A.A.A. levatrice cercasi per i parti della città di Biella

A.A.A. levatrice cercasi per i parti della città di Biella
Pubblicato:
Aggiornato:

Al titolo IX°, capitolo I°, articolo 23 delle Costituzioni di Sua Maestà per l’Università di Torino, emanate nel 1772 Carlo Emanuele III regnante, si legge: “Volendo Noi proccurare i mezzi, perché l’arte di Levatrice sia più facilmente appresa, e più vantaggiosamente esercitata, ordiniamo a tutte le Città de’ Nostri Stati di qua da’ Monti, e Colli di nominare una donna atta ad essere ammaestrata in quest’arte nello Spedale di S. Giovanni. Sarà ivi questa donna mantenuta per mesi sei, o per quel maggior tempo, che la Maestra Levatrice giudicherà necessario, purché non ecceda l’anno: e si supplirà dalle Città alle spese prescritte dal regolamento dell’Opera delle partorienti eretta nel suddetto Spedale”. Tali provvide sovrane disposizioni riflettevano quella rincorsa alla modernità che il Regno di Sardegna andava compiendo, in quel secolo dei Lumi, al chiarore della Ragione. Articolo 24: “Dovrà questa Donna saper leggere, e scrivere, ed essere di onesti costumi, di natura docile, di sufficiente discernimento, di buona salute, d’età non minore di anni venti, e non maggiore di trentacinque, e finalmente vedova, oppure maritata, purchè in questo caso vi consenta il marito”. Quando il monarca ha a cuore la felicità dei suoi sudditi al punto di fornire anche il profilo della ostetrica tipo, non resta che l’imbarazzo della scelta tra le molte candidate ideali in possesso dei requisiti minimi richiesti. Ovviamente la realtà era un po’ meno felice. A sessant’anni dall’entrata in vigore delle citate Costituzioni come a dire ai tempi di Carlo Alberto, il reperimento di una levatrice ufficiale non era così semplice. Almeno a Biella. Venire al mondo, da queste parti, poteva essere più difficile che altrove. Prima, però, di entrare nel merito di una storia curiosa, diamo ancora un’occhiata al quadro normativo. In primis la legge imponeva alle comunità di dotarsi di una levatrice a proprie spese e, a dover seguire tutte le prescrizioni, l’onere poteva essere pesante. E’ pur vero che l’articolo 25 stabiliva di considerare come dispensate “da quest’obbligo quelle Città, che faranno constare al Magistrato della Riforma di essere sufficientemente provvedute di donne perite, ed esercitate in quest’arte”.

Ma le possibilità di evitare l’aggravio si riducevano drasticamente perché la valutazione delle effettive capacità delle ostetriche spettava alla superiore autorità in materia e non ai comuni di residenza o di esercizio. Tali professioniste, infatti, “dovranno essere approvate per mezzo dell’esame, che per esse verrà stabilito, sotto pena di scudi due” (articolo 26). Il che significa che non si poteva improvvisare, nemmeno in buona fede, e che l’abuso della professione sarebbe stato punito con una multa assai salata. E se a qualcuno fosse venuto in mente di far assistere le partorienti ai “cerusici” sarebbe incorso in un ulteriore divieto: nemmeno ai chirurghi (i medici non erano chiamati in causa perché il parto in sè e per sè non era medicina) era permessa “l’arte ostetricia senza l’espressa Nostra licenza” (articolo 27).

Con questa consapevolezza legislativa siamo in grado di cogliere le difficoltà incontrate dai pubblici amministratori di Biella a partire dal giugno del 1833. Le delibere del Consiglio comunale cittadino, gli “atti consulari in doppia congrega” come si chiamavano allora, (si trovano presso l’Archivio di Stato di Biella) tramandano una vicenda particolare che ebbe inizio con il decesso di tale Angela Tasca, l’ostetrica attiva in città. Con la sua morte “non havvi più persona veruna capace, ed autorizzata ad esercire un officio di tanta importanza.”

