Vini che raccontano il Biellese
VIGLIANO BIELLESE - C’è un rapporto complesso e profondo tra un vino e il territorio in cui nasce. E’ un legame innanzitutto fisico, con il suolo, la luce, il calore, l’acqua, tutti gli elementi che la vite assorbe e trasmette all’uva: e ogni loro peculiare combinazione, interagendo con i diversi vitigni, rende ciascun vino unico e diverso. Una interazione complessa, che include anche l’apporto umano, il modo con cui si interviene nel vigneto e nella cantina, e poi il modo in cui il vino viene conservato, distribuito, consumato. E’ il concetto di terroir che oggi, con le Igp (Indicazioni Geografiche Protette), viene esteso ad altri prodotti, come i formaggi, particolarmente legati al luogo di produzione.
Ma non è solo questo: la coltivazione della vigna ha segnato, nei secoli, la storia, l’economia, la stessa vita sociale dei luoghi di produzione. Come nel Biellese che, prima di diventare il distretto tessile che tutti conosciamo, è stato uno dei più rinomati ‘luoghi del vino’ piemontesi, dove per secoli la viticoltura ha svolto un ruolo centrale nell’economia locale e ha modellato lo stesso paesaggio: dalle strade romane attraverso cui il vino veniva trasportato verso le città lombarde, alle colline sagomate dai terrazzamenti, fino a quell’esempio - unico nel suo genere - di ‘cantina collettiva fortificata’ che è il Ricetto di Candelo. Così, abbandonare i vigneti ha significato anche perdere luoghi, paesaggi, abitudini, ritmi, feste e riti popolari, parole, gesti: in una parola, perdere pezzi di cultura, spazzati via dalla industrializzazione che - a partire da fine ‘800 - ha profondamente trasformato, nel bene e nel male, la vita dei biellesi, apportando un certo benessere diffuso ma anche stravolgendo il legame con la loro terra: le fabbriche ‘manchesteriane’ che blindano i corsi d’acqua, le ciminiere a segnare le valli, gli insediamenti che si accalcano attorno ai nuovi centri produttivi, le sirene a segnare tempi e ritmi della vita quotidiana. E le colline, un tempo coperte da filari ordinati di viti, sempre più invase dai boschi incolti, a nascondere alla vista lo scenario spettacolare delle montagne.
E così, recuperare le viti significa anche riannodare i fili di una storia secolare: resuscitare e propagare vecchie piante e vitigni quasi estinti, ma anche riportare alla luce oggetti, luoghi, immagini. E oggi sono tanti, i protagonisti grandi e piccoli di questa “storia ritrovata”: proprietari di ville e castelli che riaprono le antiche cantine, ma anche giovani che recuperano il vigneto abbandonato del nonno, nuovi appassionati che seguono corsi di viticoltura, piccoli produttori che investono, sperimentano, innovano, si propongono al mercato nazionale e non solo. E poi libri, ecomusei, mostre, eventi, convegni, fiere e degustazioni di vini locali. Tante tessere che sembrano comporsi, sempre più numerose, per ricostruire un mosaico complesso e corale, una sorta di grande ‘album di famiglia’ collettivo.
Ma non si tratta di un esercizio nostalgico: dietro, c’è una realtà economica che cresce, per ora ancora piccola ma molto determinata: oltre 400 le aziende vitivinicole, tra cui molti piccoli produttori ma anche realtà ben strutturate e nomi prestigiosi, che vantano vini pluripremiati ed apprezzati nel mondo. E tutti hanno un tratto in comune: credono nella qualità dei loro vini e nelle potenzialità della viticoltura locale, e sono consapevoli dello stretto legame che deve unire un buon vino e la terra che lo produce.
La neonata associazione. Proprio con questo obiettivo, nel maggio 2015 alcuni viticoltori hanno dato vita all’Associazione Vignaioli Colline Biellesi: «L’intento - dice la presidente Silvia Rivetti - è innanzitutto quello di fare squadra, di creare sinergie tra produttori a volte molto piccoli. E poi, insieme, di far conoscere e apprezzare i nostri vini, dentro e fuori dal nostro territorio».
La prima difficoltà, infatti, sembra essere proprio l’immagine “interna” dei nostri vini, poco noti e poco consumati dagli stessi biellesi: non è infatti facile trovarli in commercio, e gli stessi ristoratori raramente li propongono e li valorizzano, preferendo spesso - a parità di prezzo - altri prodotti piemontesi che godono di maggiore popolarità presso il grande pubblico.
