Alla riscoperta della Colonia Alpina Zegna
Dalla “Relazione morale e finanziaria della Gestione 1953” della Commissione di Assistenza Sociale dell’Unione Industriale Biellese si apprende che le colonie estive a disposizione dei bambini biellesi si erano arricchite di un’ulteriore opportunità. Nella prima pagina di quel dattiloscritto si legge che “dei 1844 coloni del 1953 ne vennero mandati solamente 1624 al mare. Gli altri 220 vennero inviati al monte, alla nuova Colonia Alpina “Ermenegildo Zegna”, alla Bocchetta del Margosio, tra il monte Mazzaro (o Prapian, o Fra Dolcino) e la cima della Ragna”. I resoconti annuali elaborati dall’Uib sono fondamentali per ricostruire la realtà di un tipo di welfare che, malgrado i tempi siano cambiati, non cessa di rivestire interesse per le sue prerogative e che, proprio perchè di fatto scomparso, genera un vuoto considerevole, sebbene non molti ne abbiamo contezza. Alla colonia “Giovanni Rivetti” di Finalborgo (nel Comune di Finale Ligure, Provincia di Savona) e ai due istituti salesiani di Vallecrosia (il “Don Bosco” maschile e il “Sant’Anna” femminile, in Provincia di Savona) si aggiungeva quindi la struttura del Margosio che ebbe un successo notevole fin dal primo anno di esercizio coprendo più del 10% delle utenze totali. Un dato che rimase costante negli anni seguenti in accordo con l’andamento complessivo delle iscrizioni che, in media, si assestavano sulle 2.000 unità. Al Margosio salivano più di 200 bimbi ogni estate, figli di dipendenti di aziende associate all’Uib (non solo dei lavoratori del Lanificio Zegna di Trivero) che godevano di quasi un mese di aria buona (poi il periodo di permanenza fu ridotto a tre settimane per distribuire l’affluenza su tre turni anziché due).
L’inizio ufficiale dell’attività della colonia alpina data al 13 luglio 1953, un lunedì, con un contingente tutto maschile che si sarebbe fermato lassù fino al 5 agosto. Quel primo turno era cominciato “tardivamente a causa del maltempo che influì sull’andamento dei lavori di rifinitura della Colonia”, ma quel giorno, dopo le visite mediche svoltesi nella sede dell’Unione Industriale Biellese in via Torino, i torpedoni con 92 piccoli biellesi si mossero verso le montagne triveresi. La direzione della colonia fu affidata a don Attilio Basla coadiuvato da Alfio Biella di Pralungo, definito come il “factotum” della comitiva, dalla segretaria Sandra Vezzulli, da altre tre assistenti, da quattro suore del Cottolengo e da una decina di addetti alla cucina, ai servizi ecc. Lo stabile edificato lungo la strada “Panoramica” si presentava come “una tra le più belle Colonie montane d’Italia” (anche perché era stato progettato da un architetto di tutto rispetto, Otto Maraini, cui il Conte Zegna aveva già affidato alcuni interventi sulla fabbrica e sulla sua stessa magione) e le aspettative erano ovviamente alte. L’entusiasmo non mancava e lo spirito era quello dello “zaino in spalla e voce al vento”. Tutti gli aspetti organizzativi erano stati affrontati anche sulla base delle esperienze delle colonie marine e nulla era stato lasciato al caso, al punto che “una delle vigilatrici ha raccolto con molta cura in un bel libretto illustrato argutamente dalla fantasia di Apollonio” una serie di “nostalgici canti della montagna”. Nell’archivio dell’Uib si è conservata una copia di quell’opuscolo: un vero e proprio cimelio! Non è la prima volta che da queste colonne si rievocano le vicende delle colonie estive biellesi. Nel luglio del 2012 si era già rilanciato il tema di quel sistema socio-assistenziale e di quella procedura sanitario-terapeutica che, nel Biellese, ha un passato importante. Fin dal 1872, infatti, mons. Losana intese istituire la colonia di Sestri Levante per curare con l’aria e l’acqua di mare i bambini malati di scrofola. Alla fine dell’Ottocento le montagne della Valle del Cervo e i colli di Callabiana e Camandona ospitarono i primi manipoli di fanciulli d’ambo i sessi provenienti da Torino per ossigenarsi i polmoni. Poi ci furono Emilio Gallo a Pollone dal 1923 e le iniziative di stampo fascista nel Ventennio. Nel secondo Dopoguerra, con un tessuto sociale messo a dura prova dal conflitto appena concluso e dalle tensioni latenti per questioni irrisolte, l’Uib divenne il collettore e il gestore ideale per un servizio di cui la popolazione biellese sentiva a buon diritto la necessità. Era una risposta di comparto e non il gesto di singoli, era un’a- zione coordinata e territoriale, molto più accettabile di una non più credibile “sovraesposizione” di un individuo solo o di un’azienda soltanto.
