"Made in": il Consiglio Ue non raggiunge l'accordo

Delusione, incredulità, dispetto. Nessuno voleva stravincere, ma nessuno si aspettava un risultato che, dopo il disco verde del Parlamento Ue, riportasse l’intera partita in alto mare.
La ministra Federica Guidi ha cercato di gettare acqua sul fuoco, parlando (cosa insolita per una imprenditrice competente e pragmatica come lei) in politichese. «L’Italia continuerà l’interlocuzione con tutti i Paesi membri» ha detto, evocando poi un possibile compromesso (l’ennesimo) che potrebbe riguardare «la perimetrazione del campo di applicazione» o «criteri alternativi» per l’origine di un prodotto.
Delusione. Parole che non convincono quel mondo imprenditoriale fatto di milioni di imprenditori abituati a lavorare da mane a sera, nonostante fisco, burocrazia e costi del lavoro insostenibili, per produrre davvero in Italia. E la filiera tessile-abbigliamento-moda è in prima fila nel sentire sulla propria pelle questa delusione che sa di beffa per chi è trasparente e, invece, di premio per chi non lo è. «Il Governo - commenta il presidente di Smi, Claudio Marenzi - non ha capito che il made in obbligatorio significa immediatamente più posti di lavoro. Ben più del Jobs Act o della revisione dell’articolo 18. Oltretutto, ciò avrebbe costituito un volano per il secondo marchio più noto al mondo, cioè il made in Italy».
Smacco. Le varie posizioni trovano significativa rispondenza nel Biellese dove la battaglia per la tracciabilità tessile è iniziata parecchi anni fa. «Siamo di fronte ad uno smacco grave e doloroso - commenta Carlo Piacenza (a destra, in alto), uno dei migliori rappresentanti del vero made in Italy nonché consigliere incaricato in Smi per la promozione internazionale del monte della filiera -. Ne esce l’immagine di un’Ue fatta di lobby più che di interessi comuni e emerge il messaggio che il manifatturiero non conti nella strutturazione di una politica industriale unitaria. Ci eravamo illusi che da questo Consiglio a presidenza italiana uscisse un segnale forte. Per vero, le parole del Governo, nelle settimane scorse, ci avevano autorizzato a nutrire questa illusione. Oggi abbiamo invece perso una grande opportunità che mette ancora più in evidenza la contraddizione consistente nel fatto che l’Ue non vuole darsi quelle regole minime di tracciabilità che hanno invece le altre aree del mondo a garanza e tutela delle loro produzioni».
Ancora più drastico, ma anche più disincantato, l’affondo dell’imprenditore e stilista Luciano Barbera (a destra, in basso) che dal 1986, con il Master Fibre Nobili, si sta battendo per il vero made in Italy certificato.
«Non mi aspettavo nulla di diverso, considerato che il Governo Renzi, fin qui, ha fatto tante promesse ma concluso poco - dice Barbera -. Non mi stupirebbe se la posizione morbida dell’Italia in materia, fosse stata un modo per contraccambiare il sì tedesco alla nomina della Mogherini. Magari mi sbaglio e spero davvero di farlo. Comunque, resta il fatto he il Governo Renzi non ha saputo o voluto capire quanto il made in obbligatorio avrebbe dato fiato alla nostra economia, stimolando ulteriormente l’export e creando nuovi posti di lavoro. Certo, oltre alla responsabilità del Governo, restano sul campo anche quelle di chi, anche nell’ambito del sistema industriale, ha tutto l’interesse che alla etichettatura obbligatoria d’origine non si arrivi mai».
G.O.