"Giustizia per salvare i miei figli"

"Giustizia <BR>per salvare i miei figli"
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Luca Ciscato è un uomo che non t’aspetti. Che ti sorprende. La cui forza, intelligenza e saggezza lasciano a bocca aperta. Forse è questione di pregiudizi i niziali. Magari perché porta l’orecchino e nonostante i suoi quarant’anni suonati mantiene l’aria da eterno ragazzo e da centauro della strada. Ma lasciatelo parlare della sua storia e resterete senza parole.

I fatti. Nelle scorse settimane la Cassazione ha confermato la condanna all’uomo che nel 2009 travolse con il suo furgoncino la moglie. Moreno Curnis era ubriaco. E per Stefania Valle non ci fu niente da fare. Colpita in pieno, fu scaraventata giù da un ponte. Morì sul colpo. Ora il falegname di Caprile si trova in carcere a Vercelli, con una condanna definitiva a 7 anni, che rappresenta qualcosa di raro, se non unico, per casi analoghi in giro per l’Italia. E ora? «La mia battaglia è conclusa - racconta Ciscato, 45 anni, dalla cucina di casa sua in regione Vignole, a Crevacuore, dove fa bella mostra un frigorifero di ultima generazione -. Io non cercavo vendette. Voleo giustizia. E credo che qualcosa di simile l’ho ottenuto. L’abbiamo ottenuto. Per come vanno le cose nel nostro Paese, non mi aspettavo una sentenza così chiara e netta. Una lezione, per un uomo che non ha avuto rispetto per la vita umana, per il prossimo. Perché mia moglie non è morta. L’ha uccisa... A Stefania ha strappato la vita, senza pietà. L’ha investita e non s’è fermato per provare a soccorrerla. E’ tornato a casa, a dormire. E non solo. A distanza di quasi tre anni, mai un segnale di presa di coscienza. Una lettera. Una telefonata. Un messaggio di dispiacere, magari attraverso il parroco, il sindaco o chiunque altro. Né da lui né dai suoi familiari». «Questa sentenza non potrà restituire Stefania a tutti noi, ma dà un messaggio: la vita umana ha un valore e lo Stato sta dalla parte delle vittime e non di chi si mette al volante ubriaco - aggiunge l’uomo, la cui bella casa è piena di ricordi, tra foto e oggetti della moglie -. Ora il responsabile della morte di Stefania sta in carcere. Spero che capisca quanti danni ha fatto e quanto dolore ha provocato».

La battaglia. Dopo l’incidente stradale, la cui dinamica è parsa subito chiara a tutti, anche grazie all’ottimo lavoro dei carabinieri della locale stazione, Ciscato ha ingaggiato una vera e propria battaglia per ottenere giustizia. Ha contattato deputati, raccolto firme, partecipato a trasmissioni televisive sulle reti nazionali, rilasciato interviste e mobilitato migliaia di persone. Pure con l’ex ministro della giustizia Angelino Alfano ha avuto un colloquio privato, grazie al sindaco Gianluca Buonanno, a Varallo. L’uomo. «Dovevo farlo. L’avevo giurato a me stesso, nei primi giorni dopo la tragedia - racconta Ciscato, fisico longilineo, tatuaggi sulle braccia e il collo che sbucano fuori dalla maglietta a maniche corte, color azzurro -. E poi se il mio cuore era colmo del dolore per la perdita di Stefania, la mia testa era rivolta ai miei figli: Alessandro e Lorenzo. Dovevo proteggerli. Salvarli dalla tragedia più grande che avrebbe potuto colpirli: la morte della madre». «Tutto quello che ho fatto, con risorse mentali e fisiche che non pensavo di avere, l’ho fatto per loro - spiega Ciscato, autotrasportatore -. Affinché vedessero che potevamo reagire. Che non subivamo la perdita di Stefania passivamente, per mano di uno sconsiderato. No! Noi avremmo lottato. Io dovevo dare il buon esempio. Ero il loro punto di riferimento. Non potevo deluderli, anche perché il rischio era di perderli. Spiegai e mostrai loro che ci saremmo impegnati a dare un senso all’assurdo. Quindi la richiesta di giustizia e di una pena congrua alle responsabilità per un uomo che ci aveva fatto del male. Anche senza Stefania dovevamo restare una famiglia. L’enorme sforzo di questa campagna di informazione e di sensibilizzazione, con tutti i mezzi, giorno dopo giorno, ci ha aiutati. Alla sofferenza si accompagnava un’energia enorme, che incanalavamo per la nostra sete di giustizia. Ho coinvolto i ragazzi, soprattutto con Internet o per i concerti musicali che organizzammo in occasione degli anniversari. Stando attento. Perché presto diventammo un caso. Ricevevamo lettere di appartenenti ad associazioni di vittime della strada, con storie strazianti, forse anche peggiori della nostra... Vicende angoscianti, che non era giusto che i miei ragazzi gestissero». «Sono stati due anni e mezzo duri. Solo ora mi pare ti poter tirare il fiato e di riuscire a mettere un punto sulla vicenda, dopo l’ultima sentenza», spiega Ciscato.

