Chi l’ha detto che le glorie militari nascono solo dalle vittorie, dalle conquiste, dalle spregiudicate imprese di conquistatori audaci che hanno guidato gruppi scelti di soldati d’acciaio? Spesso è vero l’esatto opposto. Come per la storia degli alpini, il cui alone di leggenda affonda, per la modernità, in buona parte, in una grande disfatta militare del Novecento: la ritirata di Russia, quando cioè i soldati cercavano il ritorno in patria dopo la sconfitta sul Don, ostacolati dalle truppe sovietiche del generale inverno. Un disastro, fotografia dell’inadeguatezza italiana al secondo conflitto mondiale, diventata un’epopea, evocativa e riassuntiva di tante virtù umane e militari dei soldati della montagna per eccellenza.
Proprio il tentativo disperato degli alpini di tornare dalle proprie famiglie, senza i collegamenti con gli alti comandi e affondando nella neve con scarpe di cartone, è diventato un mito fondante della memoria nazionale. Non la spedizione d’aggressione all’Unione Sovietica voluta da Mussolini, tentata dagli stessi uomini, ma il loro drammatico ripiego dopo l’insuccesso.
La leggenda delle rievocazioni militari e letterarie, non a caso, sta solo in quel proibitivo ritorno al focolare, cercato disperatamente, dovendo spezzare un assedio implacabile, con i nemici votati all’annientamento delle truppe italiane. Quei reparti sfiniti, spesso allo sbando, che non rappresentavano più un esercito invasore, ma un gruppo di uomini in fuga da una guerra rovinosa e più grande di loro, sono diventati un mito. Centomila gavette di ghiaccio come ha scritto Giulio Bedeschi e non l’aggressione dell’asse Berlino-Roma alla nazione russa. Nulla di nuovo sul piano storico. La ritirata di Russia, infatti, assomiglia molto al ritorno verso le proprie terre compiuto dai mercenari greci, nota come la marcia dei diecimila, nel 401 a. C., intrapresa dopo l’attacco ai persiani e raccontata dallo storico e scrittore greco Senofonte nell’Anabasi.
«Non è un caso che la celebrazione del corpo alpino nella ritirata di Russia sia iniziata negli anni Cinquanta del secolo scorso, in piena guerra fredda - spiega lo storico Gianni Oliva, autore di una recente pubblicazione sulla storia degli alpini -. All’epoca c’era un momento di forte contrapposizione politica tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista. E l’immagine dei soldati italiani accerchiati e assaliti dai militari sovietici era funzionale allo scontro ideologico contro i comunisti di Togliatti».
Oliva, che prossimamente pubblicherà un nuovo saggio, sulla storia militare italiana, ha recentemente presentato nella sezione biellese delle penne nere il suo libro dedicato ai centoquarant’anni di storia alpina. Sulla nascita del corpo, l’intellettuale torinese spiega: «Avvenne poco dopo il compimento dell’unità nazionale, da un’intuizione ovvia, cioè di organizzare la difesa dei valichi alpini. L’idea, d’un capitano dello Stato Maggiore, fu di suddividere la zona alpina in tante unità difensive quante erano le vallate di transito e affidarne il presidio a “montanari di provincia”, reclutati e addestrati nelle vallate stesse. In altre parole, creare reparti di valligiani destinati non a mobilitarsi in aree lontane, ma a difendere i valichi alpini attorno ai quali erano nati e cresciuti». Queste le origini, stravolte dalle evoluzioni politiche internazionali, nonché tecnologiche, che dal 2005 portarono all’abolizione per legge della leva obbligatoria. Esisteranno quindi ancora soldati alpini, ma in futuro probabilmente non ci saranno più gli “alpini” intesi come comunità, capace di coprirsi di gloria anche in tempo di pace con gli interventi di solidarietà ai civili durante terremoti e alluvioni. «Un giorno, forse, non ci saranno più gli alpini, ma certamente rimarrà la storia degli alpini, come parte integrante del nostro patrimonio identitario nazionale» scrive Oliva nel suo libro, ricco di fotografie suggestive di un secolo e mezzo di vita alpina.
Paolo La Bua
labua@primabiella.it
Nella foto in alto, Gianni Oliva
19 febbraio 2009
|