Il sindaco, cav. Luigi De Genova di Pettinengo, annunciava che, nella seduta del 30 maggio, era già stata stanziata una somma pari a 300 lire sul bilancio del 1834 “per mantenere un’alunna nello Spedale della Maternità di Torino”. Si trattava quindi di trovare la concittadina giusta. Nei venti giorni trascorsi dalla notizia della dipartita della signora Tasca, lo stesso sindaco

non era rimasto con le mani in mano e aveva individuato una biellese adatta. Giuseppa Livré (o Levray), vedova di Gabriele Pessina, era dotata “di tutte le qualità fisiche e morali, che si richieggiono nelle persone, che si dedicano all’ostetricia”. Che la donna potesse opporsi alla scolarizzazione specialistica e al conseguente incarico non era contemplato. Anzi, una volta conseguita l’abilitazione, la novella levatrice avrebbe pure dovuto “fare la sua residenza in un sito centrale e comodo a tutta la popolazione dei diversi quartieri”(in effetti la prescelta non dimorava nemmeno in città).

Biella, all’epoca, contava soltanto circa 7.500 abitanti e non era estesa quanto oggi, ma il lavoro alla Livrè non sarebbe mancato di certo. Il corso a Torino sarebbe durato almeno un anno e non c’era tempo da perdere.

Il 29 luglio Giuseppa Levray sottoscrisse l’impegno a studiare e, poi, a praticare. Superò onorevolmente l’esame finale e si mise all’opera. Nell’estate del 1834, tuttavia, il problema non era ancora stato risolto. Nell’atto consulare del 9 agosto lo stesso De Genova di Pettinengo fece verbalizzare che “tante però, e così moltiplicate sono le pratiche, e li raggiri, ed intrighi

colle quali alcune donne esercenti abusivamente l’ostetricia si adoperano per iscreditarla, ed impedire il suo avviamento, e per mantenersi in possesso di esercir un’arte nella quale sono esse pochissimo istrutte, che riuscì loro di render la detta vedova pressoché inoperosa, e priva di sussistenza”.

Le rare volte in cui la levatrice comunale ebbe modo di applicare le sue competenze si dimostrò più che all’altezza. Eppure la sua preparazione non servì a guadagnarle la fiducia o la preferenza di quelle partorienti che, per convinzione o, più ancora, per convenienza, continuavano a rivolgersi a mammane se non di dubbia fama, senz’altro empiriche, ma più alla buona e meno costose.

La Livré si lamentava, in poche parole, di una concorrenza sleale che, però, i pubblici amministratori non erano in grado di eliminare né di regolare efficacemente. Le levatrici formatesi sul campo, pur nell’abuso di una pratica senza gli opportuni titoli, di fatto offrivano una qualche garanzia di assistenza che una sola professionista non poteva assicurare. E se era vero che entro il 1836 quelle ostetriche di fortuna avrebbero dovuto abilitarsi o smettere per non incorrere in severe sanzioni, si era ancora nel 1834 e più di tanto per aiutare la Levray non si poteva fare. Come è lecito attendersi, pur constatando che si rischiava di aver speso parecchi soldi della collettività per niente o quasi, non accadde nulla.

Eppure il presidio ostetrico fu mantenuto. In qualche modo la levatrice convenzionata tenne duro (anche perché il Comune di Biella decise di riconoscerle un indennizzo annuo minimo di 48 lire) e alla fine la clientela crebbe tanto da consentirle una vita dignitosa. Giuseppa Livré (o Levray) morì il 18 giugno 1843, dopo nove anni di onorato servizio. L’introduzione di uno stipendio annuale aveva rappresentato una svolta tant’è che, pochi giorni dopo l’uscita di scena di Giuseppa, si stava già delineando la successione. Si era proposta tale Maddalena Gallo di Salussola. Vedova e di buoni costumi, si era diplomata il 13 luglio 1836. Il 12 luglio 1843 il vicesindaco Francesco Bora si compiaceva con i suoi consiglieri di aver già ripristinato quella sorta di “ambulatorio.” Ma le levatrici in quel di Biella erano destinate a creare continui grattacapi. La Gallo, infatti, malgrado fosse assunta a tutti gli effetti, non poté entrare nel ruolo e dovette dimettersi ancor prima di iniziare.

Il posto di ostetrica era di nuovo vacante. Di sicuro, in città e nel circondario, come sempre c’era chi si arrangiava per prendersi cura delle donne durante il parto, dei nascituri e degli appena nati. Ma soffrivano e morivano tante donne e tanti bambini. Ecco perché, pur senza le conoscenze mediche moderne, la norma voleva che si affidasse quel compito delicato a qualcuno con una base metodica e scientifica. Il 4 settembre 1843 il sindaco di Biella, senatore cav. Maurizio Gromo Losa di Ternengo accolse positivamente il buon curriculum vitae di Maria Frichignono di Borgosesia e le affidò tutte le gestanti del “Distretto di questa Città, suoi sobborghi e territorio a vantaggio anche dei poveri”.

