L'INCIPIT DEI VOSTRI RACCONTI
Tirate fuori il vostro racconto dal cassetto! E diventate protagonisti della nuova rubrica "L'incipit dei vostri racconti", che Eco di Biella pubblicherà ogni sabato sull'edizione cartacea nel suo inizio (incipit). Per leggere il resto del racconto, occorrerà collegarsi al sito nel pomeriggio di sabato. Tutti possono partecipare all'inziativa gratuita, in collaborazione con la casa editrice biellese Lineadaria. Inviate i vostri racconti all'indirizzo lineadariaeditore@gmail.com, la selezione verrà effettuata da Federica Ugliengo. Buona lettura e buon esordio a tutti nella pagina, già cult per gli appassionati, L'Eco delle Parole.
"L'uomo senza cuore"
di Renata Bertero
segue da Eco di Biella in edicola questa mattina 23 FEBBRAIO 2013
‘Allora, - proruppe l’ingegnere – cos’è questa storia dell’essere senza cuore?’ (Interessato sì, ma deciso e sbrigativo, come sempre, come deve essere chi ha tante responsabilità e poco tempo.) ‘E perché è necessario andare a sbandierarla in giro? Chi La obbliga a fare questa pubblica confessione, questo mea culpa porta a porta?’
I piedi del signor Ventes non toccavano terra e lui cominciò a muovere le gambe avanti e indietro, come un bambino.
‘Non è una confessione. – disse con voce flebile, ma abbastanza ferma – E’ una constatazione. Io non ho il cuore.’
‘No, no! Piano, piano – fece, seccato, l’ingegnere, un indice ammonitore alzato- Lei così cambia il significato del suo messaggio. Sia preciso, per favore. Io aborro le approssimazioni. “Io sono senza cuore” va bene; “Io non ho cuore” anche, ha lo stesso significato. Ma “Io non ho IL cuore” … eh, no! Quell’articolo cambia tutto! Sembra che Lei, fisicamente, manchi di un organo assolutamente indispensabile, mentre è ovvio che Lei intende dire …’
‘Che non ho il cuore.’ Concluse, sconsolato, il signor Ventes, fermando il movimento delle gambe.
‘Ma che diavolo … - l’ingegnere, adirato all’idea che quel mammalucco del caposcala avesse ragione dopo tutto e che questo straccetto d’uomo fosse solo un povero demente, si alzò con uno scatto veemente dalla poltrona.
Il misero signor Ventes sembrò ritirarsi nelle spalle, ma osò puntualizzare: ‘Io voglio dire che non ho più il cuore, fisicamente, sì, proprio quel muscolo che dovrebbe essere qui – e si battè il petto con l’indice – e invece io non l’ho più.’
‘Fuori! – tuonò l’ingegnere – Via, via! Mi ha fatto perdere un’intera mattinata di lavoro e per cosa? Vada a raccontare le sue inutili fole a qualche pensionato che non ha niente di meglio da fare.’
Il signor Ventes saltò giù dal “tagliavisite” e, con gli occhi bassi, si diresse verso la porta. Qui giunto, frugò nell’ampia tasca del cappotto e ne estrasse una specie di foglio di plastica, a macchie chiare e scure, si voltò, piazzò la cosa sotto il naso dell’ingegnere e, sempre mite, disse: ‘Questa è la mia ultima ecografia. Lo vede questo vuoto … qui dovrebbe esserci il cuore.’ Poi si voltò e fece per uscire. L’ingegnere gli strappò di mano la lastra e la studiò. Era vero. Il cuore non c’era. Afferrò l’omino per le spalle e lo spinse nuovamente sul “tagliavisite”. Gli afferrò un braccio e, dopo qualche istante, sbottò: ‘Il polso si sente. Il sangue circola. Il cuore DEVE esserci!’ ‘Dovrebbe, infatti, ma non c’è’ – ribatté desolato l’altro. ‘Ma insomma! È inaudito. È innaturale, anzi è contronatura! Ora vedremo.’ – Si tuffò con la testa in un armadio e, dopo avervi rovistato per qualche minuto, ne emerse con uno stetoscopio.