Per incrementare la notorietà e l’immagine dei vini locali, il novembre scorso l’associazione ha organizzato - insieme all’Ais, Associazione Italiana Sommeliers - un evento del tutto nuovo nella nostra zona: “Assaggio a Nord Ovest”, due giorni di degustazione esclusivamente dedicati ai vini biellesi di qualità. Oltre ad aver riscosso un apprezzamento unanime di critica e di pubblico, l’iniziativa ha rappresentato per molti vini, finora poco noti al grande pubblico, una sorta di “debutto in società”, un momento di consacrazione ufficiale di quella rinascita della viticoltura locale di cui ultimamente si parla molto e che si è finalmente potuta vedere dal vivo, e soprattutto assaggiare.
L’evento ha rappresentato una tappa importante - tanto che si è deciso di riproporlo, con cadenza annuale - e ha dato impulso all’associazione: «Quello che pochi mesi fa era un ruscello - continua Silvia Rivetti - oggi è quasi un fiume: con 7 nuovi aderenti, della zona dell’Erbaluce, l’associazione conta oggi 15 soci, che rappresentano un po’ tutto il Biellese, e speriamo che cresca ancora. E, tanto per iniziare, saremo presenti con un nostro stand al Vinitaly di Verona, dal 10 al 13 aprile».
Una nuova Doc?. E intanto si pensa ad una nuova Doc: «E’ uno dei tanti progetti, ed è ancora tutto da definire: ottenere una denominazione che rappresenti e caratterizzi al meglio la produzione biellese nel suo insieme, dall’area orientale dei Nebbioli fino alla zona occidentale dell’Erbaluce. Il nostro obiettivo è quello di dare ai vini biellesi una identità e un valore legati al territorio: perché il vino è l’espressione della terra dove viviamo, è la lingua stessa di un luogo: e dunque non c’è nulla come un ottimo vino per raccontare al mondo un territorio, la sua storia, la sua cultura, la sua gente»
«E’ un obiettivo ambizioso, che può rappresentare una fortissima leva di promozione per il Biellese - conclude la presidente dell’associazione - ma si sta a poco a poco realizzando: il primo passo è infatti quello di crederci, non solo da parte dei produttori ma di tutto il contesto attorno a noi: credere che il vino possa tornare a rappresentare uno dei nostri punti di forza, insieme al tessile, alla gastronomia, alle montagne, al paesaggio. Lo hanno fatto, benissimo, nel sud del Piemonte, partendo praticamente da zero. Noi non partiamo da zero, abbiamo una terra che pullula di eccellenze, forse dobbiamo solo riuscire a superare la nostra endemica ritrosia, che ci impedisce di esserne orgogliosi e di proporle all’esterno».
Simona Perolo
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VIGLIANO BIELLESE - C’è un rapporto complesso e profondo tra un vino e il territorio in cui nasce. E’ un legame innanzitutto fisico, con il suolo, la luce, il calore, l’acqua, tutti gli elementi che la vite assorbe e trasmette all’uva: e ogni loro peculiare combinazione, interagendo con i diversi vitigni, rende ciascun vino unico e diverso. Una interazione complessa, che include anche l’apporto umano, il modo con cui si interviene nel vigneto e nella cantina, e poi il modo in cui il vino viene conservato, distribuito, consumato. E’ il concetto di terroir che oggi, con le Igp (Indicazioni Geografiche Protette), viene esteso ad altri prodotti, come i formaggi, particolarmente legati al luogo di produzione.
Ma non è solo questo: la coltivazione della vigna ha segnato, nei secoli, la storia, l’economia, la stessa vita sociale dei luoghi di produzione. Come nel Biellese che, prima di diventare il distretto tessile che tutti conosciamo, è stato uno dei più rinomati ‘luoghi del vino’ piemontesi, dove per secoli la viticoltura ha svolto un ruolo centrale nell’economia locale e ha modellato lo stesso paesaggio: dalle strade romane attraverso cui il vino veniva trasportato verso le città lombarde, alle colline sagomate dai terrazzamenti, fino a quell’esempio - unico nel suo genere - di ‘cantina collettiva fortificata’ che è il Ricetto di Candelo. Così, abbandonare i vigneti ha significato anche perdere luoghi, paesaggi, abitudini, ritmi, feste e riti popolari, parole, gesti: in una parola, perdere pezzi di cultura, spazzati via dalla industrializzazione che - a partire da fine ‘800 - ha profondamente trasformato, nel bene e nel male, la vita dei biellesi, apportando un certo benessere diffuso ma anche stravolgendo il legame con la loro terra: le fabbriche ‘manchesteriane’ che blindano i corsi d’acqua, le ciminiere a segnare le valli, gli insediamenti che si accalcano attorno ai nuovi centri produttivi, le sirene a segnare tempi e ritmi della vita quotidiana. E le colline, un tempo coperte da filari ordinati di viti, sempre più invase dai boschi incolti, a nascondere alla vista lo scenario spettacolare delle montagne.
