DAGLI USA: EMILIO PASCHETTO

DAGLI USA: EMILIO PASCHETTO
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New York. Dicembre 2011: un mite inverno Newyorkese si presentò finalmente elegante nel giorno dell’Immacolata, coi suoi 5 gradi centigradi illuminati da un sole pulito dal vento. Scrivo di allora perché ricordo che scesi la Fifth Avenue per la prima volta col piumino, mi allungai di 16 isolati dall’ufficio per arrivare alla NYU (New York University) dove Roberto Saviano raccontò il suo vivere New York dopo 6 mesi qui: fu il primo intervento pubblico ufficiale dopo la sua apparizione ufficiosa al fianco del movimento “Occupy Wall Street”.Dall’attualissima hall della NYU scendendo verso l’auditorium, per scale di vetro che ricordano i negozi della Apple trovo una security che pare l’aeroporto JFK, con tanto di metal detector (Saviano è pur sempre uno “sotto scorta”). Puntuale Roberto entra in scena in tandem con l’amico economista Roubini e una moderatrice dalla voce sensuale.

Per i più, a differenza di Mr. Roubini, Saviano non ha bisogno di presentazioni: ha passato 6 mesi qui insegnando tra le mura della NYU, quest’università che funziona da far spavento, che avvolge Washington Square proprio dove nasce la Fifth Avenue, un luogo di ricerca, moderno, luminoso e possente, un’istituzione la cui anima è composta da decine e decine di edifici mimetizzati a sud di Washington Square. Non riassumo il lungo intervento in versione USA di Saviano, ma sintetizzo: il ragazzo ci prende coi numeri, migliaia di miliardi, denaro sporco (criminalità organizzata) che certe banche americane hanno «ripulito» negli ultimi 5 anni infischiandosene di qualunque provenienza e tappandosi orecchie, occhi e bocca al cospetto di capitali dai nove/dieci zeri di provenienza illecita. Saviano ci congeda col suo mantra: «Noi possiamo partecipare al cambiamento considerando che l’omertà si può combattere da New York come da Cosenza. Può diventare più omertoso a New York un funzionario di banca (che ripulendo narco dollari, finge di non sapere), piuttosto che uno del mio paese che non osa parlare per timore di morte». Roberto pare uno di noi, lo osservavo dalla terza fila a 7 metri da me, un ragazzo come tanti, un ricercatore universitario che presenta con energia il suo credo, uno di quegli italiani all’estero che sanno fare bene il proprio mestiere e stupiscono per passione e intensità. Poi una domanda che può solo far riflettere, dal pubblico: «Roberto, cosa hai trovato a New York?». Lui sorridendo con parole semplicissime: «A New York ho trovato una vita normale... New York mi ha dato una vita con meno pressione, in cui il rapporto con l’università, la ricerca, gli studenti e il metodo di insegnamento è diverso, più facile, molto più umano e semplice per com’ero abituato io...» e sorrido pensando che anche la sua vita sotto scorta qui è più leggera, grazie allo smarrimento tra milioni di anime newyorkesi che gli hanno permesso di sentirsi davvero uno di noi, quasi “solo” un ricercatore universitario semplicemente trentenne qui a tenere lezione, come fosse tutto “normale” quando si esce di casa con un solo poliziotto della NYPD in accompagnamento.Uscito dalla conference room ragiono per l’ennesima volta sulle possibilità che Manhattan concede, New York consuma di certo ma offre... se solo io potessi vivere una vita senza sonno, un’esistenza come la vita di Manhattan che non dorme mai, che propone “sempre”, a qualunque ora del giorno (e della notte), in qualunque giorno, e provoca sempre a scegliere “cosa” e “come” osservare.

Emilio Paschetto

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