Biella globalizzata già nel 1852: merci da tutto il mondo

Biella globalizzata già nel 1852: merci da tutto il mondo
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“Dal giorno in cui S. M. mi conferì l’onore di far parte del suo Gabinetto, affidandomi la direzione del Ministero del commercio, fu mia cura speciale di promuovere l’incremento e lo sviluppo degl’interessi commerciali ed industriali del paese: ma per quanto in me non mancasse la volontà e la perseveranza, pure dovetti in molte circostanze deplorare la insufficienza di dati positivi sulla natura e l’entità delle industrie dello Stato. Quelle fra le estere nazioni, che ricche sono di fiorenti industrie, posseggono esatte statistiche della produzione annuale, ed i loro Governi sono quindi in grado di poter calcolare con esattezza fino a qual punto gl’interessi industriali debbano essere protetti contro la concorrenza di prodotti similari stranieri, e facile loro riesce pertanto, mediante una ben intesa legislazione, di evitare quegli urti violenti che talvolta si verificano nel conflitto fra gl’interessi commerciali ed industriali d’uno stesso paese”. Queste sono le prime righe della circolare N° 191 del Ministero delle Finanze datata a Torino il 6 maggio 1852. L’oggetto della comunicazione inviata a tutti i sindaci del Regno era: “Produzione industriale”. La firma in calce è quella di Camillo Benso conte di Cavour che, cinque giorni dopo, caduto il Governo D’Azeglio, avrebbe lasciato quel ministero cui teneva tanto (e che fu poi di Quintino Sella nel 1862). Naturalmente una copia del documento arrivò anche a Biella (si trova, come il resto della documentazione qui di seguito citata, nell’Archivio Storico della Città di Biella, presso l’Archivio di Stato di Biella) e diede corso alla redazione di un prospetto, o tabella, in cui sono reperibili notizie di una certa rilevanza.

La necessità di Cavour di avere un quadro il più possibile preciso della realtà produttiva del Regno di Sardegna aveva lo scopo, per altro esplicitato nella circolare stessa, di porre in atto sia una efficace politica di tipo protezionistico verso l’estero sia una altrettanto efficace azione di “gestione” delle dinamiche economiche all’interno del regno. Tutto ciò appare attualissimo e varrebbe la pena di approfondire ancora una volta i corsi e i ricorsi della Storia europea e mondiale, ma non è questo l’aspetto che si vuole far emergere qui. Il padre della definizione “Manchester d’Italia”, data per designare orgogliosamente l’industriosa Biella, ottenne una risposta più o meno esaustiva da parte del sindaco avv. Felice Coppa il 24 marzo 1853. In quei dieci mesi furono raccolte informazioni che mai, prima di allora, erano state elaborate e rese disponibili per qualsivoglia autorità costituita. Di per sé il suddetto prospetto sembra poca cosa, ma al contrario contiene indicazioni e numeri molto significativi che si prestano a più di un percorso di analisi, a più di un’interpretazione.

Quella proposta oggi, in queste poche righe, riguarda l’afflusso di materie prime e di ausiliari verso Biella, cioè come e, soprattutto, dove si approvvigionavano gli opifici e gli artigiani biellesi in relazione alle rispettive attività. Ne esce un modello geo-economico ampio logisticamente, articolato e, a tutti gli effetti, globale. Va detto che le dettagliate “autocertificazioni” delle aziende interessate dall’indagine potevano non essere del tutto veritiere stante che i dichiaranti avrebbero potuto temere che quei dati avrebbero fornito al Governo anche una visuale “indiscreta” sotto il profilo fiscale sul giro d’affari delle stesse ditte, ma queste sono le fonti e su queste si può ragionare. Ecco allora qualche elemento. Il fabbricante di cioccolato Teodory, attivo al Bardone, importava il cacao, lo zucchero, la cannella e la vaniglia (circa 15 tonnellate all’anno) via Genova, ma i paesi di origine erano i Caraibi e il Sud America. Per i suoi distillati, invece, si procurava lo “spirito” in Francia. I produttori di candele (Azario, Marocchetti, Minazio) acquistavano la cera gialla nel “Levante”. I conciatori come Felice Scotto, Pietro Serralunga e Antonio Varale lavoravano esclusivamente pellami provenienti dal Canada o dagli Stati Uniti d’America, oppure dall’India. La galla per il tannino da concia era, al contrario, tutta piemontese, di Bra. Da segnalare anche i cappellifici come quello di Pietro Borello e F.lli, che produceva 20.000 cappelli all’anno. Utilizzavano pelo di cammello smerciato a Trieste, ma c’è da dubitare che quegli animali vivessero in Friuli. Il “lapino”, invece, cioè il pelo di coniglio arrivava direttamente da Parigi.

