Cei, l’occasionale biellesità del pittore di Eleonora Duse

Certi gruppi, certe figure, certi visi ci sono famigliari non tanto per gli individui raffigurati, ma per come, in senso tecnico, sono stati ritratti. Certi volti, certi corpi, certi insiemi di persone si sono conquistati un posto stabile nella nostra memoria non perché i soggetti siano o non siano stati coloro che furono, bensì perché di essi fu realizzata una rappresentazione efficace. Come e perché una rappresentazione si sia rivelata o meno efficace è difficile dirlo o impossibile. In alcuni casi chi è raffigurato e il modo in cui è raffigurato sono diventati un tutt’uno. Messaggio e mezzo, come direbbe McLuhan. Forse Napoleone Bonaparte in foto sarebbe venuto male, ma tutti lo hanno ben presente per come si mostra nei quadri di David o di Ingres. Che Guevara dipinto non è granché (meglio in uno dei tanti scatti con o senza sigaro), ma la sua “faccia” più nota è comunque quella stilizzata e riprodotta nero su rosso sulle magliette che si vedono ovunque. JFK in un olio su tela non ha lo stesso fascino che sprigiona in fotografie o in video. Don Bosco fotografato è poca cosa, come Garibaldi. Al contrario le loro effigi pittoriche sono assai celebri. E Marylin? O i corpi del Giudizio Universale della Sistina? Nemmeno Helmut Newton avrebbe reso giustizia a quei fisici olimpionici. Yousuf Karsh avrebbe ritratto una tizia (?) anonima e ordinaria, come la Monna Lisa? Eppure, sebbene brutttina, Leonardo ne ha fatto un mito. Invece nessun pennello avrebbe esaltato i colori della ragazza afgana di McCurry. Gli esempi sono innumerevoli. E il discorso vale anche per immagini generiche che a forza di vederle diventano icone o simboli. Non occorre una laurea in semiotica, nè un master in scienze della comunicazione per cogliere la carica e la tipicità di moltissimi elementi inconfondibili.
Pensare a un bimbo che piange significa avere di fronte o una campagna informativa dell’Unicef o un quadro di Bruno Amadio. Idem per le donne di Boldini o quelle di Botero, di Tamara de Lempicka o quelle di Klimt: dato un contesto o una suggestione si arriva più o meno sempre allo stesso risultato. Basta pensare a un nonno sdentato ma allegro, magari con un violino in mano e con un camino sullo sfondo: ecco Eugenio Zampighi. Riandare a quelle povere stanze dove si respira l’aria semplice ed eroica del Risorgimento, tra famiglie in attesa e reduci delle patrie battaglie: ecco Gerolamo Induno. Richiamare quei piccoli monelli scalzi, poveri ma belli, svegli e svelti, ridenti e scanzonati: ecco Cipriano Cei. Se ne vedono spesso di quei Remy, di quei “Senza famiglia” stereotipati, con calzoni corti e sfrangiati, con un piglio furbetto più da Lucignolo che da Pinocchio. Sono quadri di maniera, tutti uguali alla fine, ma non meno interessanti, prodotti da una mano felice che sapeva “fotografare” l’espressione sbarazzina di chi nell’età più bella sembrava (l’equivoco sta proprio lì: la verosimiglianza caricaturale, che non è affatto il realismo verista) capace di ridere della miseria, di chi con una capriola giocava con la fame, di chi vagabondava in un’Italia che non c’è più e che, forse, non c’è mai stata. E’ il caso del bel quadro dal titolo “Spensieratezza” che appare come la sintesi di una versione ilare de “I ragazzi della via Pal” o come il manifesto da cinema di una avventura alla Mark Twain.
Ma Cipriano Cei sapeva anche uscire dal solco dei “cartoni” che gli davano da vivere (rendendolo popolare anche attraverso la pubblicazione di cartoline postali ricavate dalle sue tele) e concedere saggi del suo talento con opere di tutt’altro spessore, se non altro per la committenza. Dai ragazzini che si rincorrono nell’aia alla famiglia reale di Umberto I° di Savoia (1908) o ai figli del duca Tommaso, dai mocciosi che si gingillano con un orologio da tasca a Papa Benedetto XV, da placidi asinelli a Eleonora Duse (un lavoro bellissimo, davvero degno della diva dannunziana). Cipriano Cei nacque a Biella il 15 agosto 1864. Il cognome tradisce origini forestiere e il suo venire al mondo da queste parti fu un fatto casuale.
