"Grazie all'Italia, ma non a chi ci gestisce"

"Grazie all'Italia, ma non a chi ci gestisce"
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Ci sono verità che sono sfere. E ci sono verità che sono dodecaedri. Facce su facce, su facce e ancora su facce, che non danno mai una visione d’insieme della figura che compongono. E rendono impossibile capire dove stia il baricentro del reale. Per non parlare, ma qui le pretese sarebbero eccessive, di individuare anche la formula del giusto. Trovare uno di questi poligoni è facile. Prendete una strada qualunque. La più anonima. Ad esempio, quella che da Pray porta a Curino seguendo un filo stretto e contorto d’asfalto. Vegetazione. Quasi nessuno in giro. Uno di quei posti “fuori dal mondo” che conta le sue ultime case all’incontro con la provinciale per Borgosesia, prima di perdersi nel verde. Un distributore, qualche abitazione, macchine che sfrecciano in velocità. E poi lì, al numero 41 di via Curino, ancora in territorio di Pray, una casa bianca. Due piani di persiane in legno scuro e bucato steso. Lenzuola, asciugamani. Vestiti  quasi ovunque. Segno che ci sta parecchia gente, anche se  l’edificio non è poi così grande. Non fosse per la quantità di vita che pende dai balconi, sarebbe difficile capire che questa è la casa degli immigrati. Uno dei punti biellesi di raccolta di quei profughi arrivati dal mare e finiti sotto il fuoco incrociato della politica e dell’opinione pubblica.

Sono in ventisei. Molti più di quanti questa casa possa ospitare. Vivono in appartamenti trasformati in dormitori, ricoveri da caserma privi di riservatezza e abitati da una totale promiscuità. Così ha voluto la legge, nel momento in cui ha affidato un tal numero di migranti alla cooperativa che li gestisce - “La Nuvola” di Torino - senza forse verificare appieno le disponibilità di spazio nella casa che aveva affittato a Pray. Le differenze si respirano ovunque. Nella lingua, che mischia inglese, francese, pakistano e dialetti africani senza grandi possibilità di dialogo, ma anche nelle nazionalità. «Vengo dal Mali», spiega Magi, 27 anni. E’ uno dei primi ad uscire dalla casa, quando si sparge la voce che fuori c’è qualcuno della stampa. Lo chiama un connazionale che parla poco francese e che risponde quasi con timore. Ma Magi invece di cose ne ha da dire. «Non si sta male qui - spiega -. Mangiamo bene, ci viene dato tutto quello di cui abbiamo bisogno. Io son già felice di aver lasciato una terra dove rischiavo di morire per via degli scontri. Non potevo più stare là, anche se avevo un lavoro nel campo delle costruzioni e le possibilità di impiego non mancano. Ho fatto un viaggio molto duro prima di arrivare qui, passando per il Niger, la Libia e poi Lampedusa. Mia moglie e i bambini sono rimasti in Niger, e io sono venuto qui sperando in un futuro migliore». Ma non si nasconde dietro un dito: «L’unico problema - spiega senza però insistere troppo - è che non riceviamo i soldi cui avremmo diritto». Letto, sedia, water e cibo sono garantiti dalla convenzione che lo Stato ha stipulato con la cooperativa. Il resto sta al buon cuore del territorio. Quanto ai soldi, i 2 euro e 50 al giorno previsti dalla legge, dovrebbero essere versati dalla onlus direttamente ai ragazzi. Ma finora non si è visto nulla.  «Noi riusciamo ad offrire generi di conforto - spiega il sindaco Gian Matteo Passuello - anche grazie alla disponibilità di alcuni volontari che ci danno una mano. Stiamo anche facendo partire due nuovi corsi di italiano. Ma tutto questo non basta: il problema dei soldi è molto sentito, e sta creando parecchie tensioni. Non lo nascondo: sono molto preoccupato».

L’operatore della cooperativa, un giovane che passa qui tutta la sua giornata cercando di rispondere al meglio alle esigenze degli ospiti, ritrae però una situazione completamente diversa. «I ragazzi stanno benissimo, non hanno alcun problema. So che in altri posti ci sono state proteste, ma qui la situazione è assolutamente sotto controllo. Non hanno mai fatto nulla di male, anzi. Sono anche ben integrati in paese». Con lui i migranti vanno d’accordo, ne parlano come di un ragazzo «molto in gamba, come del resto tutti gli operatori». Ma quanto la sua versione sia ispirata dalla necessità di mantenere calme le acque è difficile dirlo: «Molte delle cose che leggo sui giornali - afferma - sono frutto di invenzione. Le cose non stanno come alcuni vogliono far credere». Eppure, le istituzioni restano in guardia. «Non ho ricevuto alcuna segnalazione ufficiale di problemi di convivenza - chiarisce il primo cittadino di Pray -, ma ogni giorno mi arrivano telefonate di gente preoccupata. Questi ragazzi non hanno nulla da fare tutto il giorno, e quindi vagano per il paese. La gente li trova ovunque, dagli angoli delle strade ai giardini pubblici. E molti non sono contenti di questa situazione».

Sylvester, 31 anni, nigeriano dall’inglese fluente, conferma. «La gente del posto? Con alcuni ci sono ottimi rapporti, ci aiutano e ci offrono anche vestiti. Ma non piacciamo a tutti. E lo sappiamo». E’ chiaro che questo ragazzo gode di una certa autorevolezza nel gruppo, almeno tra i conterranei africani. Non appena l’operatore si allontana, è lui che chiamano ad intervenire. Perché dica quel che forse non si poteva dire poco fa. «No, non stiamo bene qui - chiarisce subito Sylvester, senza esitazione -. Non ce l’abbiamo con la popolazione, anzi. Né con questo paese. L’Italia ci piace, perché in fondo siamo venuti qui con l’intento di rimanerci, ricevendo asilo e, un domani, potendo anche lavorare. Ce l’abbiamo invece con l’organizzazione che ci gestisce. E’ evidente che l’accoglienza di profughi non è il loro lavoro: non sono preparati per affrontare i problemi, non si interessano di noi, non ci danno ciò cui avremmo diritto». Il problema del “pocket money” torna a farsi vivo: «Con quei soldi potremmo almeno fare qualche cosa, prendere un autobus per andare a vedere Biella o comprare qualcosa per noi. Invece non ci danno nulla. Noi siamo qui dal 25 luglio e non sappiamo quando vedremo quel che ci spetta. Nessuno ci dice nulla, anzi, pare addirittura che ci venga richiesto un conto bancario per ricevere i versamenti. Ma come possiamo avere diritto a un conto? Eppure, se facciamo presente il nostro disagio veniamo completamente trascurati». Ma anche il persistente ozio finisce per essere fonte di malessere: «Non abbiamo nulla da fare tutto il giorno - chiarisce il giovane -. Giriamo per il paese, andiamo in bici. Ma passare così il tempo è dura».

Se le verità fossero tutte sfere, certamente la soluzione sarebbe già arrivata. Ma ci sono verità che sono sfaccettature, nelle quali ognuno dice la sua e delle quali è difficile arrivare all’essenza. «E’ una situazione che evidentemente non può durare a lungo - chiude il sindaco Passuello -. Il pericolo è che prima o poi accada qualche problema serio». Ecco. In via Curino regna uno dei tanti poligoni di questa società. Ma chi possa essere in grado di trovare l’equazione che lo risolva, in assenza di risposte chiare dallo Stato, resta difficile dirlo.
Veronica Balocco 

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