Il carabiniere: "Una vita rovinata"

Il carabiniere: "Una vita rovinata"
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Parla Marco Casavere, l’appuntato dei carabinieri in servizio fino a quattro anni fa all’Ispettorato del lavoro di Biella, accusato ingiustamente e assolto nel modo più limpido possibile in due gradi di giudizio dal reato di abuso d’ufficio. Secondo la Procura, Casavere avrebbe procacciato clienti per una società di consulenza di Cossato di cui era socio un suo conoscente finito a sua volta sott’inchiesta (anche questo caso si è sgonfiato in modo altrettanto clamoroso), in tal modo creando situazioni di conflitto di interesse, procurando altresì a se stesso presunti vantaggi patrimoniali. Tutto era però crollato. All’inizio l’appuntato Casavere aveva collaborato con la Procura. Ma a suo dire si era scontrato con un muro di gomma. Il giorno dell’ultimo colloquio con il sostituto procuratore Ernesto Napolillo (presente anche il maresciallo della Guardia di finanza, Giovanni Bonaiuto), l’appuntato aveva registrato di nascosto il colloquio (vedere servizio nella pagina accanto).

Perché lo aveva fatto?
«Ho registrato il colloquio perché certe parole e certi atteggiamenti utilizzati nei precedenti incontri non potevo dimostrarli. Dovevo riuscire in qualche modo a tutelarmi. In precedenza ho cercato di collaborare, ho consegnato nelle mani degli inquirenti l’elenco delle aziende da me ispezionate negli ultimi due anni. Pensavo che quei documenti bastassero per comprendere che non c’entravo con la loro indagine, che ero pulito e che non avevo proprio nulla da nascondere. La prima volta mi avevano tenuto in ufficio da mezzogiorno alle sei e mezza del pomeriggio, senza mangiare né bere, accusandomi di cose che stentavo a capire, utilizzando metodi a mio modo di vedere discutibili. Purtroppo non sono mai stati cristallini. Così, dopo quell’esperienza, ho deciso di tutelarmi perché lo spirito collaborativo era venuto per forza di cose meno. Durante l’ultima conversazione, durata 26 minuti, il magistrato ha ammesso d’aver parlato lui con i vertici dell’Arma per farmi rimuovere dal Nucleo ispettorato del lavoro e farmi trasferire. Continuava a insistere che non collaboravo e che ero reticente. Risposi che avevo messo a loro disposizione tutto quanto in mio possesso e a mia conoscenza...».

Come ha vissuto i cinque anni di accuse?
«Malissimo. Mi sono chiesto tante e tante volte cosa avessi fatto di male per meritarmi un simile trattamento. Ho ingoiato decine di bocconi amari e ho dovuto cambiare radicalmente sia la mia vita privata sia quella professionale. E senza un vero perché. Mi hanno mandato lontano da casa, al Battaglione di Torino: da un lavoro specializzato all’ispettorato del lavoro a svolgere tutt’altre mansioni, con un aumento dei rischi per la mia incolumità. In un attimo si sono volatilizzate le mie aspirazioni professionali e personali. Per cosa? Per nulla, per accuse ingiuste che si sono sgonfiate in un amen. All’improvviso sono stato costretto a rinunciare ad ogni cosa. Ho dovuto aspettare cinque lunghi anni per poter ricominciare da zero la mia vita professionale e personale».

Cosa si aspetta per il futuro?
«Di riuscire a ottenere giustizia anche se quello che è successo ha minato le mie convinzioni che sono le convinzioni di chi veste una divisa: uomini che credono in certi valori  tra i quali c’è anche la giustizia. Per fortuna ho avuto due forti accelerazioni nell’iter proprio perché era evidente che il caso fosse stato montato dal nulla. Non c’era nulla che mettesse in dubbio la mia onestà di carabiniere. E le due assoluzioni ne sono la prova certa. La prima è arrivata davanti al gip di Biella, con il rito abbreviato, con il giudice che ha analizzato solo gli atti delle indagini e ha deciso che non vi fossero elementi per poter procedere. Pensavo fosse tutto finito, invece la Procura ha fatto ricorso in appello sempre basandosi sul nulla: l’incubo proseguiva senza un vero perché. Sono stato io, contro l’opinione del mio avvocato, a sollecitare l’udienza della Corte d’Appello di Torino. E anche in questo caso tutto si è sgonfiato senza nemmeno la necessità di sentire i testimoni».
Che idea si è fatto di questa storia?
«Che in Italia è difficile essere persone oneste. Il mio caso lascia perplessi. Non è nato dalla denuncia di qualcuno. Un bel giorno il piemme mi ha coinvolto solo perché conoscevo la persona su cui stava indagando. Per cercare riscontri sono stati sentite addirittura 53 persone. E tutto è risultato negativo. A questo punto la risposta non poteva che essere una sola: Casavere a nulla c’entra con le presunte malefatte dell’altra persona. Invece...».

