Un “sindaco” del Cinquecento e la burrasca dei conti

Un “sindaco” del Cinquecento e la burrasca dei conti
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Giovanni Gaspardo Bertodano assume il rettorato della Città di Biella il 12 novembre 1556. E’ la quinta volta. Ce ne sarà una sesta otto anni più tardi. I meccanismi che portavano a ricoprire quella carica annuale non erano certo quelli elettivi e politico- ideologici di oggi. I cittadini più abbienti, per lo più i nobili o i nobilitati, si davano semplicemente il cambio alla guida di una comunità di poche migliaia di abitanti. Era di certo un onore, ma più ancora un onere che spettava loro di diritto e di dovere, e non c’erano discussioni di sorta in merito a quella gestione della res publica locale. Quali che fossero i vantaggi ricavabili da quell’incarico, i notabili di Biella si dovevano misurare con sfide vecchie e nuove, e un anno di governo poteva risultare molto molto lungo. Qualcuno ha detto che da grandi poteri derivano grandi responsabilità e un rettore di Biella nel XVI secolo avrebbe sottoscritto quell’assunto. Le testimonianze documentarie di quelle esperienze amministrative sono conservate nell’Archivio Storico della Città di Biella (presso l’Archivio di Stato di Biella). Da quella vissuta dal suddetto Bertodano, membro della famiglia dei conti di Tollegno e Miagliano, si possono ricavare alcuni spunti di riflessione e, forse, qualche analogia con l’attualità delle problematiche gestionali dei Comuni anche se la quotidianità ha mutato forma e le emergenze hanno cambiato nome. I rettori, alla fine del loro mandato (il giorno di San Martino), rendicontavano alla Credenza, il consiglio comunale di allora, per poter passare le consegne ai successori.