Ma, come era facile prevedere, è il comparto tessile ad aver avuto la più sviluppata rete di traffico nazionale e internazionale. I cotonifici di monsieur Louis Louvel e dei Poma importavano il cotone già filato dalla riva occidentale del Lago Maggiore. Ad Arona erano attivi i Fratelli Vanzina e a Intra Giovanni Francesco Muller e Figli, ma la materia prima era per lo più americana. E’ davvero notevole pensare che negli angusti saloni del Piazzo, ricavati nell’antico convento dei domenicani o nel palazzo dei principi dal Pozzo della Cisterna, si tessevano fili prodotti sul Verbano, ma nati da fiocchi candidi raccolti da mani di schiavi neri nelle piantagioni della Black Belt in Alabama. La Guerra di Secessione scoppiata otto anni dopo la compilazione della tabella provocò non pochi problemi anche ai cotonieri biellesi in un contesto politico e commerciale che aveva già tutti i crismi della moderna globalizzazione.

Un discorso a parte meritano le sostanze coloranti. Elementi fondamentali per la tintoria come il “legno giallo” e il campeggio erano introdotti dalla Spagna che ne gestiva il commercio verso l’Europa dalle Antille e dalla Giamaica. La “fabbrica di fioretti” di Giuseppe Gastaldi e Compagnia usava quel giallo per tingere la “moresca” (seta) di cui era fatta la passamaneria. Ma il colorante più esotico era certamente l’indaco indiano che si trovava solo sulle piazze del Bengala e di Calcutta. Pietro Poma ne consumava 480 chilogrammi l’anno a fronte di una spesa di 2.000 lire al quintale. L’indaco era utilizzato anche dai lanieri che, in assoluto, erano gli imprenditori biellesi più globalizzati all’epoca. Sommando i quantitativi di lana greggia importata dalle tre più importanti industrie laniere di Biella, ovvero Maurizio Sella, Fratelli Boussu e Vincenzo Garbaccio, si arriva a circa 60 tonnellate annue (la metà per la sola “fabbrica di pannilana” Sella). Un quarto del totale era acquistata a Roma, allora capitale dello Stato Pontificio, quindi paese straniero a tutti gli effetti. Si trattava di quella tosata nelle campagne pontine e/o nel Meridione borbonico. La quota più rilevante era però di origine più remota. I telai biellesi intrecciavano lane russe, spagnole, alemanne, berbere, argentine e yankee. Dalla Russia degli zar, dall’Africa magrebina e dalla Patagonia argentina le balle di lana raggiungevano Genova via mare. Non essendo ancora state costruite le ferrovie per Torino (1854), nè la Biella-Santhià (1856), il trasporto avveniva su carri. L’Australia non era stata ancora “scoperta” dai lanieri biellesi, ma le modalità di importazione sarebbero state, nel caso, le medesime. I tre lanifici di cui sopra abbisognavano anche del citato indaco bengalese per non meno di 1.200 chilogrammi l’anno con gli stessi costi che gravavano sui cotonieri. D’altro canto il viaggio era lungo. Il canale di Suez non era ancora aperto e le navi dovevano doppiare il Capo di Buona Speranza: settimane di navigazione con annessi e connessi. E i Lloyd’s a Londra facevano affari d’oro con le loro polizze sui bastimenti e sui loro carichi. Se non è globalizzazione questa! 

Nel prospetto voluto da Cavour non erano previste note circa le aree di mercato delle stesse ditte, ovvero non era stato richiesto di specificare verso quali zone, italiane o estere, fossero spediti i prodotti delle manifatture biellesi. Magari, dalle vecchie scartoffie di qualche archivio, verrà fuori qualcosa del genere e si potranno avere conferme e, forse, novità su come Biella fosse già allora a suo modo non isolata come sembra, bensì collegata al resto del mondo.

