INTERVISTA

Elisabetta Cametti: «Una madre? È benedizione o condanna»

Nuovo romanzo per la regina del thriller, che scava tra bugie e segreti di casa. 

Elisabetta Cametti: «Una madre? È benedizione o condanna»
Pubblicato:

Nuovo romanzo per la regina del thriller, che scava tra bugie e segreti di casa.

Nuova uscita

Fabrizio Ravizza e Aria si sono incontrati solo una volta. Lui è un editore di successo, lei una tatuatrice molto seguita sui social. Pochi giorni dopo quell’incontro, Fabrizio svanisce senza lasciare traccia. Della sua storia si occupa Giorgia Morandi, conduttrice di un programma televisivo che si interessa di persone scomparse, per la quale ogni caso è una missione.
A un certo punto, Aria viene trovata accanto al cadavere di un uomo, in una stazione di servizio abbandonata. Impugna l’arma del delitto e confessa l’omicidio. Ha evidenti disturbi della personalità e si sospetta che abbia ucciso altre volte: i media la soprannominano “la serial killer dell’inchiostro”, la Procura la considera un soggetto socialmente pericoloso. Ma Annalisa Spada, capo della Squadra Mobile di Milano, non crede nella sua colpevolezza.

Due casi paralleli, tra bugie, tradimenti e verità inconfessabili, e un unico segreto, taciuto per oltre trentacinque anni: questo il cuore del nuovo romanzo di Elisabetta Cametti, regina italiana del thriller che vive a Brusnengo e che domenica scorsa l’ha presentato alla Biblioteca di Vigliano Biellese. Si tratta di “Una brava madre” (Piemme) e in questa intervista la famosa scrittrice ne racconta la storia così.

Come ha declinato il concetto di madre in una storia che tratta di crimine e indagini?
«Si tratta di storie realistiche di donne che sono anche madri e ognuna di loro fornisce un’interpretazione propria dell’essere madre. Se io prima ritenevo che il concetto più soggettivo fosse quello di bene e male, in realtà mi sono resa conto che non è così e che, come esprime Annalisa Spada, è proprio il concetto di “madre” il più soggettivo che possa esistere. In tutto, nel libro sono cinque le donne che si incrociano davanti alla scena del crimine, che è il fil rouge del thriller lungo il suo ritmo serrato: c’è, ad esempio, la conduttrice televisiva che fa giornalismo d’inchiesta alla quale anni prima era stata rapita la figlia si dedica alla ricerca di persona scomparse; c’è Annalisa, la poliziotta, votata alla giustizia, eppure con un figlio delinquente in casa; c’è poi Penelope, della quale nessuno sa l’identità e questo è il mistero centrale del romanzo, che è connotata come serial killer, ma ha ucciso degli uomini per proteggere il figlio. Penelope è un personaggio pazzesco, perché lei era una “bambina di Caivano”, argomento che io studio da anni, e la sua vita nasce storta e complicata, passa attraverso gli ambiti più bui e crudeli che si possano immaginare; e, nonostante questo, ce l’ha fatta».

Le famiglie, invece, in questo libro cosa rappresentano?
«La famiglia è centrale, così come il ruolo della madre, e centrali sono le bugie, le verità inconfessabili e i tradimenti che animano i protagonisti, davvero tanti. D’altro canto, lo sappiamo: noi non scegliamo la famiglia o chi ci dona la vita, la riceviamo per benedizione o per condanna. Ed è centrale quanto una famiglia possa incidere sulle nostre scelte di vita, che si tratti di figli amati o abbandonati, traditi o che non si sentono parte delle famiglia, che perdano strade o le creino. Il punto è il momento della caduta delle “maschere”».

“Il male è ovunque. Anche qui e ora”, leggiamo. C’è speranza nella sua storia?
«In questa storia c’è tanto male, soprattutto c’è il dolore più grande, che è quello dovuto a un male familiare, quando si viene colpiti e feriti da chi invece dovrebbe amarci e starci vicino. Per questo, è un male ancora più spietato. Ma io passo un messaggio positivo, volto a chi non smette mai di cercare: che sia la verità per casi irrisolti, la giustizia per la poliziotta, la ricerca di speranza, una luce quando tutto sembra buio. Secondo me, il dolore e l’infelicità non sono incompatibili con la speranza e la forza di riprovarci. Occorre continuare a cercare ciò che fa stare bene».

Quanto ha attinto ai casi di cronaca che sono il suo materiale di studio che poi, tra l’altro, discute in televisione?
«Questo romanzo è al 99,9 per cento frutto della realtà e di quelle storie che analizzo e tratto e che mi hanno toccata e fatta riflettere. Poi, certo, segue un grande lavoro per trasformare queste storie, affinché possano amalgamarsi e sostenere una trama avvincente, che coinvolga e arrivi al lettore non come fredda cronaca, ma attraverso emozioni e sentimenti. Tutto l’intreccio conta per ogni famiglia almeno cinque membri, come dicevo i personaggi sono davvero tanti; dunque, è stata una gestione molto impegnativa e che mi ha dato, insieme, ancora più soddisfazione».

Spesso accade che di romanzi e chiaramente anche thriller si facciano trasposizioni filmiche. Le piacerebbe vedere una sua storia in televisione o al cinema?
«Una trasposizione è un sogno nel cassetto aperto, è sicuramente un mio sogno. So che non è semplice, una “scarpinata” in salita, ma io sono nata in montagna e le salite non mi spaventano».
Giovanna Boglietti

Seguici sui nostri canali