Il padre, Scipione, era un ufficiale del 51° Reggimento Fanteria di stanza in città. La madre, Luigia Vallino Baietta, di natali milanesi, aveva seguito il marito, nativo di Ottiglio nel Monferrato, in questa tappa della sua carriera. Cipriano Giovanni Luigi Domenico Cei fu battezzato il giorno dopo la nascita nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano dal viceparroco don Giacomo Tamaroglio di Tollegno. Il commendator Mario Coda ha infallibilmente reperito l’atto di battesimo dal quale si evince che Cipriano era il nome del padrino del neonato, Cipriano Giusto Tersoglio, a sua volta ufficiale del medesimo reparto del padre. Il 51° Reggimento Fanteria, ovvero la metà della Brigata delle Alpi, aveva stabilito in Biella il suo deposito fin dal passaggio di Garibaldi nel maggio del 1859, quando quelle truppe del Generale si chiamavano ancora “Cacciatori delle Alpi” (i due reggimenti dei “cacciatori” garibaldini, il 1° agli ordini del generale Cosenz e il 2° guidato dal generale Medici, furono integrati nel Regio Esercito nel maggio del 1860 assumendo gli ordinali 51° e 52°). Truppa e ufficiali occupavano inizialmente i due conventi di Sant’Antonio e di San Sebastiano poi, ristabilita la pace, i graduati ebbero modo di risiedere al di fuori della caserma, con le rispettive famiglie. A titolo informativo, circa la permanenza di quel contingente in Biella si possono consultare, anche on line, le “Fonti garibaldine” pubblicate sul sito dell’Archivio di Stato di Biella dal 2011. Non è chiaro quanto Cipriano Cei sia rimasto in città. Stante il mestiere del padre, è possibile che si sia presto trasferito in altre località. Di certo a Castalfranco Emilia dove, nel 1867, nacque il fratello Ugo (futuro generale di corpo d’armata e senatore durante il Fascismo, noto anche per essere l’ideatore e il realizzatore dei sacrari del Monte Grappa e di Redipuglia).
Il giovane Cipriano entrò nel 1877 al Reale Istituto di Belle Arti di Lucca come allievo di Luigi Norfini terminando i suoi studi nel 1883. A vent’anni, nel 1884, il Cei si faceva già notare a Venezia con i suoi ritratti. Le note biografiche disponibili sul web raccontano di un periodo trascorso all’estero e poi dell’apertura di un atelier a Firenze. In città espose in occasione della “Promotrice” del 1885 i quadri: “Pax Vobis”, “Testa muliebre”, “Mida”, “Il mio Allievo”, “Il riposo”, “Pene di Tantalo”, “Me ne impipo”. Nel 1886 partecipò con le opere “Viny” e “Tik-tik-tik”, ovvero un “grazioso soggetto rappresentante un ragazzo che ascolta il battere dell’orologio”. Quel quadro fu presentato nuovamente alla Biennale di Venezia del 1887, insieme alle opere “Alla fontana” e “Senza quattrini.” Cipriano Cei prese parte anche alle Triennali di Milano del 1894, 1897 e 1900. Il dipinto “Una dama toscana” (ora presso il Museo Nazionale di Palazzo Mansi a Lucca) fu presentato al “Salon” dell’Expo di Parigi del 1900 riscotendo un discreto successo. Il 5 ottobre 1890 a Firenze sposò Maria Bruni.
I dipinti di Cipriano Cei non hanno nulla a che fare con Biella o con il Biellese: non ci sono fabbriche né montagne in quelle scene così bucoliche e rassicuranti. Di sicuro la campagna toscana di quei tempi, per quanto esaltata a modello ideale di “bella vita” di una volta, ma lontana dal vero, trova maggior riscontro nei quadri del pittore “biellese.” Oltre che su Internet, le sue opere si trovano disseminate in tutta Italia in vari musei o presso collezioni private. Da segnalare un suo lavoro al castello di Sarre in Valle d’Aosta (il ritratto della Regina Elena) e il citato gruppo della famiglia reale sabauda conservato nel Palazzo di Cetinje, città natale della stessa Regina Elena del Montenegro. Cipriano Cei morì a Roma il 15 novembre 1922.
