VISTI DA VICINO Elio Fiorucci

VISTI DA VICINO <br> Elio Fiorucci
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E’ davvero lui? Dubbio lecito, perché uno che ha letteralmente “inventato” i jeans (mescolando la Lycra al Denim), uno che ha fatto un pezzo della Pop Art (Warhol scelse la vetrina del suo negozio newyorkese  per il lancio di Interview e Keith Haring riempì di sue opere, poi battute all’asta, quello milanese), uno che ha firmato, per primo, come stilista, una linea di occhiali, insomma, un’icona del design e del costume contemporaneo, prima di incontrarlo  te lo immagini all’altezza del più flaubertiano dei lieux  reçus, dei luoghi comuni: garrulo, vaporoso, magari anche capriccioso.  Invece, nel suo studio milanese di Porta Venezia inondato dal sole, tra pennarelli, bozzetti e post -it, cerchi un designer e trovi un filosofo: pullover blu su calzoni di velluto in tinta, gesti misurati, erre leggera.

L’unico guizzo di eccentricità pare concentrarsi proprio negli occhiali colorati che toglie e mette e che fanno risaltare occhi giovanissimi e intensi. Elio Fiorucci è lì e i pensieri corrono alle sue pubblicità dove una bellissima ragazza (dai cui jeans Fiorucci sbottonati spuntano, pudicamente allumeuses, delle mutandine rosa) bacia un purosangue: anche quelle pubblicità sono parte della storia di una liberazione e dimostrano come si possa coniugare il sexy con la classe. «Spesso si confonde il nudo con il volgare - dice Elio Fiorucci - . Sono invece categorie diverse perché molto dipende dall’uso che ne viene fatto. La pittura rinascimentale è piena di nudi che celebrano la bellezza umana che è gloria di Dio. Semmai è l’ipocrisia che rende volgari le situazioni: un po’ come i perbenisti che volevano mettere i braghettoni alle figure di Michelangelo nella Sistina».La passione per i colori, per la moda e per il design gli arriva da lontano, da quando, diciassettenne, iniziò a seguire l’attività paterna: un piccolo negozio di pantofole nel centro di Milano. Inutile ripercorrere le tappe di una delle più brillanti carriere di stilista e designer. Dopo l’apertura del suo primo negozio a Milano, nel 1967, per Elio Fiorucci la strada segnata fu quella del successo che arrivò soprattutto negli anni Settanta con l’apertura del Fiorucci Store di New York, disegnato da Ettore Sottsass e Andrea Branzi, e che diventò il luogo cult dell’incontro degli intellettuali newyorchesi, Andy Warhol in testa. Sono gli anni in cui nel cuore di Manhattan si inaugura lo Studio 54 dove si ritrova il jet set internazionale e Fiorucci ne organizza il Grande Opening. Seguiranno i negozi di Los Angeles, il successo planetario dei jeans Fiorucci, negli anni Ottanta (nel 1990 il marchio sarà ceduto ai giapponesi) e la stagione delle T-Art, le T-shirt ispirate ad immagini tenere e fiabesche. Ma, paradossalmente, il Fiorucci migliore arriva nel 2003 con “Love Therapy” il suo nuovo marchio, connotato dai un nanetto, con cui lo stilista firma felpe, jeans, abiti e accessori all’insegna di un progetto filosofico che mette al centro l’amore come paradigma di una nuova palingenesi sociale. Meta troppo ambiziosa? «Può darsi - ammette Fiorucci , sorridendo sornione -, ma ho sempre pensato che qualunque attività commerciale o imprenditoriale, anche la più concreta,  debba sempre avere al centro dei valori spirituali profondi che i consumatori sono in grado di percepire a pelle.  Questa base spirituale concorre  a rendere etico il business».
Insomma, per Dostoevskij a salvare il mondo sarà la bellezza, per Lawrence Ferlinghetti la poesia e per Elio Fiorucci l’amore...«Non mi paragono a questi grandi personaggi, però mi chiedo: tra bellezza, poesia e amore la differenza è poi così rilevante?  Tendo piuttosto a vederle come forme espressive dell’armonia Non credo nella separazione tra estetica ed etica, nemmeno nella moda che, a torto, viene spesso giudicata sbrigativamente come qualcosa solo di frivolo e superficiale».