La filantropia imprenditoriale si era in effetti evoluta rispetto alle forme ottocentesche e nuove dinamiche si andavano imponendo nel “patto sociale”, nei rapporti di comunità tra capitale e lavoro. Una differente conformazione del vivere civile generava bisogni inediti anche nella più concreta quotidianità. Si assisteva allora all’affermazione di istanze apparentemente minimali, ma che hanno caratterizzato (e, mutatis mutandis, caratterizzano ancora oggigiorno) lo svolgersi della vita di tutti: la buona pratica di prevenire le malattie infantili con l’elioterapia e con salutari soggiorni in quota, assicurare una vigilanza ai minori altrimenti lasciati soli da genitori ormai entrambi impegnati nelle fabbriche nei mesi estivi, garantire lo sviluppo di una socialità controllata in un contesto dignitoso e formativo, non del tutto laico, ma sufficientemente indipendente e libero. C’è un’attualità da riscoprire in quel percorso avviato nel 1953, una riflessione da fare sulla esigenza di stimolare modalità più dirette e comunitarie nei rapporti interpersonali in questa epoca che tende alle assenze fisiche e a “presenze” sempre più virtuali. Stare insieme agli altri sarà forse un’attitudine spontanea, ma sarebbe meglio non perdere l’abitudine alle regole e al rispetto dei nostri simili. E regole e rispetto si imparano fin da piccoli.
La scelta di costruire quella grande “baita” bianca al Margosio ha a che fare con il destino triste di un bambino che non ebbe modo di crescere. Ermenegildo Zegna era intenzionato a realizzare, fin dal 1947, «un edificio destinato ad ospitare una colonia elioterapica per bambini». Lo stabile, a pianta quadrata, doveva ospitare camere, servizi e vani comuni, un ampio cortile interno, un solarium, una palestra e un insieme di accorgimenti in grado di ospitare un congruo numero di “coloni”. Purtroppo durante la costruzione di quel fabbricato morì il primo dei suoi nipoti, il piccolo Gianni. Era il 1951 e le priorità per Ermenegildo Zegna cambiarono. Per ricordare il primogenito del figlio Aldo decise di variare in corso d’opera la destinazione d’uso dell’edificio trasformandolo nel brefotrofio che al Biellese mancava. Così, invece di sorgere a Caulera, due anni dopo il caseggiato fu inaugurato poco sotto la bocchetta del Margosio dove la Rai stava già innalzando le antenne che entrarono in funzione nel gennaio del 1954. Dal ‘53 ai primi anni Settanta non meno di cinquemila bambini fruirono di quella occasione speciale per evadere dalla città o dai paesi in cui risiedevano, per assaporare una vacanza vera. Il benessere del boom economico entrava in circolo nell’organismo giovane dell’Italia moderna. Quella gioventù, quella generazione è madre e/o nonna di quelle protagoniste oggi e domani. Proprio per questo la memoria di quelle estati non deve andare perduta: è un testimone prezioso di una storia recente, ma che si allontana rapida e silenziosa. Queste righe sono anche un appello al recupero delle tracce di quelle giornate spensierate. I ricordi, le fotografie, gli oggetti dei piccoli “coloni” di allora diventeranno l’anima di una mostra che Casa Zegna sta preparando per l’autunno. Tornino a Trivero i bambini e le bambine di un tempo: potranno regalare immagini e voci di un momento unico della loro infanzia e della storia del Biellese.
