Noi? Idee e soldi

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(19 ago) In questi giorni si gode il fresco a Quittengo, nella casa della nonna materna. Fino a poco tempo fa, invece, viveva a Milano, dal lunedì al venerdì, mentre presto lo dovrà fare a Torino, per lavoro. Da anni ritorna in città nei fine settimana, quando dimora al Piazzo. Da sempre è comunque cittadina del mondo, per i suoi studi e le sue ricerche di scienziata in campo medico. Silvia Marsoni è stata il primo presidente della Provincia di Biella, nel 1995. Presidente un po’ per caso...

Che esperienza fu?
«Straordinaria. Si lavorava con la sensazione di vivere un momento unico e irripetibile. Credevamo di poter fare qualcosa di importante per i cittadini che ci avevano eletto». In questi giorni si gode il fresco a Quittengo, nella casa della nonna materna. Fino a poco tempo fa, invece, viveva a Milano, dal lunedì al venerdì, mentre presto lo dovrà fare a Torino, per lavoro. Da anni ritorna in città nei fine settimana, quando dimora al Piazzo. Da sempre è comunque cittadina del mondo, per i suoi studi e le sue ricerche di scienziata in campo medico. Silvia Marsoni è stata il primo presidente della Provincia di Biella, nel 1995. Presidente un po’ per caso...

Che esperienza fu?
«Straordinaria. Si lavorava con la sensazione di vivere un momento unico e irripetibile. Credevamo di poter fare qualcosa di importante per i cittadini che ci avevano eletto».

E ci siete riusciti?
«Solo in parte. Pagammo uno scotto non da poco».

Quale?
«Che c’era tutto da fare. Mancava il personale, i computer, la sede. Un’impresa enorme che richiese altrettante risorse di tempo e di denaro. Denaro che devo ammettere, all’epoca, per fortuna avevamo».

Cinque anni sono lunghi.
«Intanto ho governato per quattro. E poi in politica non sono molti... Facemmo comunque diverse cose. I progetti del “Maghetto”, del “Maghettone” e di altre vie di comunicazione furono pensati proprio allora».

C’è chi racconta aneddoti gustosi su quei primi mesi.
«Sicuro. Il primo consiglio lo facemmo sedendoci per terra. Poi le sedie le procurò mio marito, per un po’, prelevandole da palazzo La Marmora, dove però nei fine settimana servivano per i matrimoni».

Altro?
«Assumemmo un centinaio di persone. Ricordo i concorsi nelle scuole e nei cinema. Ecco: sembrava di vivere in una sorta di “Camelot” del nostro territorio, che all’epoca non aveva i problemi di oggi».

Appunto. In passato si sognava, investiva e realizzava: università, musei, aeroporto e la tanto attesa Provincia. E’ questione di classe dirigente?
«Non spetta a me dirlo. Io ho dato il mio contributo. Ero una prestata alla politica».

L’istituzione Provincia fu una ciliegia sulla torta di un territorio florido, con tassi di disoccupazione vicini allo zero. Oggi la sua possibile soppressione non suona come un colpo di grazia per un distretto in sofferenza?
«Può darsi».

Allora, invece...
«La Provincia non fu la targa sulle auto, ma la logica conseguenza di un processo storico, culturale ed economico che aveva radici lontane. Ero e sono una scienziata. All’epoca studiai il modello statale tedesco (federale) e francese (centralista). Credo che entrambi abbiano pregi e difetti. Ma soprattutto penso siano sempre e solo gli uomini a fare la differenza».

Segue il dibattito sulle Province?
«Sì, stancamente».

Perché?
«Perché tutto mi pare casuale. Quali sono le ragioni per cui dovremmo andare con Novara e non con Vercelli? Quali i criteri? Sono abituata a lavorare con i numeri, con l’esattezza delle cifre. In questo dibattito non ne vedo. Tutto mi sembra fatto a colpi d’ascia. O meglio ancora: con il righello, come facevano i colonialisti europei in Africa, disegnando Stati sulla carta senza rispettare omogeneità economiche e culturali. Il Biellese ha una storia di autonomia vecchia di secoli. Un forza economica e industriale specifica. Ecco allora che dico sì al confronto politico e no all’improvvisazione».

Scusi il catastrofismo. Lei è stata presidente di un territorio considerato (ancora) una “piccola Svizzera”. Domani senza Provincia rischiamo di essere una periferia dell’impero?
«Non lo credo. Anzi vedo in questa crisi una spinta a “ripensare” ancora una volta la nostra comunità. Nel lavoro i biellesi sono sempre stati all’avanguardia. I primi a capire la portata della rivoluzione industriale, a fondare il sindacato, ad inventare le nicchie di lusso, ad introdurre il “just in time”. E comunque già allora - gli ultimi anni del Novecento - i primi segni di un cambiamento si potevano leggere. Ricordo dati impressionanti sul tasso dei suicidi e sull’uso di droghe pesanti ed alcol tra i giovani. La generazione che aveva vent’anni negli anni Novanta nelle nostre valli, fu investita da cambiamenti epocali. E del resto questo accadeva in tutto il mondo. Rammento nel 1999 un viaggio a San Francisco, dove contemporaneamente vidi due cose che mi diedero uno scossone: una mostra sul tessile con tessuti d’avanguardia che coniugavano materiali rivoluzionari, bellezza e nuove tecniche di lavorazione, ed una massa di giovani sotto i 30 anni che stava facendo miliardi con le biotecnologie e l’informatica. Nessuno di loro avrebbe mai desiderato un capospalla in cachemire. Pensai che il mondo come lo avevamo conosciuto noi, nati dopo la guerra, stava per subire una profonda trasformazione».

Interessante e quindi?
«In questi anni siamo stati travolti. Col senno di poi è facile vederlo e anche assegnare responsabilità, e non solo ai politici. Ma cercare le colpe serve a poco. E’ più costruttivo indagare le cause e lavorare insieme per capire cosa fare. Ho grandi speranze nelle risorse del territorio, nell’intelligenza della sua classe dirigente e nella tenacia della sua gente. I biellesi sono come l’araba fenice, sempre risorgono. Anche questa volta ce la faremo se avremo l’intelligenza di capire ed il coraggio di cambiare».

Perché politica per caso?
«Perché fui chiamata per perdere... Certo con onore. Serviva una faccia rispettabile con un buon curriculum».

19 agosto 2011

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