Danilo Craveia

“Dal giorno in cui S. M. mi conferì l’onore di far parte del suo Gabinetto, affidandomi la direzione del Ministero del commercio, fu mia cura speciale di promuovere l’incremento e lo sviluppo degl’interessi commerciali ed industriali del paese: ma per quanto in me non mancasse la volontà e la perseveranza, pure dovetti in molte circostanze deplorare la insufficienza di dati positivi sulla natura e l’entità delle industrie dello Stato. Quelle fra le estere nazioni, che ricche sono di fiorenti industrie, posseggono esatte statistiche della produzione annuale, ed i loro Governi sono quindi in grado di poter calcolare con esattezza fino a qual punto gl’interessi industriali debbano essere protetti contro la concorrenza di prodotti similari stranieri, e facile loro riesce pertanto, mediante una ben intesa legislazione, di evitare quegli urti violenti che talvolta si verificano nel conflitto fra gl’interessi commerciali ed industriali d’uno stesso paese”. Queste sono le prime righe della circolare N° 191 del Ministero delle Finanze datata a Torino il 6 maggio 1852. L’oggetto della comunicazione inviata a tutti i sindaci del Regno era: “Produzione industriale”. La firma in calce è quella di Camillo Benso conte di Cavour che, cinque giorni dopo, caduto il Governo D’Azeglio, avrebbe lasciato quel ministero cui teneva tanto (e che fu poi di Quintino Sella nel 1862). Naturalmente una copia del documento arrivò anche a Biella (si trova, come il resto della documentazione qui di seguito citata, nell’Archivio Storico della Città di Biella, presso l’Archivio di Stato di Biella) e diede corso alla redazione di un prospetto, o tabella, in cui sono reperibili notizie di una certa rilevanza.

La necessità di Cavour di avere un quadro il più possibile preciso della realtà produttiva del Regno di Sardegna aveva lo scopo, per altro esplicitato nella circolare stessa, di porre in atto sia una efficace politica di tipo protezionistico verso l’estero sia una altrettanto efficace azione di “gestione” delle dinamiche economiche all’interno del regno. Tutto ciò appare attualissimo e varrebbe la pena di approfondire ancora una volta i corsi e i ricorsi della Storia europea e mondiale, ma non è questo l’aspetto che si vuole far emergere qui. Il padre della definizione “Manchester d’Italia”, data per designare orgogliosamente l’industriosa Biella, ottenne una risposta più o meno esaustiva da parte del sindaco avv. Felice Coppa il 24 marzo 1853. In quei dieci mesi furono raccolte informazioni che mai, prima di allora, erano state elaborate e rese disponibili per qualsivoglia autorità costituita. Di per sé il suddetto prospetto sembra poca cosa, ma al contrario contiene indicazioni e numeri molto significativi che si prestano a più di un percorso di analisi, a più di un’interpretazione.

Quella proposta oggi, in queste poche righe, riguarda l’afflusso di materie prime e di ausiliari verso Biella, cioè come e, soprattutto, dove si approvvigionavano gli opifici e gli artigiani biellesi in relazione alle rispettive attività. Ne esce un modello geo-economico ampio logisticamente, articolato e, a tutti gli effetti, globale. Va detto che le dettagliate “autocertificazioni” delle aziende interessate dall’indagine potevano non essere del tutto veritiere stante che i dichiaranti avrebbero potuto temere che quei dati avrebbero fornito al Governo anche una visuale “indiscreta” sotto il profilo fiscale sul giro d’affari delle stesse ditte, ma queste sono le fonti e su queste si può ragionare. Ecco allora qualche elemento. Il fabbricante di cioccolato Teodory, attivo al Bardone, importava il cacao, lo zucchero, la cannella e la vaniglia (circa 15 tonnellate all’anno) via Genova, ma i paesi di origine erano i Caraibi e il Sud America. Per i suoi distillati, invece, si procurava lo “spirito” in Francia. I produttori di candele (Azario, Marocchetti, Minazio) acquistavano la cera gialla nel “Levante”. I conciatori come Felice Scotto, Pietro Serralunga e Antonio Varale lavoravano esclusivamente pellami provenienti dal Canada o dagli Stati Uniti d’America, oppure dall’India. La galla per il tannino da concia era, al contrario, tutta piemontese, di Bra. Da segnalare anche i cappellifici come quello di Pietro Borello e F.lli, che produceva 20.000 cappelli all’anno. Utilizzavano pelo di cammello smerciato a Trieste, ma c’è da dubitare che quegli animali vivessero in Friuli. Il “lapino”, invece, cioè il pelo di coniglio arrivava direttamente da Parigi.