Danilo Craveia
Dalla “Relazione morale e finanziaria della Gestione 1953” della Commissione di Assistenza Sociale dell’Unione Industriale Biellese si apprende che le colonie estive a disposizione dei bambini biellesi si erano arricchite di un’ulteriore opportunità. Nella prima pagina di quel dattiloscritto si legge che “dei 1844 coloni del 1953 ne vennero mandati solamente 1624 al mare. Gli altri 220 vennero inviati al monte, alla nuova Colonia Alpina “Ermenegildo Zegna”, alla Bocchetta del Margosio, tra il monte Mazzaro (o Prapian, o Fra Dolcino) e la cima della Ragna”. I resoconti annuali elaborati dall’Uib sono fondamentali per ricostruire la realtà di un tipo di welfare che, malgrado i tempi siano cambiati, non cessa di rivestire interesse per le sue prerogative e che, proprio perchè di fatto scomparso, genera un vuoto considerevole, sebbene non molti ne abbiamo contezza. Alla colonia “Giovanni Rivetti” di Finalborgo (nel Comune di Finale Ligure, Provincia di Savona) e ai due istituti salesiani di Vallecrosia (il “Don Bosco” maschile e il “Sant’Anna” femminile, in Provincia di Savona) si aggiungeva quindi la struttura del Margosio che ebbe un successo notevole fin dal primo anno di esercizio coprendo più del 10% delle utenze totali. Un dato che rimase costante negli anni seguenti in accordo con l’andamento complessivo delle iscrizioni che, in media, si assestavano sulle 2.000 unità. Al Margosio salivano più di 200 bimbi ogni estate, figli di dipendenti di aziende associate all’Uib (non solo dei lavoratori del Lanificio Zegna di Trivero) che godevano di quasi un mese di aria buona (poi il periodo di permanenza fu ridotto a tre settimane per distribuire l’affluenza su tre turni anziché due).
L’inizio ufficiale dell’attività della colonia alpina data al 13 luglio 1953, un lunedì, con un contingente tutto maschile che si sarebbe fermato lassù fino al 5 agosto. Quel primo turno era cominciato “tardivamente a causa del maltempo che influì sull’andamento dei lavori di rifinitura della Colonia”, ma quel giorno, dopo le visite mediche svoltesi nella sede dell’Unione Industriale Biellese in via Torino, i torpedoni con 92 piccoli biellesi si mossero verso le montagne triveresi. La direzione della colonia fu affidata a don Attilio Basla coadiuvato da Alfio Biella di Pralungo, definito come il “factotum” della comitiva, dalla segretaria Sandra Vezzulli, da altre tre assistenti, da quattro suore del Cottolengo e da una decina di addetti alla cucina, ai servizi ecc. Lo stabile edificato lungo la strada “Panoramica” si presentava come “una tra le più belle Colonie montane d’Italia” (anche perché era stato progettato da un architetto di tutto rispetto, Otto Maraini, cui il Conte Zegna aveva già affidato alcuni interventi sulla fabbrica e sulla sua stessa magione) e le aspettative erano ovviamente alte. L’entusiasmo non mancava e lo spirito era quello dello “zaino in spalla e voce al vento”. Tutti gli aspetti organizzativi erano stati affrontati anche sulla base delle esperienze delle colonie marine e nulla era stato lasciato al caso, al punto che “una delle vigilatrici ha raccolto con molta cura in un bel libretto illustrato argutamente dalla fantasia di Apollonio” una serie di “nostalgici canti della montagna”. Nell’archivio dell’Uib si è conservata una copia di quell’opuscolo: un vero e proprio cimelio! Non è la prima volta che da queste colonne si rievocano le vicende delle colonie estive biellesi. Nel luglio del 2012 si era già rilanciato il tema di quel sistema socio-assistenziale e di quella procedura sanitario-terapeutica che, nel Biellese, ha un passato importante. Fin dal 1872, infatti, mons. Losana intese istituire la colonia di Sestri Levante per curare con l’aria e l’acqua di mare i bambini malati di scrofola. Alla fine dell’Ottocento le montagne della Valle del Cervo e i colli di Callabiana e Camandona ospitarono i primi manipoli di fanciulli d’ambo i sessi provenienti da Torino per ossigenarsi i polmoni. Poi ci furono Emilio Gallo a Pollone dal 1923 e le iniziative di stampo fascista nel Ventennio. Nel secondo Dopoguerra, con un tessuto sociale messo a dura prova dal conflitto appena concluso e dalle tensioni latenti per questioni irrisolte, l’Uib divenne il collettore e il gestore ideale per un servizio di cui la popolazione biellese sentiva a buon diritto la necessità. Era una risposta di comparto e non il gesto di singoli, era un’a- zione coordinata e territoriale, molto più accettabile di una non più credibile “sovraesposizione” di un individuo solo o di un’azienda soltanto.