E così, recuperare le viti significa anche riannodare i fili di una storia secolare: resuscitare e propagare vecchie piante e vitigni quasi estinti, ma anche riportare alla luce oggetti, luoghi, immagini. E oggi sono tanti, i protagonisti grandi e piccoli di questa “storia ritrovata”: proprietari di ville e castelli che riaprono le antiche cantine, ma anche giovani che recuperano il vigneto abbandonato del nonno, nuovi appassionati che seguono corsi di viticoltura, piccoli produttori che investono, sperimentano, innovano, si propongono al mercato nazionale e non solo. E poi libri, ecomusei, mostre, eventi, convegni, fiere e degustazioni di vini locali. Tante tessere che sembrano comporsi, sempre più numerose, per ricostruire un mosaico complesso e corale, una sorta di grande ‘album di famiglia’ collettivo.
Ma non si tratta di un esercizio nostalgico: dietro, c’è una realtà economica che cresce, per ora ancora piccola ma molto determinata: oltre 400 le aziende vitivinicole, tra cui molti piccoli produttori ma anche realtà ben strutturate e nomi prestigiosi, che vantano vini pluripremiati ed apprezzati nel mondo. E tutti hanno un tratto in comune: credono nella qualità dei loro vini e nelle potenzialità della viticoltura locale, e sono consapevoli dello stretto legame che deve unire un buon vino e la terra che lo produce.
La neonata associazione. Proprio con questo obiettivo, nel maggio 2015 alcuni viticoltori hanno dato vita all’Associazione Vignaioli Colline Biellesi: «L’intento - dice la presidente Silvia Rivetti - è innanzitutto quello di fare squadra, di creare sinergie tra produttori a volte molto piccoli. E poi, insieme, di far conoscere e apprezzare i nostri vini, dentro e fuori dal nostro territorio».
La prima difficoltà, infatti, sembra essere proprio l’immagine “interna” dei nostri vini, poco noti e poco consumati dagli stessi biellesi: non è infatti facile trovarli in commercio, e gli stessi ristoratori raramente li propongono e li valorizzano, preferendo spesso - a parità di prezzo - altri prodotti piemontesi che godono di maggiore popolarità presso il grande pubblico.
Per incrementare la notorietà e l’immagine dei vini locali, il novembre scorso l’associazione ha organizzato - insieme all’Ais, Associazione Italiana Sommeliers - un evento del tutto nuovo nella nostra zona: “Assaggio a Nord Ovest”, due giorni di degustazione esclusivamente dedicati ai vini biellesi di qualità. Oltre ad aver riscosso un apprezzamento unanime di critica e di pubblico, l’iniziativa ha rappresentato per molti vini, finora poco noti al grande pubblico, una sorta di “debutto in società”, un momento di consacrazione ufficiale di quella rinascita della viticoltura locale di cui ultimamente si parla molto e che si è finalmente potuta vedere dal vivo, e soprattutto assaggiare.
L’evento ha rappresentato una tappa importante - tanto che si è deciso di riproporlo, con cadenza annuale - e ha dato impulso all’associazione: «Quello che pochi mesi fa era un ruscello - continua Silvia Rivetti - oggi è quasi un fiume: con 7 nuovi aderenti, della zona dell’Erbaluce, l’associazione conta oggi 15 soci, che rappresentano un po’ tutto il Biellese, e speriamo che cresca ancora. E, tanto per iniziare, saremo presenti con un nostro stand al Vinitaly di Verona, dal 10 al 13 aprile».
Una nuova Doc?. E intanto si pensa ad una nuova Doc: «E’ uno dei tanti progetti, ed è ancora tutto da definire: ottenere una denominazione che rappresenti e caratterizzi al meglio la produzione biellese nel suo insieme, dall’area orientale dei Nebbioli fino alla zona occidentale dell’Erbaluce. Il nostro obiettivo è quello di dare ai vini biellesi una identità e un valore legati al territorio: perché il vino è l’espressione della terra dove viviamo, è la lingua stessa di un luogo: e dunque non c’è nulla come un ottimo vino per raccontare al mondo un territorio, la sua storia, la sua cultura, la sua gente»
«E’ un obiettivo ambizioso, che può rappresentare una fortissima leva di promozione per il Biellese - conclude la presidente dell’associazione - ma si sta a poco a poco realizzando: il primo passo è infatti quello di crederci, non solo da parte dei produttori ma di tutto il contesto attorno a noi: credere che il vino possa tornare a rappresentare uno dei nostri punti di forza, insieme al tessile, alla gastronomia, alle montagne, al paesaggio. Lo hanno fatto, benissimo, nel sud del Piemonte, partendo praticamente da zero. Noi non partiamo da zero, abbiamo una terra che pullula di eccellenze, forse dobbiamo solo riuscire a superare la nostra endemica ritrosia, che ci impedisce di esserne orgogliosi e di proporle all’esterno».
Simona Perolo
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