Il bioeticista: «Scegliere come morire è un nostro diritto»
Il tema è impegnativo. Per molti, quasi ai confini del tabù. Eppure, è importante prendere coscienza e parlarne, perché «le condizioni si sono profondamente trasformate negli ultimi anni» e tutto, in pratica, va ripensato. Il bioeticista Sandro Spinsanti chiarisce così il valore sociale e umano della conferenza che giovedì terrà a Biella sul difficile tema del rapporto tra etica e fine della vita (ore 18, sala convegni Biverbanca), secondo appuntamento del ciclo “Etica e Salute”, organizzato dall’Asl Bi in collaborazione con la Fondazione Edo Tempia (info: 015/2439398). «Dobbiamo parlarne - fa notare - perché quel che un tempo era un fatto puramente personale e famigliare, ovvero la morte, oggi è sostanzialmente un fatto medico. E questo cambia di molto le cose».
In che senso, professore?
«La maggior parte delle morti oggi avviene in un contesto medicalizzato - chiarisce Spinsanti, già docente di Etica Medica all’Università Cattolica di Roma e di Bioetica all’Università di Firenze -. Moriamo circondati dai medici, più che dai famigliari. E in genere ciò avviene quando i medici hanno già preso le loro decisioni su di noi. Questo ha delle profonde implicazioni, se teniamo presente che ogni persona ha le proprie preferenze e i propri valori sulla morte: non per tutti, ad esempio, l’intensivismo è auspicabile. Per alcuni è incubo. Altri invece si aspettano che la medicina faccia di tutto di più per tenerli in vita. Ebbene, oggi le decisioni sanitarie devono tenere conto di tutto questo. I medici non possono più semplicemente agire “in scienza e coscienza”, come avveniva nel contesto tradizionale».
Ma l'accanimento terapeutico quanto ha di etico?
«In genere c’è un certo consenso nell’escluderlo dal concetto di eticità. La formula più consolidata è: “Né eutanasia, né accanimento. La vera etica sta nel mezzo”. Il vero problema però è altrove: è molto difficile definire ciò che è eutanasia, ma ancor più è definire l’accanimento. Il vero nodo culturale è comprendere che si tratta di concetti che vanno ridefiniti e modellati in rapporto ai valori della persona».
Lei ha scritto un libro dal titolo "Chi ha potere sul nostro corpo?". Ebbene: chi lo ha?
«Molti ritengono che il potere medico sia esclusivo e padronale. E’ un potere che oggi è vissuto come una disposizione del corpo dell’altro. In sostanza, se un medico prende una decisione per il bene del paziente rischia di trattarlo come un bambino, mentre il paziente chiede di essere trattato come una persona. Quindi il vero potere di chi è? Di colui cui ciascun malato lo attribuisce. Ma non si tratta di un potere assoluto. E’ un potere condizionato dalle preferenze, è condiviso».
L’esigenza di far quadrare i conti in Sanità rischia di distogliere l’attenzione dall'etica, soprattutto verso il malato terminale?
«Sì, questo è uno scenario attualissimo. Pensiamo alle restrizioni economiche a danno dei pazienti malati di Sla. Non riservare risorse perché possano gestire la loro malattia a casa vuol dire condannarli a morte. Quello dell’allontanamento dall’etica non è un rischio, è già una realtà. Bisogna quindi che la giusta enfasi data a questi temi dal punto di vista etico si misuri con scelte etico-politiche».
Il personale sanitario che oggi affronta le situazioni di fine vita è eticamente preparato?
«C’è ancora tantissimo da fare, ma in generale si tratta di professionisti molto più preparati del resto del corpo sanitario. Sono sensibilizzati verso l’ascolto delle preferenze del paziente. Ma una tale attenzione dovrebbe essere trasversale a tutta medicina. Oggi non sono tanto i palliativisti che hanno bisogno di formazione, ma il resto del corpo sanitario».
Cos’è una morte etica?
«Morire eticamente significa ad esempio tenere sotto controllo il dolore, un tema su cui siamo in profondo ritardo. Ma significa anche essere messi in condizione di conoscere il percorso che si sta facendo. La qualità della morte dipende anche dalla possibilità di mettere dei paletti, di determinare aspetti concreti. Detto in altri termini, la morte deve essere tagliata “su misura” a seconda delle preferenze del malato».
Sono le famiglie, insieme con il malato, a sostenere il peso maggiore delle sofferenze. Come aiutarle?
«Oggi molta parte della cura delle malattie croniche degenerative è centrata sull’ospedale, che di fatto opera secondo la logica: malato dentro e famiglia fuori. Non è una realtà pensata per le famiglie e lo dimostra la difficoltà con cui si sono aperti alcuni reparti ai famigliari, ad esempio la pediatria. Ora si sta cercando di fare lo stesso con le terapie intensive, ma è un programma per ora accolto da poche realtà. Questo tipo di organizzazione non aiuta in alcun modo ad affrontare il momento della fine vita. Su questo aspetto c’è ancora moltissimo da fare».
Veronica Balocco