Danilo Craveia

Al titolo IX°, capitolo I°, articolo 23 delle Costituzioni di Sua Maestà per l’Università di Torino, emanate nel 1772 Carlo Emanuele III regnante, si legge: “Volendo Noi proccurare i mezzi, perché l’arte di Levatrice sia più facilmente appresa, e più vantaggiosamente esercitata, ordiniamo a tutte le Città de’ Nostri Stati di qua da’ Monti, e Colli di nominare una donna atta ad essere ammaestrata in quest’arte nello Spedale di S. Giovanni. Sarà ivi questa donna mantenuta per mesi sei, o per quel maggior tempo, che la Maestra Levatrice giudicherà necessario, purché non ecceda l’anno: e si supplirà dalle Città alle spese prescritte dal regolamento dell’Opera delle partorienti eretta nel suddetto Spedale”. Tali provvide sovrane disposizioni riflettevano quella rincorsa alla modernità che il Regno di Sardegna andava compiendo, in quel secolo dei Lumi, al chiarore della Ragione. Articolo 24: “Dovrà questa Donna saper leggere, e scrivere, ed essere di onesti costumi, di natura docile, di sufficiente discernimento, di buona salute, d’età non minore di anni venti, e non maggiore di trentacinque, e finalmente vedova, oppure maritata, purchè in questo caso vi consenta il marito”. Quando il monarca ha a cuore la felicità dei suoi sudditi al punto di fornire anche il profilo della ostetrica tipo, non resta che l’imbarazzo della scelta tra le molte candidate ideali in possesso dei requisiti minimi richiesti. Ovviamente la realtà era un po’ meno felice. A sessant’anni dall’entrata in vigore delle citate Costituzioni come a dire ai tempi di Carlo Alberto, il reperimento di una levatrice ufficiale non era così semplice. Almeno a Biella. Venire al mondo, da queste parti, poteva essere più difficile che altrove. Prima, però, di entrare nel merito di una storia curiosa, diamo ancora un’occhiata al quadro normativo. In primis la legge imponeva alle comunità di dotarsi di una levatrice a proprie spese e, a dover seguire tutte le prescrizioni, l’onere poteva essere pesante. E’ pur vero che l’articolo 25 stabiliva di considerare come dispensate “da quest’obbligo quelle Città, che faranno constare al Magistrato della Riforma di essere sufficientemente provvedute di donne perite, ed esercitate in quest’arte”.

Ma le possibilità di evitare l’aggravio si riducevano drasticamente perché la valutazione delle effettive capacità delle ostetriche spettava alla superiore autorità in materia e non ai comuni di residenza o di esercizio. Tali professioniste, infatti, “dovranno essere approvate per mezzo dell’esame, che per esse verrà stabilito, sotto pena di scudi due” (articolo 26). Il che significa che non si poteva improvvisare, nemmeno in buona fede, e che l’abuso della professione sarebbe stato punito con una multa assai salata. E se a qualcuno fosse venuto in mente di far assistere le partorienti ai “cerusici” sarebbe incorso in un ulteriore divieto: nemmeno ai chirurghi (i medici non erano chiamati in causa perché il parto in sè e per sè non era medicina) era permessa “l’arte ostetricia senza l’espressa Nostra licenza” (articolo 27).

Con questa consapevolezza legislativa siamo in grado di cogliere le difficoltà incontrate dai pubblici amministratori di Biella a partire dal giugno del 1833. Le delibere del Consiglio comunale cittadino, gli “atti consulari in doppia congrega” come si chiamavano allora, (si trovano presso l’Archivio di Stato di Biella) tramandano una vicenda particolare che ebbe inizio con il decesso di tale Angela Tasca, l’ostetrica attiva in città. Con la sua morte “non havvi più persona veruna capace, ed autorizzata ad esercire un officio di tanta importanza.”

Il sindaco, cav. Luigi De Genova di Pettinengo, annunciava che, nella seduta del 30 maggio, era già stata stanziata una somma pari a 300 lire sul bilancio del 1834 “per mantenere un’alunna nello Spedale della Maternità di Torino”. Si trattava quindi di trovare la concittadina giusta. Nei venti giorni trascorsi dalla notizia della dipartita della signora Tasca, lo stesso sindaco

non era rimasto con le mani in mano e aveva individuato una biellese adatta. Giuseppa Livré (o Levray), vedova di Gabriele Pessina, era dotata “di tutte le qualità fisiche e morali, che si richieggiono nelle persone, che si dedicano all’ostetricia”. Che la donna potesse opporsi alla scolarizzazione specialistica e al conseguente incarico non era contemplato. Anzi, una volta conseguita l’abilitazione, la novella levatrice avrebbe pure dovuto “fare la sua residenza in un sito centrale e comodo a tutta la popolazione dei diversi quartieri”(in effetti la prescelta non dimorava nemmeno in città).

