Storia

Contestato a Salussola Mario Mantovani di FdI

Domani, in edicola, l'articolo dettagliato sullo svolgimento della commemorazione.

Contestato a Salussola Mario Mantovani di FdI
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Si è tenuta questa mattina la cerimonia commemorativa dell’eccidio di Salussola, avvenuto il 9 marzo 1945, in cui persero la vita venti partigiani. Alle 9.30 ha avuto luogo di fronte al municipio il ritrovo con i famigliari dei caduti, a cui è seguito l'omaggio dell'alzabandiera. La messa commemorativa è stata tenuta da Don Ludovico De Bernardi nella Chiesa di Santa Maria Assunta.

Il luogo in cui è avvenuta la fucilazione dei partigiani

Il corteo

Usciti dalla chiesa il corteo si è svolto, accompagnato dalla musica della banda, per le vie di Salussola.

Corone e stendardi
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L'uscita dalla chiesa

Omaggio
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L'omaggio

Corteo 3
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Il Pmli presente alla manifestazione

Corteo 5
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Il corteo nelle vie di Salussola

Il discorso delle autorità

Non è stato senza problemi l'intervento delle autorità politiche: è stato infatti contestato dagli attivisti del Partito marxista-leninista nazionale italiano l'amico della sindaca Manuela Chioda, l'ex senatore Mario Mantovani.

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Chioda legge i nomi dei partigiani uccisi
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Sindaco Manuela Chioda

Intervento di Mantovani
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Ex senatore invitato, Mario Mantovani, attualmente in FdI

La vicenda storica raccontata da "Pittore", l'unico partigiano scampato all'eccidio

«Ripiegando dal Monferrato dopo 40 ore di marcia noi trentatré partigiani in distaccamento della 109ª Brigata 12ª Divisione d'assalto Garibaldi decidemmo di prendere un'ora di riposo in una fattoria vicino tra Bianzè e Livorno Ferraris sulla sponda sinistra del canale Cavour. Era esattamente il 1 Marzo, dalle quattro alle cinque del mattino, quando sostammo alla “Cascina Spinola”.

La sosta in cascina

I padroni con i garzoni si trovavano già alzati per i lavori e dietro nostra richiesta ci promisero di dare qualche occhiata in giro e di avvertirci se avessero notato qualche cosa di anormale nei dintorni. Noi supponendo dalle informazioni precedenti la zona perfettamente libera, commettemmo l'irreparabile errore di non fare la guardia e ci addormentammo tutti, chi nelle stalle e chi nei fienili.

L'arresto all'alba

Aprii gli occhi sentendo dal cortile voci perentorie di: “Alt, su le mani banditi”. Cinque nostri compagni già stavano nelle mani dei Repubblicani, in mezzo ad un gruppo di loro, mentre altri elementi catturavano nelle stalle una ventina di altri compagni, tutti sorpresi nel sonno. Io nel fienile col mitragliatore Bren tra le mani mi trovai nel penoso caso di non poter sparare sugli assalitori per non uccidere i miei stessi compagni circondati dai nemici.

La resa

Circondati da un'intera compagnia di Repubblicani (MP Macerata) armati con tre mitragliatrici pesanti, nove o dieci fucili mitragliatori, tre mortai e più di un centinaio di mitra e moschetti, dovemmo arrenderci poco dopo. La sera stessa fummo portati a Livorno, e in camion a Tronzano al comando tedesco... ingiurie, percosse, insulti da parte dei soldati tedeschi e dei militi, e infine la consegna di ogni avere (soldi, cosette personali, ecc).

L'inizio della prigionia e l'arrivo a Salussola

Poco dopo ci confinarono in una aula della scuola locale ben difesa e ben guardata, dove rimanemmo per 4 giorni. Nel frattempo dodici dei nostri vennero portati a Vercelli, così rimanemmo in ventuno. Poiché il comando tedesco lasciava Tronzano la sera del 5 marzo, ci portarono a Santhià nella caserma occupata dagli Alpini della II compagnia R.A.F., ci esiliano ed ebbero inizio così per noi le torture poiché passammo quattro giorni in piccole celle per cinque persone, che noi invece occupavamo in dieci. La sera dell'otto fummo trasferiti a Salussola con la prospettiva di un cambio con soldati tedeschi.