Il futuro. «La mia esposizione mi ha tirato dentro un mondo che non conoscevo, quello delle associazioni di familiari vittime di incidenti - racconta, muovendo le mani affusolate -. Oggi mi chiedono impegni, viaggi, partecipazione a convegni. Sono scettico. Credo di avere diritto, insieme ai miei figli, a rimettere in sesto la mia vita. Lo dico con dispiacere. Perché capisco che un padre che perde il proprio figlio per colpa di un pirata della strada, di cui magari non si conosce neanche il nome, lotterà fino alla fine dei suoi giorni per sapere, per avere giustizia... Queste associazioni chiedono allo Stato, invano, che a chi si mette alla guida ubriaco o drogato e uccide una persona venga riconosciuto l’omicidio preterintenzionale. L’Italia è piena di persone che hanno compiuto stragi e poi non hanno visto un solo giorno di carcere, vivendo magari di fronte ai familiari delle vittime... La nostra vittoria giudiziaria è merito dei miei avvocati, da Marco De Luca ai suoi collaboratori, che hanno puntato sull’omicidio colposo aggravato, anziché chiedere incriminazioni più pesanti, che poi i tribunali di fronte al vuoto legislativo, avrebbero respinto. La documentazione processuale ora la voglio mettere a disposizione di queste associazioni, affinché altri possano avere la giustizia che abbiamo avuto noi».

La solidarietà. «Ho spiegato ai miei figli che dal male può nascere del bene - racconta Ciscato, servizio militare nei paracadutisti, aria sicura, licenza media in tasca -. Dalla tragedia per la morte di Stefania, ho insegnato loro che dovevamo imparare a dare agli altri, dopo che la vita ci aveva tolto... Così abbiamo donato in beneficenza i molti soldi che i residenti ci hanno fatto avere. Abbiamo adottato un bambino africano e siamo impegnati in altre attività sociali. Piccole cose, però utili. Al prossimo e a noi stessi. Questo atteggiamento rientra nella nostra volontà di uscire dal tunnel del lutto, della perdita certo insostituibile di Stefania. Aprirsi al prossimo anziché piegarsi sul proprio dolore fino a restarne schiacciati».

Il paese. I piccoli paesi sanno essere centri di grande solidarietà, ma anche di miserie umane. Ciscato parla chiaro: «Tanti mi hanno sostenuto. Ma presto mi è stato riferito di pettegolezzi e di cattiverie. Tipo? Che mi mettevo in mostra. Che speculavo sulla tragedia. Meschinità dette sempre e solo alle mie spalle, ovviamente. Dopo che gli autisti di Mediaset mi venivano a prendere a casa, con auto molto vistose, qualcuno metteva in giro strane voci». L’uomo alza le spalle, chiudendo l’argomento in fretta, con noia più che fastidio.

I cento passi. Il ponte dove Stefania Valle è stata uccisa dista poche decine di metri dalla casa della famiglia, in una zona con strade strette e curve impegnative. «Ogni volta che passiamo di lì, ci facciamo il segno della croce. Il vuoto resterà sempre, anche se è vero: la vita continua...», dice Ciscato con sguardo fermo. Dal giorno dell’incidente, sul ponte, non mancano mai dei fiori. Giovedì scorso erano rossi.

Paolo La Bua

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