Biella, all’epoca, contava soltanto circa 7.500 abitanti e non era estesa quanto oggi, ma il lavoro alla Livrè non sarebbe mancato di certo. Il corso a Torino sarebbe durato almeno un anno e non c’era tempo da perdere.

Il 29 luglio Giuseppa Levray sottoscrisse l’impegno a studiare e, poi, a praticare. Superò onorevolmente l’esame finale e si mise all’opera. Nell’estate del 1834, tuttavia, il problema non era ancora stato risolto. Nell’atto consulare del 9 agosto lo stesso De Genova di Pettinengo fece verbalizzare che “tante però, e così moltiplicate sono le pratiche, e li raggiri, ed intrighi

colle quali alcune donne esercenti abusivamente l’ostetricia si adoperano per iscreditarla, ed impedire il suo avviamento, e per mantenersi in possesso di esercir un’arte nella quale sono esse pochissimo istrutte, che riuscì loro di render la detta vedova pressoché inoperosa, e priva di sussistenza”.

Le rare volte in cui la levatrice comunale ebbe modo di applicare le sue competenze si dimostrò più che all’altezza. Eppure la sua preparazione non servì a guadagnarle la fiducia o la preferenza di quelle partorienti che, per convinzione o, più ancora, per convenienza, continuavano a rivolgersi a mammane se non di dubbia fama, senz’altro empiriche, ma più alla buona e meno costose.

La Livré si lamentava, in poche parole, di una concorrenza sleale che, però, i pubblici amministratori non erano in grado di eliminare né di regolare efficacemente. Le levatrici formatesi sul campo, pur nell’abuso di una pratica senza gli opportuni titoli, di fatto offrivano una qualche garanzia di assistenza che una sola professionista non poteva assicurare. E se era vero che entro il 1836 quelle ostetriche di fortuna avrebbero dovuto abilitarsi o smettere per non incorrere in severe sanzioni, si era ancora nel 1834 e più di tanto per aiutare la Levray non si poteva fare. Come è lecito attendersi, pur constatando che si rischiava di aver speso parecchi soldi della collettività per niente o quasi, non accadde nulla.

Eppure il presidio ostetrico fu mantenuto. In qualche modo la levatrice convenzionata tenne duro (anche perché il Comune di Biella decise di riconoscerle un indennizzo annuo minimo di 48 lire) e alla fine la clientela crebbe tanto da consentirle una vita dignitosa. Giuseppa Livré (o Levray) morì il 18 giugno 1843, dopo nove anni di onorato servizio. L’introduzione di uno stipendio annuale aveva rappresentato una svolta tant’è che, pochi giorni dopo l’uscita di scena di Giuseppa, si stava già delineando la successione. Si era proposta tale Maddalena Gallo di Salussola. Vedova e di buoni costumi, si era diplomata il 13 luglio 1836. Il 12 luglio 1843 il vicesindaco Francesco Bora si compiaceva con i suoi consiglieri di aver già ripristinato quella sorta di “ambulatorio.” Ma le levatrici in quel di Biella erano destinate a creare continui grattacapi. La Gallo, infatti, malgrado fosse assunta a tutti gli effetti, non poté entrare nel ruolo e dovette dimettersi ancor prima di iniziare.

Il posto di ostetrica era di nuovo vacante. Di sicuro, in città e nel circondario, come sempre c’era chi si arrangiava per prendersi cura delle donne durante il parto, dei nascituri e degli appena nati. Ma soffrivano e morivano tante donne e tanti bambini. Ecco perché, pur senza le conoscenze mediche moderne, la norma voleva che si affidasse quel compito delicato a qualcuno con una base metodica e scientifica. Il 4 settembre 1843 il sindaco di Biella, senatore cav. Maurizio Gromo Losa di Ternengo accolse positivamente il buon curriculum vitae di Maria Frichignono di Borgosesia e le affidò tutte le gestanti del “Distretto di questa Città, suoi sobborghi e territorio a vantaggio anche dei poveri”.

Danilo Craveia

Seguici sui nostri canali