Ma, come era facile prevedere, è il comparto tessile ad aver avuto la più sviluppata rete di traffico nazionale e internazionale. I cotonifici di monsieur Louis Louvel e dei Poma importavano il cotone già filato dalla riva occidentale del Lago Maggiore. Ad Arona erano attivi i Fratelli Vanzina e a Intra Giovanni Francesco Muller e Figli, ma la materia prima era per lo più americana. E’ davvero notevole pensare che negli angusti saloni del Piazzo, ricavati nell’antico convento dei domenicani o nel palazzo dei principi dal Pozzo della Cisterna, si tessevano fili prodotti sul Verbano, ma nati da fiocchi candidi raccolti da mani di schiavi neri nelle piantagioni della Black Belt in Alabama. La Guerra di Secessione scoppiata otto anni dopo la compilazione della tabella provocò non pochi problemi anche ai cotonieri biellesi in un contesto politico e commerciale che aveva già tutti i crismi della moderna globalizzazione.

Un discorso a parte meritano le sostanze coloranti. Elementi fondamentali per la tintoria come il “legno giallo” e il campeggio erano introdotti dalla Spagna che ne gestiva il commercio verso l’Europa dalle Antille e dalla Giamaica. La “fabbrica di fioretti” di Giuseppe Gastaldi e Compagnia usava quel giallo per tingere la “moresca” (seta) di cui era fatta la passamaneria. Ma il colorante più esotico era certamente l’indaco indiano che si trovava solo sulle piazze del Bengala e di Calcutta. Pietro Poma ne consumava 480 chilogrammi l’anno a fronte di una spesa di 2.000 lire al quintale. L’indaco era utilizzato anche dai lanieri che, in assoluto, erano gli imprenditori biellesi più globalizzati all’epoca. Sommando i quantitativi di lana greggia importata dalle tre più importanti industrie laniere di Biella, ovvero Maurizio Sella, Fratelli Boussu e Vincenzo Garbaccio, si arriva a circa 60 tonnellate annue (la metà per la sola “fabbrica di pannilana” Sella). Un quarto del totale era acquistata a Roma, allora capitale dello Stato Pontificio, quindi paese straniero a tutti gli effetti. Si trattava di quella tosata nelle campagne pontine e/o nel Meridione borbonico. La quota più rilevante era però di origine più remota. I telai biellesi intrecciavano lane russe, spagnole, alemanne, berbere, argentine e yankee. Dalla Russia degli zar, dall’Africa magrebina e dalla Patagonia argentina le balle di lana raggiungevano Genova via mare. Non essendo ancora state costruite le ferrovie per Torino (1854), nè la Biella-Santhià (1856), il trasporto avveniva su carri. L’Australia non era stata ancora “scoperta” dai lanieri biellesi, ma le modalità di importazione sarebbero state, nel caso, le medesime. I tre lanifici di cui sopra abbisognavano anche del citato indaco bengalese per non meno di 1.200 chilogrammi l’anno con gli stessi costi che gravavano sui cotonieri. D’altro canto il viaggio era lungo. Il canale di Suez non era ancora aperto e le navi dovevano doppiare il Capo di Buona Speranza: settimane di navigazione con annessi e connessi. E i Lloyd’s a Londra facevano affari d’oro con le loro polizze sui bastimenti e sui loro carichi. Se non è globalizzazione questa! 

Nel prospetto voluto da Cavour non erano previste note circa le aree di mercato delle stesse ditte, ovvero non era stato richiesto di specificare verso quali zone, italiane o estere, fossero spediti i prodotti delle manifatture biellesi. Magari, dalle vecchie scartoffie di qualche archivio, verrà fuori qualcosa del genere e si potranno avere conferme e, forse, novità su come Biella fosse già allora a suo modo non isolata come sembra, bensì collegata al resto del mondo.

Danilo Craveia

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