L'inizio delle torture

Appena giunti venivamo rinchiusi in uno stanzone del Municipio, e i militi (della Montebello) criminali, vigliacchi, mostri in camicia nera ci massacrarono a base di pugni, calci, bastonate, con il calcio del moschetto, e molti ne riportarono rotta la testa e le mandibole.

L'attesa, una tortura ulteriore

Parecchi perdevano sangue a fiotti dalle ferite della testa, dalla bocca, e dal naso, uno principalmente ferito da una baionettata rantolava in fin di vita immerso in un lago di sangue. Chiesi di poter accendere la luce per soccorrere i miei compagni, ma non ebbi altro risultato che una replica di pugni dalla guardia tedesca, con l'assicurazione che se fiatavo sarebbero rientrati per fare il peggio. Comprendevo dai loro discorsi che si proponevano di trucidarci prima di impartirci il colpo di grazia: parlavano infatti di lesioni fatte con il pugnale, di membra strappate per mezzo di automezzi col classico colpo a strappo. Stringemmo i denti, pensando che qualcuno ci avrebbe vendicati. Intanto le ore passavano nel gelo e nell'orgasmo di quell'attesa.

Il 9 marzo

Ecco: le quattro dell'alba del 9 marzo sono scoccate dal campanile vicino, passano pochi minuti ancora e l'animazione nel cortile cresce fino a che la chiave gira nella serratura e i nostri assassini entrano con (I Primi tre: sentenzia uno) a tali parole di mia volontà uscii con altri due; ciascuno di noi era trattenuto da tre militi per le braccia e per il colletto, e proseguimmo così fino al muro del vicino cimitero tra insulti, sputi e calci. Terminavano allora di spingere un camioncino i cui fari accesi illuminavano un largo tratto del muro; sul camion era piazzata una mitragliatrice con un uomo al pulsante...

L'occasione per la fuga

Non c'era che dire, i preparativi erano stati fatti a dovere... Potevo ancora vivere pochi secondi, un milite venne vicino e con ghigno particolarmente feroce mi disse che era troppo comodo morire tutto d'un colpo, e che voleva straziarmi prima che fossi finito dalla mitragliatrice. Così dicendo prese a levarmi il giubbotto; nello stesso momento che mi faceva scivolare le maniche dalle braccia mi son sentito una mano libera ed ho reagito con violenza volando addosso al mio aguzzino e buttandolo a terra. Un altro milite mi aggredì, dandomi un fortissimo colpo colla canna del fucile sulla fronte, facendomi barcollare un attimo senza più vedere nulla. Ma per fortuna mi ripresi subito e respinsi pure lui con uno spintone, afferrandolo e chiudendolo fra le braccia.

La lotta per la vita

Incominciammo a rotolare insieme sul terreno, e poi giù per una china tra rovi e sassi. Si iniziò tra di noi una lotta furibonda che per me significava la vita o la morte. Incominciai a morderlo, colpirlo, a forza di pugni e schiaffi, benché cercasse di estrarre il pugnale dalla cintura, ma il peso del mio corpo glielo impediva.

Una fuga rocambolesca

Quell'animale chiedeva aiuto; allora lo afferrai per la gola e gli somministrai un'ultima dose di pugni, e poi riuscii ad alzarmi alquanto malconcio. Era tempo: alcuni accorrevano sulle mie tracce coi mitra alla mano, e mi sparavano nella mia direzione, mentre io rotolavo nuovamente per i pendii, sbattendo un po' dappertutto, sentendo le raffiche che schiantavano i rami e scheggiavano i sassi. Rotolavo fra i rovi facendo un fracasso indiavolato e perdendo da ogni parte molto sangue che immediatamente si coagulava. Precipitavo come un masso in fondo al vallone verso il torrente, mentre dall'alto continuava la sparatoria e le pallottole fischiavano tutto attorno. Tiratomi fuori dall'acqua, proseguii come un automa attraverso un lungo campo arato, inceppando e cadendo spesso. Le scarpe, regalo di un repubblicano, erano sfondate, i piedi indolenziti e gelati sembravano di piombo. Proseguii: lassù finalmente avevano smesso di sparare nella mia direzione; poco dopo sentii una scarica nutrita seguita da cinque colpi alternati, cinque miei compagni erano morti , il classico colpo di grazia mi permetteva di conoscere la loro fine. Successivamente altre tre scariche mi gelavano il sangue: i miei venti compagni torturati chiedevano vendetta.»

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