano. Di per sé parrebbe poca cosa, ma al contrario è l’innesco di mirabili e inattesi sviluppi storico-genealogici. Besso lascia un ragazzino di dodici anni, Filiberto, che tanto piace al conte Ludovico di Lavagna (che ha solo eredi femmine) da farne il suo figlio adottivo e successore. Ma il conte di Lavagna, un Fieschi, è anche il signore di Masserano, Crevacuore e altre borgate di quel feudo pontificio. Dalla morte di un Ferrero “nasce” il primo dei marchesi e principi Ferrero-Fieschi. 

Correva l’anno 1616. A Oropa fervono le opere attorno alla chiesa. L’edificio è un unico vasto cantiere: sono gli interventi che conferiranno alla Basilica Antica l’aspetto attuale. Servono assi per i ponteggi e sabbia per le murature, mattoni per le volte e pietre per la facciata. Il legname si ricava dai boschi della conca (ma si devono reclutare i taglialegna), i laterizi arrivano da Cossila o da Occhieppo, Antonio Solaro è il mastro “piccapietre”. Il povero tesoriere don Giovanni Angelo Quarasa è oberato di lavoro: incombe la prima Incoronazione della Madonna di Oropa (1620).

Correva l’anno 1716. In un secolo Oropa non solo ha sistemato la chiesa e realizzato il chiostro, ma ha anche ampliato il suo “giro d’affari”. Alla fine del Seicento ha attivato un filatoio da seta lungo il Cervo verso Chiavazza (dove già c’era la cartiera Mondella e dove poi si impianteranno i Sella con il lanificio e poi la banca). Nel 1716 la filanda è ceduta in locazione al tessitore Pietro Gromo. Ma quella non era una semplice “fabbrica” di filati. Tra quelle mura, il santuario aveva inteso produrre, attraverso il lavoro, buone azioni e fanciulle virtuose, dotate di... dote. Quello, infatti, era un “Albergo di virtù”.

Correva l’anno 1816. Il filo del discorso porta ai Sella che, allora, erano ancora nella valle dello Strona. Due secoli fa Pietro Sella si recò in Belgio, a Seraing, e acquistò alcuni macchinari tessili. Con non poca fatica li trasportò fino al lanificio di famiglia e “diede acqua”. Niente di strano, a parte che erano i primi in assoluto a entrare in funzione in Italia. Duecento anni fa iniziava la rivoluzione industriale italiana. A Valle Mosso.

Correva l’anno 1916. I fratelli Alfredo e Oreste figli ed eredi di Simone Rossetti costituiscono una società in nome collettivo sotto la ragione sociale “Ditta S. Rossetti” con sede a Biella e avente per oggetto l’esercizio di studio e laboratorio fotografico. Proprio così: il fondatore, il vecchio Simone, passava le consegne alla nuova generazione. Lo studio rimarrà in attività per altri decenni, raggiungendo quasi cent’anni di onorato servizio, fotografando di fatto tutti i biellesi, almeno una volta.

Corre l’anno 2016. Che sia buono per tutti, rubricisti e non. Che sia da ricordare, così che qualcuno, tra un secolo, abbia modo di proseguire il giochino. Auguri!

Danilo Craveia

 

Nella foto il Palazzo dei Principi di Masserano nel disegno di Clemente Rovere (1847)

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