Trent’anni di ‘Ndrangheta nel Biellese ricostruiti da un pentito della cosca

Trent’anni di ‘Ndrangheta nel Biellese ricostruiti da un pentito della cosca
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Sta vuotando il sacco. Sta raccontando un episodio dietro l’altro. E sta ricostruendo almeno venticinque anni di ‘Ndrangheta. Di richieste di pizzo, di incendi appiccati per spaventare, di aggressioni per convincere gli imprenditori presi di mira a mettere mano al portafogli e a pagare, di intimidazioni, di estorsioni. Tutto viene verbalizzato e ogni parola viene vagliata.
Ha dimostrato di essere credibile il collaboratore di giustizia della “locale di Santhià”, la ‘ndrina che secondo la Dda di Torino è stata gestita da sempre dai componenti della famiglia Raso, con base operativa a Cascina Mosè, l’abitazione storica della famiglia che sorge tra Dorzano e Cavaglià. Secondo gli inquirenti (non solo la Distrettuale antimafia di Torino, ma la prima sezione della Squadra mobile di Biella, quella che si occupa di criminalità organizzata) proprio attraverso i Raso, i tentacoli della ‘Ndrangheta si erano allungati con prepotenza anche nel Biellese dove vari commercianti erano stati taglieggiati, spaventati a morte, picchiati, costretti a pagare per ottenere protezione. Guai a dire di no. Già solo negli ultimi episodi inseriti negli atti, nelle centinaia e centinaia di pagine che componevano il fascicolo processuale che hanno alla fine portato a una raffica di condanne per associazione a delinquere di stampo mafioso, vengono evidenziati episodi che ben rendono l’idea di ciò che la ‘indrina operativa nel Basso Biellese era capace di fare.
Si parla ad esempio di un imprenditore che s’è trovato l’auto da 80mila euro completamente distrutta dal fuoco, c’è la proprietaria di un bar a cui hanno versato zucchero nel serbatoio (ha testimoniato la scorsa settimana a Biella nel contesto del processo contro il capostipite della famiglia, Antonio Raso, che si è sempre professato estraneo ai fatti che gli vengono contestati e che ha scelto il rito ordinario), a un’altra ancora hanno incendiato l’utilitaria. A un barista hanno bruciato direttamente il locale. Le botte a chi non pagava erano all’ordine del giorno. Tutto ciò nel profondo Nord.
Valter Caneparo

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Sta vuotando il sacco. Sta raccontando un episodio dietro l’altro. E sta ricostruendo almeno venticinque anni di ‘Ndrangheta. Di richieste di pizzo, di incendi appiccati per spaventare, di aggressioni per convincere gli imprenditori presi di mira a mettere mano al portafogli e a pagare, di intimidazioni, di estorsioni. Tutto viene verbalizzato e ogni parola viene vagliata.
Ha dimostrato di essere credibile il collaboratore di giustizia della “locale di Santhià”, la ‘ndrina che secondo la Dda di Torino è stata gestita da sempre dai componenti della famiglia Raso, con base operativa a Cascina Mosè, l’abitazione storica della famiglia che sorge tra Dorzano e Cavaglià. Secondo gli inquirenti (non solo la Distrettuale antimafia di Torino, ma la prima sezione della Squadra mobile di Biella, quella che si occupa di criminalità organizzata) proprio attraverso i Raso, i tentacoli della ‘Ndrangheta si erano allungati con prepotenza anche nel Biellese dove vari commercianti erano stati taglieggiati, spaventati a morte, picchiati, costretti a pagare per ottenere protezione. Guai a dire di no. Già solo negli ultimi episodi inseriti negli atti, nelle centinaia e centinaia di pagine che componevano il fascicolo processuale che hanno alla fine portato a una raffica di condanne per associazione a delinquere di stampo mafioso, vengono evidenziati episodi che ben rendono l’idea di ciò che la ‘indrina operativa nel Basso Biellese era capace di fare.
Si parla ad esempio di un imprenditore che s’è trovato l’auto da 80mila euro completamente distrutta dal fuoco, c’è la proprietaria di un bar a cui hanno versato zucchero nel serbatoio (ha testimoniato la scorsa settimana a Biella nel contesto del processo contro il capostipite della famiglia, Antonio Raso, che si è sempre professato estraneo ai fatti che gli vengono contestati e che ha scelto il rito ordinario), a un’altra ancora hanno incendiato l’utilitaria. A un barista hanno bruciato direttamente il locale. Le botte a chi non pagava erano all’ordine del giorno. Tutto ciò nel profondo Nord.
Valter Caneparo

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