Made in: passo avanti ma con “selezione”

Made in: passo avanti ma con “selezione”
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Sul Regolamento Ue in tema di tutela del consumatore finale, dopo lo scandaloso no del Consiglio Ue nel dicembre scorso, sembra tornare oggi qualche speranza. In particolare, una mediazione “tecnica” formulata dalla Commissione Ue potrebbe infatti evitare il temuto stralcio della norma sul “made in” dal Regolamento. La Commissione Europea, dopo aver esaminato i risultati di uno studio di impatto sull’applicazione del “made in”, sarebbe orientata a proporre al prossimo Consiglio sulla competitività che avrà luogo il 28 maggio l’applicazione dell’etichettatura obbligatoria solo a tre settori: tessile-moda, calzature e ceramica.
La bozza. La mediazione dovrebbe servire a superare l’impasse creatosi tra i Paesi membri e che da un anno blocca la bozza di regolamento sulla tutela del consumatore la quale contiene appunto l’articolo 7 dedicato specificatamente al “made in”. Tale regolamento costituisce, peraltro, già il risultato di annose mediazioni che hanno molto mutato l’originaria portata della battaglia per l’etichettatura obbligatoria non a caso partita proprio dall’Italia, con il distretto tessile biellese in prima fila. Nell’aprile 2014, la bozza definitiva era stata approvata dal Parlamento Ue, ma tutto poi si era arenato in sede di Consiglio dove i voti ponderati dei Paesi non manifatturieri avevano finito, ancora una volta, per prevalere. Proprio i Paesi del Nord Europa avevano inoltre chiesto ed ottenuto, in funzione di allungamento dei tempi, uno studio sull’impatto relativo ai costi-benefici del “made in” per l’industria europea, con una consultazione sui vari settori. Dallo studio, i cui risultati non sono ancora stati ufficializzati, sarebbe ora emerso un orientamento favorevole di alcuni settori economici e, su questa base, la Commissione avrebbe formulato l’attuale mediazione “selettiva” al Consiglio al fine di sbloccare finalmente il pacchetto complessivo, evitando nel contempo lo stralcio della norma che, nell’impianto della bozza votata, dovrebbe regolare l’etichettatura obbligatoria di origine su tutti i prodotti non alimentari in circolazione nella Ue: sia quelli prodotti in altri Stati europei, sia quelli importati da Paesi extracomunitari.
Tempistiche. La parola, ora, passa al Consiglio competitività fissato a fine maggio. Peraltro, la proposta di mediazione avanzata dalla Commissione non ha un limite solo per quanto concerne i settori ma anche per quanto attiene le tempistiche di applicazione. Lo “sblocco” del pacchetto sarebbe subordinato ad un’applicazione sperimentale del “made in” per una durata di cinque anni prima della sua adozione definitiva. Il viceministro allo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, si è dichiarato soddisfatto, ma ha sottolineato l’esigenza di allargare l’applicazione selettiva anche al settore dell’oreficeria e dell’arredo. 
Valore. A conti fatti, il manifatturiero tricolore libera un fatturato che nel 2014, per i tre settori selezionati, è stato di 64,8 miliardi di euro «Il tessile-moda, con i suoi 52,4 miliardi di fatturato è dentro il perimetro di applicazione uscito dalla proposta di mediazione “selettiva” della Commissione - commenta il direttore Uib, Pier Francesco Corcione -. Vedremo che cosa risponderà il Consiglio competitività, ma la mediazione non deve accendere troppo facili entusiasmi o farci abbandonare il campo della lotta che, come ha giustamente sottolineato il viceministro Calenda, deve avere come obiettivo l’estensione della norma anche ad altri settori di forte potenzialità per il manifatturiero italiano, come l’oreficeria o il legno-arredo. Se, infatti, consideriamo i fatturati realizzati da questi settori, è facile constatare l’importanza che essi rivestono per il made in Italy: ai 7 miliardi di fatturato della nostra oreficeria, vanno aggiunti i 26,7 miliardi del legno-arredo, per un totale di 33,7 miliardi. Logico, pertanto, insistere affinché anche questi settori vengano portati sotto il “cappello” del marchio d’origine». Più amara la constatazione dell’imprenditore e stilista Luciano Barbera che da anni si batte per l’introduzione di un “made in Italy” in purezza. «Non voglio unirmi al coro di chi pensa che questa mediazione possa rappresentare la soluzione ai nostri attuali problemi - dice Barbera - . Mi pare, come ho già detto tante volte, che ci troviamo ancora una volta davanti a bozze di regolamento complicate quando l’approccio dovrebbe essere quantomai lineare e semplice. Come ogni persona ha un passaporto, così ogni merce deve recare l’etichetta del Paese dove è stata effettivamente prodotta: made in Italy, made in France e così via. La mia personale esperienza imprenditoriale con gli States conforta questa visione: i miei clienti americani insistono perché i miei prodotti siano etichettati “entirely manufactured in Italy”, a riprova che il nostro made in ha un grande valore. Tutto il resto, sono approssimazioni o pasticci che è davvero arduo salutare come soluzioni».
Giovanni Orso
orso@primabiella.it