Anche quando si tratta di un semplice jeans o di una felpa?«Decisamente, essendo questi oggetti di grande diffusione e, come tali, assai utili a veicolare messaggi o a educare a certi valori. La gente ha molta più sensibilità di quanto si possa immaginare. Rispetto a certi valori sta diventando più reattiva (penso, per esempio, al fenomeno della crescente attenzione per i prodotti cosiddetti “bio”). Ho la convinzione che, al fondo, ci sia oggi un enorme bisogno di recuperare un equilibrio perduto, un’armonia archetipa e originale. E’ da qui che parte Love Therapy».
 Che cosa intende per recupero dell’equilibrio perduto?«Operare, in ogni settore e stadio della vita e della società, perché prevalga il bene. Il bene deve essere sentito come vocazione umana, indipendentemente dai singoli fenomeni religiosi che, spesso, si sono allontanati dalla purezza originaria. Si tratta ovviamente di sottoporre a rivoluzione anche un modello sociale di sviluppo e consumo come quello attuale, partendo dal concetto che il benessere di ognuno di noi non dipende solo da quello dell’altro ma soprattutto dall’equilibrio con la natura e con ogni forma di vita. Allora, perché continuare a incoraggiare e foraggiare, con i nostri consumi, un modello che sfrutta gli animali? Il consumo di carne nella civiltà contadina era, oltre che contenuto, legato a cicli naturali e basato sul rispetto degli animali. L’allevamento intensivo di oggi è, invece, una forma di crudeltà inaccettabile: togliere la dignità ad un animale è un’alterazione grave dell’armonia cosmica. Certo, per arrivare a questa visione delle cose non basta una felpa: occorre un percorso lungo, fatto di tempo e meditazione. Sono convinto che il vero lusso del Terzo Millennio consisterà sempre più nell’avere tempo disponibile per compiere questi percorsi».
Lei quindi è vegetariano...«Lo sono diventato, ma non mi piacciono comunque gli estremismi: l’importante non è mangiare o non mangiare carne, ma rispettare il ciclo naturale delle cose. E poi, in fatto di cibo, ho gusti assai semplici: la pasta e fagioli, gli spaghetti pomodoro e basilico. Adoro la frutta, in particolare le pesche e, soprattutto, i fichi che mi ricordano la mia infanzia in campagna».
Il vino?«Toglie la malinconia: bianco o rosso va bene comunque ma amo poco le bollicine».
Lei è considerato uno dei maggiori designer e stilista al mondo. Che cos’è la creatività?«Certamente non è mai solitudine. Ho sempre diffidato di chi dice “io”, di chi cioè pensa di essere lui ad inventare davvero qualcosa. La creatività ha sempre una radice nel sapere dell’altro, è il miglioramento di qualcosa che c’è già».
 Però senza la sua intuizione di mettere la Lycra nel Denim,  i jeans non sarebbero stati gli stessi...«Grazie, ma forse non sarei arrivato lì se prima non ci fosse stata Mary Quant con le sue minigonne. Quando ho pensato ad un prodotto per valorizzare il sedere delle donne, ho potuto farlo solo perché prima c’era stata una rivoluzione culturale che aveva liberato il corpo da certe ipocrisie borghesi».
E’ stata la rivoluzione che ha caratterizzato anche la Pop Art...«Se ci penso, ho avuto una vita fortunata. Sono stato amico di Andy Warhol e di Keith Haring. Warhol adorava lo stile Fiorucci ed io gli sono, in definitiva, debitore del mio amore per i colori. Fu Andy, una volta, a farmi riflettere sul fatto che la contemporaneità, con le sue luci al neon che illuminavano New York a giorno anche durante la notte, aveva messo fine per sempre ad un mondo solo in bianco e nero».
Lei ha parlato di amore, di equilibrio cosmico, di  bene. E’ credente?«Sono nato in una casa di liberi pensatori e tale mi ritengo. Però, quando osservo il nocciolo di una pesca e rifletto sul fatto che dentro quel piccolo cosino c’è già tutto l’albero in potenza con i suoi fiori, i suoi frutti, i suoi profumi, e che per crescere esso non ha bisogno solo della terra ma anche del sole, allora mi sorprendo a pensare che ogni essere vivente porta in sè un mistero che sorpassa la materia».

Giovanni Orso

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