La filantropia imprenditoriale si era in effetti evoluta rispetto alle forme ottocentesche e nuove dinamiche si andavano imponendo nel “patto sociale”, nei rapporti di comunità tra capitale e lavoro. Una differente conformazione del vivere civile generava bisogni inediti anche nella più concreta quotidianità. Si assisteva allora all’affermazione di istanze apparentemente minimali, ma che hanno caratterizzato (e, mutatis mutandis, caratterizzano ancora oggigiorno) lo svolgersi della vita di tutti: la buona pratica di prevenire le malattie infantili con l’elioterapia e con salutari soggiorni in quota, assicurare una vigilanza ai minori altrimenti lasciati soli da genitori ormai entrambi impegnati nelle fabbriche nei mesi estivi, garantire lo sviluppo di una socialità controllata in un contesto dignitoso e formativo, non del tutto laico, ma sufficientemente indipendente e libero. C’è un’attualità da riscoprire in quel percorso avviato nel 1953, una riflessione da fare sulla esigenza di stimolare modalità più dirette e comunitarie nei rapporti interpersonali in questa epoca che tende alle assenze fisiche e a “presenze” sempre più virtuali. Stare insieme agli altri sarà forse un’attitudine spontanea, ma sarebbe meglio non perdere l’abitudine alle regole e al rispetto dei nostri simili. E regole e rispetto si imparano fin da piccoli.
La scelta di costruire quella grande “baita” bianca al Margosio ha a che fare con il destino triste di un bambino che non ebbe modo di crescere. Ermenegildo Zegna era intenzionato a realizzare, fin dal 1947, «un edificio destinato ad ospitare una colonia elioterapica per bambini». Lo stabile, a pianta quadrata, doveva ospitare camere, servizi e vani comuni, un ampio cortile interno, un solarium, una palestra e un insieme di accorgimenti in grado di ospitare un congruo numero di “coloni”. Purtroppo durante la costruzione di quel fabbricato morì il primo dei suoi nipoti, il piccolo Gianni. Era il 1951 e le priorità per Ermenegildo Zegna cambiarono. Per ricordare il primogenito del figlio Aldo decise di variare in corso d’opera la destinazione d’uso dell’edificio trasformandolo nel brefotrofio che al Biellese mancava. Così, invece di sorgere a Caulera, due anni dopo il caseggiato fu inaugurato poco sotto la bocchetta del Margosio dove la Rai stava già innalzando le antenne che entrarono in funzione nel gennaio del 1954. Dal ‘53 ai primi anni Settanta non meno di cinquemila bambini fruirono di quella occasione speciale per evadere dalla città o dai paesi in cui risiedevano, per assaporare una vacanza vera. Il benessere del boom economico entrava in circolo nell’organismo giovane dell’Italia moderna. Quella gioventù, quella generazione è madre e/o nonna di quelle protagoniste oggi e domani. Proprio per questo la memoria di quelle estati non deve andare perduta: è un testimone prezioso di una storia recente, ma che si allontana rapida e silenziosa. Queste righe sono anche un appello al recupero delle tracce di quelle giornate spensierate. I ricordi, le fotografie, gli oggetti dei piccoli “coloni” di allora diventeranno l’anima di una mostra che Casa Zegna sta preparando per l’autunno. Tornino a Trivero i bambini e le bambine di un tempo: potranno regalare immagini e voci di un momento unico della loro infanzia e della storia del Biellese.
Danilo Craveia