Giorgio Squinzi: per il manifatturiero, ricetta europea

Giorgio Squinzi: per il manifatturiero, ricetta europea
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E’stato un Giorgio Squinzi più europeista che mai, convinto che il solco tracciato da Maastricht e da Lisbona debba restare la stella polare per orientare l’unica rotta capace di condurre davvero il sistema verso porti sicuri: il presidente di Confindustria, ha scelto la platea dell’assemblea annuale Uib, martedì scorso a Città Studi, per pronunciare un discorso contenuto nei modi ma fierissimo nella sostanza:  parole chiare per  raffreddare serpeggianti velleità populiste dell’ultim’ora che stoltamente accarezzano il sogno di un ritorno ad una età dell’oro caratterizzata da valute nazionali, svalutazioni competitive e crescita drogata.

Emergenza. «Ricerche del centro Studi Ubs  - ha detto Giorgio Squinzi - mostrano come senza l’euro subiremmo invece  una falcidia del Pil di oltre il 35%, con un devastante balzo indietro di decenni nel nostro livello medio di standard di vita. In un contesto come l’attuale, con gli Stati Uniti ormai impossibilitati, per via del loro grave deficit, a svolgere  la loro storica funzione di traino, l’unica via credibile resta quella di costruire velocemente  l’unità politica europea, consapevoli che questo, per i singoli Stati membri, significa procedere a sempre più consistenti cessioni di quote di sovranità nazionale. La stabilità della moneta unica è  risultato conseguibile solo con  misure coraggiose la cui agenda non può più essere rimandata: una Bce diversa, che possa svolgere funzioni di prestatore di ultima istanza; politiche di Welfare comuni; fiscal compact; politiche infrastrutturali forti e, soprattutto, politiche energetiche uguali. L’acceleratore va poi premuto sugli eurobond e sulla sterlizzazione del 60% del debito di ogni Paese. Come Confindustria, abbiamo preso posizione forte a favore di tutti questi interventi».

Il Paese. Se la partita vitale si gioca, in queste settimane, sullo scacchiere europeo, il cahier de doléances  che il sistema delle imprese vorrebbe invece affrontato subito proprio da questo Governo che «ha restituito in sede Ue credibilità al Paese»,  parte soprattutto dalla semplificazione burocratica-amministrativa. «E’ il primo passo per creare un contesto più favorevole all’esercizio dell’impresa - ha detto Squinzi - :  da noi, i tempi medi per una valutazione di impatto ambientale sono di tre anni, mentre in gran parte d’Europa si aspetta 60-90 giorni. Inoltre, non chiediamo tanto contributi quanto un sistema normale, magari dove finalmente la Pubblica Amministrazione sappia onorare celermente i suoi debiti verso le imprese. L’Italia è il secondo Paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania, e proprio Biella è l’espressione di un’area a più antica industrializzazione. Confindustria sceglie di difendere la competitività del manifatturiero italiano che ha nella creatività la sua radice e nella materia grigia dei suoi imprenditori la sua ricchezza. Per questo, ad un manifatturiero di tal fatta, sono essenziali ricerca e innovazione come ben sa proprio il sistema Biella che  costituisce un ottimo esempio in tal senso».

Ottimismo. In un contesto grave come l’attuale, tuttavia, esistono ancora ragioni di ottimismo per il manifatturiero italiano? Per Luca Paolazzi, direttore del Centro Studi di Confindustria, la risposta è sì.
«Le ragioni sono almeno cinque - ha detto Paolazzi intervenendo all’assemblea Uib -. Prima di tutto, a  differenza della crisi del ’29 , oggi il mondo continua a crescere e il 75% di questa crescita arriva dai Paesi emergenti. In secondo luogo, il manifatturiero italiano si sta trasformando nei prodotti e nei mercati: il peso dell’export di articoli moda e design è sceso dal 21,5% del 1992 al 13,9% del 2011, mentre quello di tecnologia è salito dal 60,8% al 66,8%, nonostante il calo di computer ed elettrodomestici. Terza ragione: molte imprese stanno riorientando le loro strategie, puntando più sull’aumento del valore aggiunto che non sul contenimento dei costi: scelta logica, considerato che i competitors diretti sono rappresentati dai Paesi Nord europei e dagli Stati Uniti. Su 36 mila imprese monitorate  tra il 2001 ed il 2010, il 16,3% cresce. Sono mutamenti di strategia che riguardano anche le imprese sotto i 7,5 milioni di fatturato ossia quelle più piccole. La quarta ragione di ottimismo è il crescente start up di imprese tra i giovani e, infine, ultima ma non ultima ragione è rappresentata dalla tradizionale capacità del Paese di trasformare i suoi handicap in punti di forza».
Paolazzi ha poi concentrato l’analisi sull’attuale mancanza di crescita che caratterizza l’economia italiana.
«Il virus della bassa crescita - ha detto Paolazzi - è stato contratto sin dagli anni Settanta ma attutito dalle cure sbagliate di una classe dirigente che, invece di affrontare e sciogliere i nodi dei principali problemi, ha preferito, per interessi politici, accontentare le rivendicazioni di tutte le parte sociali. La stagione del deficit pubblico, dell’inflazione galoppante e delle svalutazioni ha quel peccato originale di fondo. Così oggi le leve da usare per  la ripartenza restano sostanzialmente quelle cui prima non è stata mai messa mano ossia la conoscenza, la concorrenza, la semplificazione burocratica e la riforma del lavoro».

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