Sul Regolamento Ue in tema di tutela del consumatore finale, dopo lo scandaloso no del Consiglio Ue nel dicembre scorso, sembra tornare oggi qualche speranza. In particolare, una mediazione “tecnica” formulata dalla Commissione Ue potrebbe infatti evitare il temuto stralcio della norma sul “made in” dal Regolamento. La Commissione Europea, dopo aver esaminato i risultati di uno studio di impatto sull’applicazione del “made in”, sarebbe orientata a proporre al prossimo Consiglio sulla competitività che avrà luogo il 28 maggio l’applicazione dell’etichettatura obbligatoria solo a tre settori: tessile-moda, calzature e ceramica.
La bozza. La mediazione dovrebbe servire a superare l’impasse creatosi tra i Paesi membri e che da un anno blocca la bozza di regolamento sulla tutela del consumatore la quale contiene appunto l’articolo 7 dedicato specificatamente al “made in”. Tale regolamento costituisce, peraltro, già il risultato di annose mediazioni che hanno molto mutato l’originaria portata della battaglia per l’etichettatura obbligatoria non a caso partita proprio dall’Italia, con il distretto tessile biellese in prima fila. Nell’aprile 2014, la bozza definitiva era stata approvata dal Parlamento Ue, ma tutto poi si era arenato in sede di Consiglio dove i voti ponderati dei Paesi non manifatturieri avevano finito, ancora una volta, per prevalere. Proprio i Paesi del Nord Europa avevano inoltre chiesto ed ottenuto, in funzione di allungamento dei tempi, uno studio sull’impatto relativo ai costi-benefici del “made in” per l’industria europea, con una consultazione sui vari settori. Dallo studio, i cui risultati non sono ancora stati ufficializzati, sarebbe ora emerso un orientamento favorevole di alcuni settori economici e, su questa base, la Commissione avrebbe formulato l’attuale mediazione “selettiva” al Consiglio al fine di sbloccare finalmente il pacchetto complessivo, evitando nel contempo lo stralcio della norma che, nell’impianto della bozza votata, dovrebbe regolare l’etichettatura obbligatoria di origine su tutti i prodotti non alimentari in circolazione nella Ue: sia quelli prodotti in altri Stati europei, sia quelli importati da Paesi extracomunitari.
Tempistiche. La parola, ora, passa al Consiglio competitività fissato a fine maggio. Peraltro, la proposta di mediazione avanzata dalla Commissione non ha un limite solo per quanto concerne i settori ma anche per quanto attiene le tempistiche di applicazione. Lo “sblocco” del pacchetto sarebbe subordinato ad un’applicazione sperimentale del “made in” per una durata di cinque anni prima della sua adozione definitiva. Il viceministro allo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, si è dichiarato soddisfatto, ma ha sottolineato l’esigenza di allargare l’applicazione selettiva anche al settore dell’oreficeria e dell’arredo. 
Valore. A conti fatti, il manifatturiero tricolore libera un fatturato che nel 2014, per i tre settori selezionati, è stato di 64,8 miliardi di euro «Il tessile-moda, con i suoi 52,4 miliardi di fatturato è dentro il perimetro di applicazione uscito dalla proposta di mediazione “selettiva” della Commissione - commenta il direttore Uib, Pier Francesco Corcione -. Vedremo che cosa risponderà il Consiglio competitività, ma la mediazione non deve accendere troppo facili entusiasmi o farci abbandonare il campo della lotta che, come ha giustamente sottolineato il viceministro Calenda, deve avere come obiettivo l’estensione della norma anche ad altri settori di forte potenzialità per il manifatturiero italiano, come l’oreficeria o il legno-arredo. Se, infatti, consideriamo i fatturati realizzati da questi settori, è facile constatare l’importanza che essi rivestono per il made in Italy: ai 7 miliardi di fatturato della nostra oreficeria, vanno aggiunti i 26,7 miliardi del legno-arredo, per un totale di 33,7 miliardi. Logico, pertanto, insistere affinché anche questi settori vengano portati sotto il “cappello” del marchio d’origine». Più amara la constatazione dell’imprenditore e stilista Luciano Barbera che da anni si batte per l’introduzione di un “made in Italy” in purezza. «Non voglio unirmi al coro di chi pensa che questa mediazione possa rappresentare la soluzione ai nostri attuali problemi - dice Barbera - . Mi pare, come ho già detto tante volte, che ci troviamo ancora una volta davanti a bozze di regolamento complicate quando l’approccio dovrebbe essere quantomai lineare e semplice. Come ogni persona ha un passaporto, così ogni merce deve recare l’etichetta del Paese dove è stata effettivamente prodotta: made in Italy, made in France e così via. La mia personale esperienza imprenditoriale con gli States conforta questa visione: i miei clienti americani insistono perché i miei prodotti siano etichettati “entirely manufactured in Italy”, a riprova che il nostro made in ha un grande valore. Tutto il resto, sono approssimazioni o pasticci che è davvero arduo salutare come soluzioni».
Giovanni Orso
orso@primabiella.it

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