Come vorrebbe che finisse questo incubo?
«Il mio obiettivo è quello di poter tornare a Biella a testa alta per poter di nuovo offrire il mio contributo a questa provincia e poter riprendere in mano le redini della mia carriera. Sono alla ricerca di nuovi stimoli per poter ricostruire la mia vita, spero di riuscirci».
Valter Caneparo

Parla Marco Casavere, l’appuntato dei carabinieri in servizio fino a quattro anni fa all’Ispettorato del lavoro di Biella, accusato ingiustamente e assolto nel modo più limpido possibile in due gradi di giudizio dal reato di abuso d’ufficio. Secondo la Procura, Casavere avrebbe procacciato clienti per una società di consulenza di Cossato di cui era socio un suo conoscente finito a sua volta sott’inchiesta (anche questo caso si è sgonfiato in modo altrettanto clamoroso), in tal modo creando situazioni di conflitto di interesse, procurando altresì a se stesso presunti vantaggi patrimoniali. Tutto era però crollato. All’inizio l’appuntato Casavere aveva collaborato con la Procura. Ma a suo dire si era scontrato con un muro di gomma. Il giorno dell’ultimo colloquio con il sostituto procuratore Ernesto Napolillo (presente anche il maresciallo della Guardia di finanza, Giovanni Bonaiuto), l’appuntato aveva registrato di nascosto il colloquio (vedere servizio nella pagina accanto).

Perché lo aveva fatto?
«Ho registrato il colloquio perché certe parole e certi atteggiamenti utilizzati nei precedenti incontri non potevo dimostrarli. Dovevo riuscire in qualche modo a tutelarmi. In precedenza ho cercato di collaborare, ho consegnato nelle mani degli inquirenti l’elenco delle aziende da me ispezionate negli ultimi due anni. Pensavo che quei documenti bastassero per comprendere che non c’entravo con la loro indagine, che ero pulito e che non avevo proprio nulla da nascondere. La prima volta mi avevano tenuto in ufficio da mezzogiorno alle sei e mezza del pomeriggio, senza mangiare né bere, accusandomi di cose che stentavo a capire, utilizzando metodi a mio modo di vedere discutibili. Purtroppo non sono mai stati cristallini. Così, dopo quell’esperienza, ho deciso di tutelarmi perché lo spirito collaborativo era venuto per forza di cose meno. Durante l’ultima conversazione, durata 26 minuti, il magistrato ha ammesso d’aver parlato lui con i vertici dell’Arma per farmi rimuovere dal Nucleo ispettorato del lavoro e farmi trasferire. Continuava a insistere che non collaboravo e che ero reticente. Risposi che avevo messo a loro disposizione tutto quanto in mio possesso e a mia conoscenza...».

Come ha vissuto i cinque anni di accuse?
«Malissimo. Mi sono chiesto tante e tante volte cosa avessi fatto di male per meritarmi un simile trattamento. Ho ingoiato decine di bocconi amari e ho dovuto cambiare radicalmente sia la mia vita privata sia quella professionale. E senza un vero perché. Mi hanno mandato lontano da casa, al Battaglione di Torino: da un lavoro specializzato all’ispettorato del lavoro a svolgere tutt’altre mansioni, con un aumento dei rischi per la mia incolumità. In un attimo si sono volatilizzate le mie aspirazioni professionali e personali. Per cosa? Per nulla, per accuse ingiuste che si sono sgonfiate in un amen. All’improvviso sono stato costretto a rinunciare ad ogni cosa. Ho dovuto aspettare cinque lunghi anni per poter ricominciare da zero la mia vita professionale e personale».

Cosa si aspetta per il futuro?
«Di riuscire a ottenere giustizia anche se quello che è successo ha minato le mie convinzioni che sono le convinzioni di chi veste una divisa: uomini che credono in certi valori  tra i quali c’è anche la giustizia. Per fortuna ho avuto due forti accelerazioni nell’iter proprio perché era evidente che il caso fosse stato montato dal nulla. Non c’era nulla che mettesse in dubbio la mia onestà di carabiniere. E le due assoluzioni ne sono la prova certa. La prima è arrivata davanti al gip di Biella, con il rito abbreviato, con il giudice che ha analizzato solo gli atti delle indagini e ha deciso che non vi fossero elementi per poter procedere. Pensavo fosse tutto finito, invece la Procura ha fatto ricorso in appello sempre basandosi sul nulla: l’incubo proseguiva senza un vero perché. Sono stato io, contro l’opinione del mio avvocato, a sollecitare l’udienza della Corte d’Appello di Torino. E anche in questo caso tutto si è sgonfiato senza nemmeno la necessità di sentire i testimoni».
Che idea si è fatto di questa storia?
«Che in Italia è difficile essere persone oneste. Il mio caso lascia perplessi. Non è nato dalla denuncia di qualcuno. Un bel giorno il piemme mi ha coinvolto solo perché conoscevo la persona su cui stava indagando. Per cercare riscontri sono stati sentite addirittura 53 persone. E tutto è risultato negativo. A questo punto la risposta non poteva che essere una sola: Casavere a nulla c’entra con le presunte malefatte dell’altra persona. Invece...».

Come vorrebbe che finisse questo incubo?
«Il mio obiettivo è quello di poter tornare a Biella a testa alta per poter di nuovo offrire il mio contributo a questa provincia e poter riprendere in mano le redini della mia carriera. Sono alla ricerca di nuovi stimoli per poter ricostruire la mia vita, spero di riuscirci».
Valter Caneparo

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