Giovanni Gaspardo Bertodano assume il rettorato della Città di Biella il 12 novembre 1556. E’ la quinta volta. Ce ne sarà una sesta otto anni più tardi. I meccanismi che portavano a ricoprire quella carica annuale non erano certo quelli elettivi e politico- ideologici di oggi. I cittadini più abbienti, per lo più i nobili o i nobilitati, si davano semplicemente il cambio alla guida di una comunità di poche migliaia di abitanti. Era di certo un onore, ma più ancora un onere che spettava loro di diritto e di dovere, e non c’erano discussioni di sorta in merito a quella gestione della res publica locale. Quali che fossero i vantaggi ricavabili da quell’incarico, i notabili di Biella si dovevano misurare con sfide vecchie e nuove, e un anno di governo poteva risultare molto molto lungo. Qualcuno ha detto che da grandi poteri derivano grandi responsabilità e un rettore di Biella nel XVI secolo avrebbe sottoscritto quell’assunto. Le testimonianze documentarie di quelle esperienze amministrative sono conservate nell’Archivio Storico della Città di Biella (presso l’Archivio di Stato di Biella). Da quella vissuta dal suddetto Bertodano, membro della famiglia dei conti di Tollegno e Miagliano, si possono ricavare alcuni spunti di riflessione e, forse, qualche analogia con l’attualità delle problematiche gestionali dei Comuni anche se la quotidianità ha mutato forma e le emergenze hanno cambiato nome. I rettori, alla fine del loro mandato (il giorno di San Martino), rendicontavano alla Credenza, il consiglio comunale di allora, per poter passare le consegne ai successori.
I conti erano trascritti su appositi registri e suddivisi tra entrate e uscite. Il rettorato del Bertodano non fa eccezione. Dalla lettura delle due partite si evince, in prima battuta, che le finanze del Comune di Biella si reggevano sui mutui, sui prestiti e su operazioni affini. Altre voci concorrevano a formare gli introiti comunali, ma le esazioni e gli affitti non avrebbero permesso a Biella di affrontare un’annualità normale e tanto meno una eccezionale.
A quei tempi, quella che per noi oggi sarebbe una condizione estrema (una carestia, una pestilenza, una guerra o un’occupazione, come quella francese effettivamente in essere allora), era una situazione abbastanza abituale e l’emergenza era costante.
Ecco perché ricorrere al denaro in prestito era l’unico modo per garantire un minimo di liquidità. Nella colonna del “caricamento”, infatti, la prima voce riguarda una sorta di anticipazione sull’appalto del dazio sul vino.
Tale Antonio Lessona si era esposto verso il Comune di Biella per 1.000 scudi, cioè 8.000 fiorini. Il sistema doveva essere consolidato visto che nella colonna dello “scaricamento” si trovano le note degli esborsi per rimettere i debiti contratti l’anno prima con altri anticipatori sulla medesima posta daziaria. Il dazio sul vino tassava l’approvvigionamento e il consumo in città e, in via teorica, doveva rappresentare un’entrata più o meno certa (anche perché il vino costituiva una componente primaria della dieta dei biellesi di allora).
L’imposta sul vino portava altri 2.516 fiorini in pagamento del dazio per l’annata precedente in carico al nobile Amedeo Ferraris. Altri 2.433 fiorini e 4 grossi provenivano invece da due prestiti puri in capo ai signori Bernardino Piazza e Giovanni Pietro Battiani. Come è facile comprendere, i debiti di questo tipo, pur stabilizzandosi su interessi (del 5% massimo) mitigati dalla “buona pratica” e dalla religione che impedivano ai cristiani di comportarsi da usurai, provocavano a lungo andare, per l’insolvenza sistematica e per il moltiplicarsi continuativo dei prestiti, profonde voragini nei bilanci comunali, alcune delle quali sanate dopo decenni se non secoli di pendenze.
Il citato Amedeo Ferraris era anche il fittavolo dei fossati cittadini, il che significa che i biellesi avrebbero pagato a lui e non al Comune di Biella quando dovuto per l’acqua canalizzata in città per uso agricolo. Giovanni Gaspardo Bertodano, esattamente come i suoi predecessori, si trovava nella condizione di mettere all’incanto le “obventioni ” (cauzioni) versate per i criminali, i proventi per la tassa sulla beccaria, cioè la macellazione delle carni (in entrambi i casi a tale “egregio” Nicola Gazia), quelli per la “pescaria” (diritti di pesca sui corsi d’acqua nella giurisdizione cittadina) e quelli per la “scribania” (diritti di segreteria per gli atti pubblici), senza contare l’appalto per le “misure” del sale (di fatto il monopolio ceduto in concessione previo anticipo di cassa).
Gli affitti di immobili comprendevano la “Ficià” di Tollegno ripartita tra Ludovico Bertodano e Agostino Villani, tutto lo “Alperio” (cioè gli alpeggi pertinenti a Biella nella valle di Oropa e aree confinanti), due orti posizionati uno presso la porta dell’Ollera e l’altro accanto a quella della Torrazza, due botteghe ricavate nella porta del Vernato, due camere situate rispettivamente sulla porta della Costa d’Andorno e sulla porta di Ghiara, la porta del Bellone e quella dell’Ollera, una non meglio identificata torre posta dietro le case degli eredi Carrarino, degli eredi Novellino e del nobile Agostino della Torre, una ulteriore torre, ovvero
quella che si ergeva al fondo della Costa di Andorno, la piazza presso la Rocchetta del Vernato e, per finire, lo stesso municipio. Proprio così: lo stabile del Piazzo in cui si adunava la Credenza era dato in locazione (l’affittuario, messer Giovanni Francesco Carrazana, fruttava 145 fiorini). Pagavano imposizioni dirette (una tantum?) i 21 “salmerji”, cioè i cavallanti, e un tale “hebreo” che aveva versato 24 fiorini. Ultima voce in entrata: i 25 fiorini che la Comunità di “Mortilliano” (cioè Mortigliengo) doveva a Biella per una certa qual “convenzione ”. Il tutto per la ragguardevole somma di 15.383 fiorini e 10 grossi.
Venti di quei fiorini andavano al rettore per il suo salario, ma a fronte di cotanto guadagno le grane per il reggitore di turno erano davvero enormi.
Basti considerare che le spese complessive ammontavano a 25.287 fiorini e 10 grossi, come dire che sussisteva una leggera situazione debitoria che superava le entrate del 70% circa. Non resta che dare un’occhiata alle voci in uscita per capire in quale burrasca un “sindaco” del Cinquecento si trovava a pilotare il fragile scafo del Comune di Biella.
Tanto per cominciare c’era lo stipendio del podestà (200 fiorini, dieci volte tanto ciò che avrebbe percepito il Bertodano). Non erano sufficienti i consiglieri e il rettore, ci voleva anche quella specie di “governatore-prefetto-giudice” per complicare le cose e per spremere le già esangui finanze comunali. Ma i veri problemi erano altri. Oltre al “taxo ” applicato come base impositiva diretta (2.587 fiorini), a pesare sulle casse comunali erano le gravose pretese del Ducato (che all’epoca era di fatto parte del Regno di Francia, con le truppe del De Brissac a tenere il tallone sul collo dei Savoia e dei loro sudditi) per le spese di guerra.
Le diverse rate delle “equalanze”, gli alloggiamenti di reparti di cavalleria in città, gli esborsi per le fortificazioni e quelli per il mantenimento di uomini in armi a Gaglianico o in chissà quale altro castello dei paraggi provocavano la più consistente passività per il Comune di Biella. E, come se non fosse sufficiente, non ci si faceva mancare una bella e secolare disputa giurisdizionale contro il Comune di Andorno.
Trasferte a Torino per dire causa di fronte al Senato, trasferte a Miagliano o ad Andorno per proclamare, citare, litigare ancora, arrestare e requisire bestiame che, però, bisognava mantenere. E poi parcelle di avvocati, mezze sentenze, mezzi ricorsi e altre parcelle di avvocati. Migliaia e migliaia di fiorini. A scorrere una lista tanto triste fanno quasi commuovere quei 640 fiorini destinati alla scuola comunale e quell’unico fiorino lasciato per gli orfani.
Danilo Craveia

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