Mimmo Candito: «Raccontare la guerra è sempre più duro»

Mimmo Candito: «Raccontare la guerra è sempre più duro»
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BIELLA - E’ quasi un grido d’allarme. Una richiesta di aiuto. No, meglio: un appello alla società moderna. A leggere, per diventare consapevole. Per imparare a conoscere quel che si nasconde dietro i veli. E, sulla base di questa nuova coscienza, a pretendere qualità. In una parola: la verità.Mimmo Candito, firma di punta del quotidiano La Stampa, inviato speciale, corrispondente di guerra dal lungo e prestigioso curriculum, si rivolge a tutti con questo non troppo nascosto fine nel libro che oggi - alle 18 alla libreria Giovannacci di via Italia - sarà presentato al pubblico biellese. Un testo corposo, ma liquido. Capace di scorrere veloce tra le pieghe di una realtà che appartiene a tutti, e della quale tutti dovrebbero sentire il bisogno di sapere qualcosa. Di saperne di più. “(C’erano) I reporter di guerra: storie di un giornalismo in crisi, da Hemingway ai social network” (Baldini &Castoldi editore, 766 pagine) è qualcosa in più di un excursus storico. Più di un compendio. Più del diario di una vita, pure ricca e sfaccettata come quella che Mimmo Candito porta nel cassetto. Dalle pagine trasuda semmai, proprio grazie ai percorsi nella storia, una vera e propria rivendicazione: quella del senso di un mestiere che i tempi moderni, inquinati da miti poco inclini all’indagine giornalistica, al rispetto dei tempi, al bisogno di approfondimento, hanno contribuito a dissolvere e trasformare. Sino a renderlo specie a rischio, come lo stesso Candito sottolinea descrivendo l’identità di una reporter che «vive con la consapevolezza di una possibile sconfitta il suo necessitato rapprorto con la lettura del mondo. E la rappresentazione che propone al lettore/spettatore/ascoltatore  rischia di piegarsi in modo irreversibile ai compiacimenti che gli sono richiesti dal suo nuovo dovere di comunicare, non con un pubblico comsapevole, ma con una massa, indifferente di consumatori».E’ dunque anche un atto di accusa verso un pubblico sempre meno esigente, sempre più piegato alle volontà dei “palazzi”, sempre più indifferente, a risuonare tra le pagine. Un viaggio tra la storia e la controstoria, i retroscena non noti al grande pubblico, ma essenziali per comprendere il corso della realtà: questo Candito propone senza troppi edulcoranti al palato dei lettori, lasciandoli soli davanti alla coscienza di una società sempre meno capace di esigere qualità nell’informazione. Sempre più schiava dei poteri. «Oggi il mercato impone una scelta anomala della realtà - scrive il giornalista -: la velocità della comunicazione è indifferente al progetto della conoscenza. la qualità dell’informazione, dunque, e la sua attendibilità non sono più i termini di giudizio per il direttore di un giornale o di un telegiornale. E’ altro ciò che conta. L’informazione - mostrano di credere quei direttori che cedono - deve innanzitutto o divertire o emozionare. Quell’ibrido mostruoso si chiama “infotainment”, è la bara del giornalismo». Ecco, dunque, la disillusione.  E mentre «i processi evolutivi della comunicazione rendono sempre più difficile l’esercizio di ogni forma di autonomia», con «l’egemonia dell’immagine che va cancellando il ruolo e la stessa identità della stampa quotidiana, in una deriva che i social network fanno precipitare verso la non rilevanza, accantonandone il consumo in quote sempre più minoritarie della società», «la velocità condiziona ormai ogni forma di comunicazione giornalistica, privilegiando l’immediatezza e ignorando le ragioni di una verifica del “fatto” prima che questo venga trasformato in “notizia”». Con un risultato drammatico. Tragico. La morte della verità. «Perché la verità non mai nell’apparenza ma impone invece lavoro, ricerca, tempo». 
E allora, quale mezzo migliore per tentare un risveglio delle coscienze, se non raccontare proprio quel che i reporter di guerra hanno affrontato, e affrontano ancora, per difendere la loro professione? «Questo libro nasce dal desiderio di lottare contro questa impotenza - scrive Candito - di difendere le ragioni di un  mestiere che trova la propria identità nel diritto della testimonianza diretta e consapevole, del contatto ricercato e approfondito con la realtà che si vuole raccontare». «Il giornalista - è l’amara sintesi - o conserva quel desiderio oppure è una figura destinata a perdersi nel dagherrotipo di un mondo che le nuove tecnologie hanno divorato».Veronica Balocco

