"Posti di lavoro: non basta il Jobs Act"

Calendarizzato per oggi, il ravvio dell’esame del cosiddetto Jobs Act in Senato, viene comunque giù guardato dal mondo produttivo e dalle parti sociali senza farsi troppe illusioni. Il Jobs Act che, nel frattempo, Renzi ha trasformato in un Arbeit Akt (vista la scelta del cosiddetto “modello tedesco”) dovrebbe, dopo una sequela di annunci che si inseguono dal maggio scorso, diventare finalmente qualcosa di concreto entro fine anno.
Ambiguità. A prescindere però dai suoi contenuti (che si scelga o meno il “contratto a tutele crescenti” oppure altra forma e quali che siano le misure), il provvedimento sul quale i renziani ripongono messianica aspettativa promettendo taumaturgici effetti per l’occupazione italiana, appare già gravato, in culla, da una certa ambiguità almeno sotto due profili. Il primo è l’implicitum costituito dal fatto che, come fanno notare soprattutto le imprese, senza un concomitante o preliminare rilancio robusto della domanda di beni e servizi, attraverso una politica industriale e fiscale davvero incisiva, difficilmente il “modello tedesco” darà origine a consequenziali effetti “tedeschi” e neppure “spagnoli” in termini occupazionali. L’altro profilo è rappresentato dal fatto che, come sottolineano soprattutto i sindacati, il modello tedesco di legislazione sul lavoro funziona bene perché si tiene con un modello di Welfare altrettanto tedesco: fermarsi al primo elemento di questo binomio significa invece aumentare la precarietà più che la flessibilità.
Le imprese. «Per assumere - dice infatti il direttore Uib, Pier Francesco Corcione - le imprese devono poter produrre, senza eccessivi gravami, e soprattutto vendere. Occorre quindi essere in presenza, da un lato, di una fiscalità e di una burocrazia non frenanti e, dall’altro, di una domanda dinamica di beni e servizi prodotti in una prospettiva almeno a medio periodo. Quindi, da un punto di vista metodologico, prima ancora di mettere mano al Jobs Act e affrontare il pur importante problema della flessibilità, occorreva concentrarsi su quel complesso di riforme in grado di liberare le imprese da lacci e freni e stimolare la domanda che oggi è ferma nonostante l’operazione “bonus 80 euro”. In quanto poi ai contenuti (che è serio commentare solo quando essi saranno ufficiali), mi limito però a rilevare preliminarmente due incongruenze: la prima sta nel fatto che del contratto “unico” capace di superare finalmente il dualismo pubblico-privato, non si è più parlato; l’altra, nel fatto che se si vuole davvero adottare un modello tedesco, allora non lo si può fare al netto dell’articolo 18, considerato che nella legislazione di quel Paese una norma analoga non esiste, avendo i tedeschi un diverso sistema di Welfare e di tutele».
Sulla stessa linea, anche Aureliano Curini, direttore di Ain, l’associazione degli industriali novaresi. «Il dibattito in corso - dice Curini - contiene senza dubbio elementi interessanti, ma si sviluppa ancora su un piano troppo teorico. Il problema vero, per dirla con un tweet, è che il lavoro non si crea con una legge: finché non ci sarà una vera ripresa, solida e consolidata, dell’economia reale, di nuove assunzioni, che siano con contratto a termine o a tempo indeterminato a tutela crescente, non si potrà parlare se non in casi sporadici, per quanto benvenuti. Ritengo anche che debba essere data priorità alla semplificazione normativa in materia, attraverso quel Testo Unico di cui si parla da tempo. Una delle cause dei mancati investimenti, anche stranieri, in Italia è la grande incertezza sui tempi della giustizia civile, sia in tema di diritto del lavoro sia di tutela di know how e brevetti. Più che di discussioni sul "modello tedesco", quindi, in Italia è quanto mai necessaria, per aprire serie prospettive sul futuro, una radicale svolta culturale».
Giovanni Orso