Festival di Venezia, la prognosi riservata sul cinema italiano di Alberto Barbera

Incontriamo Alberto Barbera nel suo ufficio al primo piano del palazzo del cinema, l'ultimo venerdì della rassegna.
La Mostra sta quasi volgendo al termine. Come il suo secondo anno di direzione (ma era già stato direttore del festival veneziano dal 1999 al 2001). Nato a Biella, 63 anni, Barbera è soddisfatto del lavoro svolto.
Biennale College è nato nel 2012 e quest’anno ha reso visibili i primi tre film. Ci sembra un investimento sul cinema del futuro. Come mai ha fortemente voluto questo progetto?
«Tutti i festival, negli ultimi dieci-quindici anni, avevano affiancato alla vetrina principale dei progetti a sostegno di cineasti, soprattutto del sud del mondo, o di giovani autori, quelli che incontrano, ovunque, maggiori difficoltà per accedere ai finanziamenti per realizzare la loro opera prima o seconda, spesso più difficile di quella d’esordio. L’unico grande festival che non aveva un’iniziativa di questo tipo era Venezia. E mi sembrava paradossale. Quindi, una delle condizioni che avevo posto per tornare a Venezia era di poter lavorare a un progetto che mirasse al sostegno dei giovani autori, non volendo però rifare quello già fatto da altri. È nata così l’idea, ambiziosa e rischiosa, di un college che tentasse di fare quello che nessuno aveva fatto prima: passare dall’individuazione di un progetto alla sua realizzazione in un tempo limitato, un anno, con un piccolo finanziamento (150.000 euro ciascuno), ma sufficiente per girare un film a basso costo. Era una scommessa al buio. Il numero zero è pienamente riuscito. E da ottobre si avvieranno i workshop per la seconda edizione».
Dal lato opposto, la Mostra da lei diretta presenta un’altra sezione fondamentale, molto seguita dal pubblico, Venezia Classici, che non solo recupera opere famose, ma compie operazioni di restauro anche su film del passato meno noti e su testi recenti già in pessime condizioni. Con quale criterio sono stati scelti?
«Quest’anno, in effetti, abbiamo allargato lo spazio temporale. La preservazione del patrimonio cinematografico non riguarda soltanto il cinema classico in senso stretto, ma tutto il cinema. E in futuro la cosa paradossale e preoccupante sarà che i film, con il passaggio dalla pellicola al digitale, spariranno ancora più velocemente, col rischio che scompaiano per sempre. Mentre per la pellicola esiste un magazzino dove almeno una copia viene custodita e sappiamo che per almeno cento anni sopravviverà anche se non in condizioni ottimali, con il digitale ciò non accade. Nessuno dei distributori italiani si preoccupa di conservare una copia del film in DCP che viene distribuito. Così i DCP, dopo la circuitazione, vengono cancellati e riutilizzati. Il rischio è di cancellare tutto il cinema contemporaneo. Non sappiamo se tra dieci anni il cinema che stiamo vedendo adesso sarà ancora visibile, se qualcuno non ci pensa. In Francia è tutto diverso, esiste una legge che impone che per ogni DCP distribuito debba esistere almeno una copia in 35mm depositata in una cineteca. In Italia, invece, nessuno ci pensa, rischiando che i film italiani di questi anni siano affidati alla buona volontà, al senso lungimirante o del produttore o dell’autore che ne conserva una copia».
I luoghi della Mostra stanno cambiando. Cambieranno ancora?
«Cambierà ancora molto. L’anno prossimo verrà completamente rifatta la sala Darsena che diventerà all’avanguardia, probabilmente la più grande e più bella di cui disporremo nei prossimi anni. Il Comune di Venezia ha stanziato sei milioni di euro e i lavori partiranno a novembre. Anche il palazzo del Casinò subirà una profonda ristrutturazione interna che consentirà di recuperare il piano seminterrato in funzione del Mercato del cinema, mentre un progetto prevede la costruzione di una vera sala al terzo piano, dove attualmente ci sono le conferenze stampa e alcune proiezioni. Nel giro di un paio d’anni tutte le strutture esistenti saranno rinnovate. Inoltre, il Comune di Venezia ha finalmente avviato un processo per scegliere il progetto del nuovo edificio multifunzionale che sorgerà sulla parte di buco ancora esistente e che per la Mostra sarà utile soprattutto per ospitare il Mercato del cinema.
Come si costruisce la Mostra? Qual è il lavoro che si compie nei mesi precedenti?
«Da una parte esistono contatti diretti con produttori e registi di cui si ha notizia del loro lavoro. Dall’altra, aspettiamo che i film vengano proposti e arrivino per compiere il lungo lavoro di scrematura; quest’anno tra lungometraggi, documentari e cortometraggi abbiamo visionato quasi 3500 titoli, da vedere in un periodo estremamente ridotto di tempo, per capire come costruire un percorso finale fatto di circa 50-60 titoli».
Per i 70 anni della Mostra è stato realizzato dalla Biennale il progetto “Future Reloaded”. Settanta micro-film di altrettanti registi e di circa un minuto l’uno. Che diffusione avrà dopo le proiezioni nei giorni del festival?
«Tutti i lavori saranno messi sul sito della Biennale e vi rimarranno per almeno un anno, dove chiunque potrà vederli in streaming gratuitamente».
In un cinema che cambia radicalmente ogni giorno, qual è secondo lei un film di questa Mostra emblematico di tali cambiamenti?
«Non è facile rispondere. I cambiamenti sono tecnologici, formali, estetici, linguistici. Ci sono quindi tanti film diversi ciascuno dei quali è interessante in una prospettiva. Il film di Tsai Ming-liang rappresenta il superamento del cinema verso altri spazi, quello di Philip Gröning manda in pezzi la narrazione come l’abbiamo conosciuta per cento anni, quello di Gianfranco Rosi trasforma il documentario in un’esplorazione personale dei luoghi… Ci sono molteplici percorsi che disseminano idee preziose».
Giuseppe Gariazzo