BIELLA - E’ quasi un grido d’allarme. Una richiesta di aiuto. No, meglio: un appello alla società moderna. A leggere, per diventare consapevole. Per imparare a conoscere quel che si nasconde dietro i veli. E, sulla base di questa nuova coscienza, a pretendere qualità. In una parola: la verità.Mimmo Candito, firma di punta del quotidiano La Stampa, inviato speciale, corrispondente di guerra dal lungo e prestigioso curriculum, si rivolge a tutti con questo non troppo nascosto fine nel libro che oggi - alle 18 alla libreria Giovannacci di via Italia - sarà presentato al pubblico biellese. Un testo corposo, ma liquido. Capace di scorrere veloce tra le pieghe di una realtà che appartiene a tutti, e della quale tutti dovrebbero sentire il bisogno di sapere qualcosa. Di saperne di più. “(C’erano) I reporter di guerra: storie di un giornalismo in crisi, da Hemingway ai social network” (Baldini &Castoldi editore, 766 pagine) è qualcosa in più di un excursus storico. Più di un compendio. Più del diario di una vita, pure ricca e sfaccettata come quella che Mimmo Candito porta nel cassetto. Dalle pagine trasuda semmai, proprio grazie ai percorsi nella storia, una vera e propria rivendicazione: quella del senso di un mestiere che i tempi moderni, inquinati da miti poco inclini all’indagine giornalistica, al rispetto dei tempi, al bisogno di approfondimento, hanno contribuito a dissolvere e trasformare. Sino a renderlo specie a rischio, come lo stesso Candito sottolinea descrivendo l’identità di una reporter che «vive con la consapevolezza di una possibile sconfitta il suo necessitato rapprorto con la lettura del mondo. E la rappresentazione che propone al lettore/spettatore/ascoltatore  rischia di piegarsi in modo irreversibile ai compiacimenti che gli sono richiesti dal suo nuovo dovere di comunicare, non con un pubblico comsapevole, ma con una massa, indifferente di consumatori».E’ dunque anche un atto di accusa verso un pubblico sempre meno esigente, sempre più piegato alle volontà dei “palazzi”, sempre più indifferente, a risuonare tra le pagine. Un viaggio tra la storia e la controstoria, i retroscena non noti al grande pubblico, ma essenziali per comprendere il corso della realtà: questo Candito propone senza troppi edulcoranti al palato dei lettori, lasciandoli soli davanti alla coscienza di una società sempre meno capace di esigere qualità nell’informazione. Sempre più schiava dei poteri. «Oggi il mercato impone una scelta anomala della realtà - scrive il giornalista -: la velocità della comunicazione è indifferente al progetto della conoscenza. la qualità dell’informazione, dunque, e la sua attendibilità non sono più i termini di giudizio per il direttore di un giornale o di un telegiornale. E’ altro ciò che conta. L’informazione - mostrano di credere quei direttori che cedono - deve innanzitutto o divertire o emozionare. Quell’ibrido mostruoso si chiama “infotainment”, è la bara del giornalismo». Ecco, dunque, la disillusione.  E mentre «i processi evolutivi della comunicazione rendono sempre più difficile l’esercizio di ogni forma di autonomia», con «l’egemonia dell’immagine che va cancellando il ruolo e la stessa identità della stampa quotidiana, in una deriva che i social network fanno precipitare verso la non rilevanza, accantonandone il consumo in quote sempre più minoritarie della società», «la velocità condiziona ormai ogni forma di comunicazione giornalistica, privilegiando l’immediatezza e ignorando le ragioni di una verifica del “fatto” prima che questo venga trasformato in “notizia”». Con un risultato drammatico. Tragico. La morte della verità. «Perché la verità non mai nell’apparenza ma impone invece lavoro, ricerca, tempo». 
E allora, quale mezzo migliore per tentare un risveglio delle coscienze, se non raccontare proprio quel che i reporter di guerra hanno affrontato, e affrontano ancora, per difendere la loro professione? «Questo libro nasce dal desiderio di lottare contro questa impotenza - scrive Candito - di difendere le ragioni di un  mestiere che trova la propria identità nel diritto della testimonianza diretta e consapevole, del contatto ricercato e approfondito con la realtà che si vuole raccontare». «Il giornalista - è l’amara sintesi - o conserva quel desiderio oppure è una figura destinata a perdersi nel dagherrotipo di un mondo che le nuove tecnologie hanno divorato».Veronica Balocco

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