Danilo Craveia
Certi gruppi, certe figure, certi visi ci sono famigliari non tanto per gli individui raffigurati, ma per come, in senso tecnico, sono stati ritratti. Certi volti, certi corpi, certi insiemi di persone si sono conquistati un posto stabile nella nostra memoria non perché i soggetti siano o non siano stati coloro che furono, bensì perché di essi fu realizzata una rappresentazione efficace. Come e perché una rappresentazione si sia rivelata o meno efficace è difficile dirlo o impossibile. In alcuni casi chi è raffigurato e il modo in cui è raffigurato sono diventati un tutt’uno. Messaggio e mezzo, come direbbe McLuhan. Forse Napoleone Bonaparte in foto sarebbe venuto male, ma tutti lo hanno ben presente per come si mostra nei quadri di David o di Ingres. Che Guevara dipinto non è granché (meglio in uno dei tanti scatti con o senza sigaro), ma la sua “faccia” più nota è comunque quella stilizzata e riprodotta nero su rosso sulle magliette che si vedono ovunque. JFK in un olio su tela non ha lo stesso fascino che sprigiona in fotografie o in video. Don Bosco fotografato è poca cosa, come Garibaldi. Al contrario le loro effigi pittoriche sono assai celebri. E Marylin? O i corpi del Giudizio Universale della Sistina? Nemmeno Helmut Newton avrebbe reso giustizia a quei fisici olimpionici. Yousuf Karsh avrebbe ritratto una tizia (?) anonima e ordinaria, come la Monna Lisa? Eppure, sebbene brutttina, Leonardo ne ha fatto un mito. Invece nessun pennello avrebbe esaltato i colori della ragazza afgana di McCurry. Gli esempi sono innumerevoli. E il discorso vale anche per immagini generiche che a forza di vederle diventano icone o simboli. Non occorre una laurea in semiotica, nè un master in scienze della comunicazione per cogliere la carica e la tipicità di moltissimi elementi inconfondibili.
Pensare a un bimbo che piange significa avere di fronte o una campagna informativa dell’Unicef o un quadro di Bruno Amadio. Idem per le donne di Boldini o quelle di Botero, di Tamara de Lempicka o quelle di Klimt: dato un contesto o una suggestione si arriva più o meno sempre allo stesso risultato. Basta pensare a un nonno sdentato ma allegro, magari con un violino in mano e con un camino sullo sfondo: ecco Eugenio Zampighi. Riandare a quelle povere stanze dove si respira l’aria semplice ed eroica del Risorgimento, tra famiglie in attesa e reduci delle patrie battaglie: ecco Gerolamo Induno. Richiamare quei piccoli monelli scalzi, poveri ma belli, svegli e svelti, ridenti e scanzonati: ecco Cipriano Cei. Se ne vedono spesso di quei Remy, di quei “Senza famiglia” stereotipati, con calzoni corti e sfrangiati, con un piglio furbetto più da Lucignolo che da Pinocchio. Sono quadri di maniera, tutti uguali alla fine, ma non meno interessanti, prodotti da una mano felice che sapeva “fotografare” l’espressione sbarazzina di chi nell’età più bella sembrava (l’equivoco sta proprio lì: la verosimiglianza caricaturale, che non è affatto il realismo verista) capace di ridere della miseria, di chi con una capriola giocava con la fame, di chi vagabondava in un’Italia che non c’è più e che, forse, non c’è mai stata. E’ il caso del bel quadro dal titolo “Spensieratezza” che appare come la sintesi di una versione ilare de “I ragazzi della via Pal” o come il manifesto da cinema di una avventura alla Mark Twain.
Ma Cipriano Cei sapeva anche uscire dal solco dei “cartoni” che gli davano da vivere (rendendolo popolare anche attraverso la pubblicazione di cartoline postali ricavate dalle sue tele) e concedere saggi del suo talento con opere di tutt’altro spessore, se non altro per la committenza. Dai ragazzini che si rincorrono nell’aia alla famiglia reale di Umberto I° di Savoia (1908) o ai figli del duca Tommaso, dai mocciosi che si gingillano con un orologio da tasca a Papa Benedetto XV, da placidi asinelli a Eleonora Duse (un lavoro bellissimo, davvero degno della diva dannunziana). Cipriano Cei nacque a Biella il 15 agosto 1864. Il cognome tradisce origini forestiere e il suo venire al mondo da queste parti fu un fatto casuale.