Il signor Ventes non si oppose alla visita, anzi, sbottonando cappotto,
giacca e camicia, porse, come si suol dire, il petto al nemico. L’ingegnere sembrava, in effetti, sceso in guerra.
Occhio fosco, movimenti bruschi, senza una parola, si affannava ad auscultare l’omino da tutte le parti, petto, schiena, ascella sinistra, arrivando, nella sua esplorazione, fino alla spalla e allo stomaco. Quando ebbe finito, affranto, si abbatté sulla poltrona e ansimò: ‘Non batte …non c’è.’ Il signor Ventes annuì e, mentre ricomponeva gli abiti scomposti dall’approfondito esame dell’altro, pronunciò le parole più odiate al mondo: ‘Glielo avevo detto.’ Non c’era però alcuna soddisfazione nella sua voce; come tutte le sue affermazioni esprimeva solo un fatto, non era un commento.
L’ingegnere era sconvolto, come lo erano tutte le leggi dell’idraulica: se del liquido scorre sfidando la forza di gravità, ci deve essere una pompa di un qualche genere da qualche parte, evvia!
Fissò quello scherzo di natura, che si permetteva di parlare e muoversi quando avrebbe dovuto essere chiuso tra quattro assi a tre metri sotto terra, e chiese, sempre brusco, sempre conciso: ‘È così dalla nascita?’ Il signor Ventes parve preso in contropiede e, interrompendo il riordino delle proprie vesti, avvolse l’ingegnere in uno sguardo quasi affettuoso, che, indirettamente, così spiegò:
‘È la prima volta, sa, che arrivo a questo punto, … che qualcuno mi domanda una spiegazione.’ E s’interruppe, sopraffatto dall’emozione. Pochi secondi, poi, con un sospiro, gli occhi di nuovo spenti, iniziò: ‘Sono nato anch’io con un cuore, come tutti. L’ho avuto per cinquant’anni, proprio qui, che batteva – e si toccò di nuovo il petto, come se ancora non fosse rassegnato a quella inumana cavità. –
‘Mi muovevo, parlavo, vivevo come tutti, come tanti – si corresse – e soprattutto, come lei, lavoravo. Ho lavorato tanto nella mia vita, non pensavo ad altro. Mi sono sposato, è nata una figlia, ho provato emozioni, certo, ma nulla è mai stato così coinvolgente, così totalmente assorbente come il mio lavoro.’ Si fermò, gli occhi fissi nel vuoto, rivivendo un momento lontano nel tempo e nello spazio, poi si riscosse e continuò: ‘Avevo anch’io uno studiolo in casa e mi chiudevo là a lavorare e a riflettere; detestavo essere interrotto, disturbato. Così, col tempo, mia moglie smise di distrarmi con le sue effusioni non richieste, le sue domande sciocche, i rimproveri. Mia figlia si rese indipendente presto e, finalmente, io non vidi più quello sguardo adorante, da cane, nei suoi occhi quando mi guardava. Ero in pace, nel mio mondo, col mio lavoro. Eravamo tutti felici …sembravamo tutti felici. – si corresse ancora – Mia moglie mi portava i pasti nello studio; col sorriso sulle labbra e negli occhi, appoggiava il vassoio e poi, prima di andarsene, mi carezzava sempre la mano, la spalla, il capo. Mia figlia apriva la porta, ma solo un paio di volte la settimana, ormai aveva imparato, e mi lanciava un bacetto con la punta delle dita, dicendo “Ciao, geniale Papi!” Era tutto perfetto … tutto in equilibrio, come avevo sempre sperato, come non avevo mai sognato sarebbe potuto essere.’ Si fermò e aprì la bocca, come se gli mancasse l’aria, poi la richiuse e parve spegnersi, come una lampadina fulminata.
‘E allora?’ – quasi gridò l’esasperato ingegnere. Si sentiva teso come una corda di violino, come se fosse la sua stessa vita ad essere sull’orlo del baratro nel quale, intuiva, si era infranta l’esistenza perfetta di quell’altro.
