«Non ho ucciso nessuno, sono innocente»
Scrive una lettera a “Eco” per gridare la sua innocenza. Lo ripete tra le righe della lettera scritta a computer. E lo ribadisce vergandolo a mano, rafforzato da un punto esclamativo, in ogni lato del foglio: «Sono innocente!». La firma in calce è di Francesco Furchì, 52 anni, calabrese trapiantato a Torino, accusato di avere ucciso, nel capoluogo piemontese, Alberto Musy, professionista e consigliere comunale dell’Udc. E’ stato condannato all’ergastolo il 28 gennaio scorso. Ora si trova detenuto nel carcere di Biella e, nei giorni scorsi, è stato scortato dai poliziotti penitenziari biellesi nuovamente a Torino dove ha avuto inizio il processo d’appello.
«Ho ancora qualche brandello di fiducia nella giustizia degli uomini - scrive Furchì -. E spero che la mia innocenza venga stabilita senza pregiudizi da un giudice serio e onesto che non subisca i condizionamenti ambientali che anno segnato la mia vicenda fino a oggi. Continuerò a lottare affinché la verità venga raggiunta. E la lotta la condurrò fino in fondo anche a prezzo della mia stessa vita. D’altra parte, non ho più nulla per cui valga la pena di restare al mondo».
Furchì è stato ritenuto colpevole perchè fisicamente compatibile con l’uomo con il casco - filmato dalle telecamere di sorveglianza - che sparò a Musi nel cortile di casa. Nel corso del processo è maturata la convinzione che Furchì avesse accumulato risentimento nei confronti del consigliere comunale Udc, per aspettative politiche e professionali non soddisfatte. Nei confronti della sentenza di primo grado, hanno proposto appello i legali dell’imputato, Gaetano Pecorella e Giancarlo Pittelli. Ma anche la procura della Repubblica di Torino, a firma del sostituto procuratore Roberto Furlan.
La lettera. «Vivo da due anni e mezzo fra le sbarre di un carcere fra mille sofferenze - scrive Furchì a “Eco” -, escluso totalmente dal consenso sociale, messo in custodia cautelare da una giustizia che con una condanna in primo grado all’ergastolo ha travolto la mia vita, stabilendo, sulla base di ipotesi e semplici sospetti che sono e devo essere un assassino».
Valter Caneparo
Leggi di più sull’Eco di Biella di lunedì 23 novembre 2015
Scrive una lettera a “Eco” per gridare la sua innocenza. Lo ripete tra le righe della lettera scritta a computer. E lo ribadisce vergandolo a mano, rafforzato da un punto esclamativo, in ogni lato del foglio: «Sono innocente!». La firma in calce è di Francesco Furchì, 52 anni, calabrese trapiantato a Torino, accusato di avere ucciso, nel capoluogo piemontese, Alberto Musy, professionista e consigliere comunale dell’Udc. E’ stato condannato all’ergastolo il 28 gennaio scorso. Ora si trova detenuto nel carcere di Biella e, nei giorni scorsi, è stato scortato dai poliziotti penitenziari biellesi nuovamente a Torino dove ha avuto inizio il processo d’appello.
«Ho ancora qualche brandello di fiducia nella giustizia degli uomini - scrive Furchì -. E spero che la mia innocenza venga stabilita senza pregiudizi da un giudice serio e onesto che non subisca i condizionamenti ambientali che anno segnato la mia vicenda fino a oggi. Continuerò a lottare affinché la verità venga raggiunta. E la lotta la condurrò fino in fondo anche a prezzo della mia stessa vita. D’altra parte, non ho più nulla per cui valga la pena di restare al mondo».
Furchì è stato ritenuto colpevole perchè fisicamente compatibile con l’uomo con il casco - filmato dalle telecamere di sorveglianza - che sparò a Musi nel cortile di casa. Nel corso del processo è maturata la convinzione che Furchì avesse accumulato risentimento nei confronti del consigliere comunale Udc, per aspettative politiche e professionali non soddisfatte. Nei confronti della sentenza di primo grado, hanno proposto appello i legali dell’imputato, Gaetano Pecorella e Giancarlo Pittelli. Ma anche la procura della Repubblica di Torino, a firma del sostituto procuratore Roberto Furlan.
La lettera. «Vivo da due anni e mezzo fra le sbarre di un carcere fra mille sofferenze - scrive Furchì a “Eco” -, escluso totalmente dal consenso sociale, messo in custodia cautelare da una giustizia che con una condanna in primo grado all’ergastolo ha travolto la mia vita, stabilendo, sulla base di ipotesi e semplici sospetti che sono e devo essere un assassino».
Valter Caneparo
Leggi di più sull’Eco di Biella di lunedì 23 novembre 2015