Il padre, Scipione, era un ufficiale del 51° Reggimento Fanteria di stanza in città. La madre, Luigia Vallino Baietta, di natali milanesi, aveva seguito il marito, nativo di Ottiglio nel Monferrato, in questa tappa della sua carriera. Cipriano Giovanni Luigi Domenico Cei fu battezzato il giorno dopo la nascita nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano dal viceparroco don Giacomo Tamaroglio di Tollegno. Il commendator Mario Coda ha infallibilmente reperito l’atto di battesimo dal quale si evince che Cipriano era il nome del padrino del neonato, Cipriano Giusto Tersoglio, a sua volta ufficiale del medesimo reparto del padre. Il 51° Reggimento Fanteria, ovvero la metà della Brigata delle Alpi, aveva stabilito in Biella il suo deposito fin dal passaggio di Garibaldi nel maggio del 1859, quando quelle truppe del Generale si chiamavano ancora “Cacciatori delle Alpi” (i due reggimenti dei “cacciatori” garibaldini, il 1° agli ordini del generale Cosenz e il 2° guidato dal generale Medici, furono integrati nel Regio Esercito nel maggio del 1860 assumendo gli ordinali 51° e 52°). Truppa e ufficiali occupavano inizialmente i due conventi di Sant’Antonio e di San Sebastiano poi, ristabilita la pace, i graduati ebbero modo di risiedere al di fuori della caserma, con le rispettive famiglie. A titolo informativo, circa la permanenza di quel contingente in Biella si possono consultare, anche on line, le “Fonti garibaldine” pubblicate sul sito dell’Archivio di Stato di Biella dal 2011. Non è chiaro quanto Cipriano Cei sia rimasto in città. Stante il mestiere del padre, è possibile che si sia presto trasferito in altre località. Di certo a Castalfranco Emilia dove, nel 1867, nacque il fratello Ugo (futuro generale di corpo d’armata e senatore durante il Fascismo, noto anche per essere l’ideatore e il realizzatore dei sacrari del Monte Grappa e di Redipuglia).
Il giovane Cipriano entrò nel 1877 al Reale Istituto di Belle Arti di Lucca come allievo di Luigi Norfini terminando i suoi studi nel 1883. A vent’anni, nel 1884, il Cei si faceva già notare a Venezia con i suoi ritratti. Le note biografiche disponibili sul web raccontano di un periodo trascorso all’estero e poi dell’apertura di un atelier a Firenze. In città espose in occasione della “Promotrice” del 1885 i quadri: “Pax Vobis”, “Testa muliebre”, “Mida”, “Il mio Allievo”, “Il riposo”, “Pene di Tantalo”, “Me ne impipo”. Nel 1886 partecipò con le opere “Viny” e “Tik-tik-tik”, ovvero un “grazioso soggetto rappresentante un ragazzo che ascolta il battere dell’orologio”. Quel quadro fu presentato nuovamente alla Biennale di Venezia del 1887, insieme alle opere “Alla fontana” e “Senza quattrini.” Cipriano Cei prese parte anche alle Triennali di Milano del 1894, 1897 e 1900. Il dipinto “Una dama toscana” (ora presso il Museo Nazionale di Palazzo Mansi a Lucca) fu presentato al “Salon” dell’Expo di Parigi del 1900 riscotendo un discreto successo. Il 5 ottobre 1890 a Firenze sposò Maria Bruni.
I dipinti di Cipriano Cei non hanno nulla a che fare con Biella o con il Biellese: non ci sono fabbriche né montagne in quelle scene così bucoliche e rassicuranti. Di sicuro la campagna toscana di quei tempi, per quanto esaltata a modello ideale di “bella vita” di una volta, ma lontana dal vero, trova maggior riscontro nei quadri del pittore “biellese.” Oltre che su Internet, le sue opere si trovano disseminate in tutta Italia in vari musei o presso collezioni private. Da segnalare un suo lavoro al castello di Sarre in Valle d’Aosta (il ritratto della Regina Elena) e il citato gruppo della famiglia reale sabauda conservato nel Palazzo di Cetinje, città natale della stessa Regina Elena del Montenegro. Cipriano Cei morì a Roma il 15 novembre 1922.
Danilo Craveia