‘E allora – riprese con un sussurro rassegnato il signor Ventes – una sera suonarono le ventidue e io mi resi conto che mia moglie non mi aveva ancora portato la cena. Il lavoro, sa, la concentrazione … avevo perso la nozione del tempo. Lasciai il mio studio e mi accorsi che tutto era buio, silenzio. Andai in cucina … niente; andai in soggiorno … niente; le camere da letto erano vuote. Giravo per la casa e scoprivo che mi era quasi sconosciuta: fotografie in cornice, oggetti, i mobili stessi … molti non li avevo mai visti. La tappezzeria del soggiorno mi parve diversa dall’ultima volta che l’avevo guardata. Mi sentivo come un ladro; non sapevo che cosa ci fosse dietro la prossima porta, dietro la svolta del corridoio. In fondo, lo sa anche Lei com’è: si torna a casa con la testa ancora piena di problemi, si va diretti allo studio, ancora lavoro, qualche sporadica puntata in bagno, poi, a notte fonda, al buio, in camera per poche ore di sonno.’ Era ansioso di spiegare, di trovare un complice in questo processo di estraneamento, qualcuno che capisse come, perché la vita della sua casa e la sua erano diventate parallele, senza più possibilità di incontro.
L’ingegnere sentiva l’angoscia dell’altro strisciargli nelle vene, estendere il gelo in tutto il suo corpo su su fino al cuore. Il cuore! Ecco, si attaccò a questo pensiero, a questa estrema curiosità per continuare ad ascoltare, per non fuggire dall’omino come uno stupido coniglio.
Il signor Ventes intanto proseguiva nel suo intimo incubo. ‘Poi guardai le foto. Ce n’erano molte, in ogni stanza, tranne che nel mio studio, ovviamente. Foto di mia figlia, di mia moglie, da sole, insieme, con altre persone che io non conoscevo. Solo io non c’ero mai. Allora capii; non avrei neppure avuto bisogno di trovare la lettera.’-
Restò in silenzio per qualche secondo, guardandosi le mani, come se la lettera della moglie fosse ancora lì.- ‘Era una lettera gentile, non mi accusava di niente. Voleva solo farmi sapere che lei e mia figlia se ne andavano a vivere con un altro; che quest’altro era il suo compagno ormai da dieci anni e che il rapporto tra lui e nostra figlia era ottimo. Non dovevo preoccuparmi per loro e neppure per me. Aveva assunto una governante, una signora che avrebbe badato alla casa, pagato i conti, preparato i pasti per me. Non mi sarei neppure accorto della differenza. Fu a quel punto che sentii una strana sensazione nel petto, come un risucchio e poi … nulla. Ecco, è da allora che il mio cuore è sparito, andato. Ho cambiato casa, città, ho smesso di lavorare, ma niente. Non torna, non ne vuole sapere di tornare. Io vivo ugualmente, lo vede, ma che vita è la mia? Non si vive senza cuore, lo sanno anche i bambini. Ma io non sono neppure morto. E allora? Che cosa sono?’- Si alzò, abbottonò il cappotto e disse: ‘Devo andare ora.’
Il povero ingegnere lo seguì verso la porta d’ingresso. Il signor Ventes l’aprì, uscì e andò a suonare alla porta di fronte, in quel pellegrinaggio senza fine che, unica attività, pareva tenerlo in vita.
Lo sconvolto ingegnere chiuse lentamente la porta, mentre sentiva la voce ormai nota dire: ‘Mi scusi, ma sa, devo dirlo a qualcuno: io sono senza cuore’. Non sentì la risposta.
Appoggiato alla porta con le spalle, notò che la tappezzeria dell’ingresso era cambiata e che sopra il tavolino col telefono di casa era appeso un quadro che non aveva mai visto. Tutto prese a girargli intorno.
Per un istante si sentì perduto, poi, con gioia selvaggia, si rese conto che il cuore gli batteva all’impazzata nel petto. Ancora.
Come un folle, si mise a ballare al ritmo del suo cuore e gridò: ‘Domani mi licenzio!’