Processo per la valanga

Processo per la valanga
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Si è tenuta l’altra mattina l’udienza davanti al giudice delle indagini preliminari, Claudio Passerini, che dovrà decise se archiviare o meno l’inchiesta sulla valanga del Camino che il 6 marzo dell’anno scorso ha travolto una comitiva di ventuno freeride, ne ha sepolti undici, ne ha uccisi due (Emanuele Mosca, 65 anni, odontotecnico di Graglia, e Carlo Graziano, 26 anni, neolaureato di Crescentino) e ne ha feriti altri cinque.
I legali che rappresentano i familiari delle vittime (avvocati Francesco Alosi di Biella, Corinne Margueret di Aosta ed Enrico Scolari di Ivrea) hanno chiesto al giudice di non accogliere la richiesta di archiviazione e di disporre quella che per il Codice di procedura penale è nota come “imputazione coatta”. Il Pubblico ministero è in pratica obbligato a formulare un capo di imputazione (in questo caso si ipotizzerebbero i reati di omicidio e lesioni colposi) entro dieci giorni. All’imputato viene quindi notificato entro due giorni il decreto che dispone il giudizio. Gli stessi legali, in subordine, hanno chiesto che venga disposta la nomina di altri consulenti tecnici super partes, che operino in ambiti diversi rispetto a quelli delle tre guide alpine finite sotto inchiesta.

Di contro, i difensori dei tre indagati (avvocati Luca Recami e Davis Bono) hanno presentato un supplemento di perizia che concorda e supporta quella già ordinata al suo tempo dal pubblico ministero, Francesco Alvino (che ieri non era presente  in aula).
 Il giudice Passerini ha deciso di pensarci bene. Si è infatti preso due mesi di tempo prima di far conoscere la sua decisione.
Nel documento presentato per opporsi all’archiviazione del caso, gli avvocati Alosi e Margueret (che rappresentano le due figlie di Emanuele Mosca, Susanna e Roberta nonché il nipotino) fanno letteralmente a fette qualunque punto della prima perizia effettuata da due guide alpine del Canavese. Le parti civili avrebbero in pratica sostenuto che la consulenza fatta eseguire dal pubblico ministero baserebbe le proprie conclusioni unicamente su quelle che erano le condizioni climatiche ricostruite dopo l’evento. Tale consulenza - secondo i legali - non avrebbe tenuto conto delle testimonianze dei presenti e del bollettino delle neve diramato quel giorno (“marcato 3” tendente al “marcato 4”). Una conclusione, quella del perito, ritenuta pertanto inattendibile rispetto alla gravità del fatto.
I legali sostengono che più di uno dei diciotto sciatori dell’estremo, quel giorno, si sarebbe sincerato dalle guide alpine se era o meno il caso di affrontare la discesa della parete nord del Camino considerato che la neve non appariva delle migliori a livello di compattezza e le condizioni climatiche non erano proprio tra le più favorevoli. Secondo l’avvocato di Biella e della sua collega di Aosta (che si è peraltro occupata in passato di procedimenti analoghi ed è esperta di fenomeni nivologici), alcuni componenti del gruppo che stava partecipando alla gita di eliski (discesa con gli sci in neve fresca, trasporto in quota con l’elicottero) non erano equipaggiati in modo completo per affrontare un’eventuale emergenza.
Non era stato inoltre organizzato nessun briefing informativo sul funzionamento dell’Arva (lo strumento che invia impulsi elettronici e aiuta i soccorritori) e sull’equipaggiamento di emergenza in genere. Pare inoltre che nessuno dei freeride avesse con sé la radio considerato che - com’è noto da sempre - in quella zona della Conca di Oropa non c’è nessun tipo di copertura per i telefoni cellulari.

Valter Caneparo

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