Il biellese Aglietta “volteggiatore” per Napoleone

Il biellese Aglietta  “volteggiatore” per Napoleone
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Il medico Alexis Bompard (nato a Conflans, oggi Albertville, nel 1782) abitava a Parigi, al 19 di rue Marceau, all’angolo con rue de Rivoli. A quell’indirizzo si poteva acquistare una copia della sua “Description de la fièvre adynamique et observations sur cette fièvre et sur la fièvre ataxique, etc.”. L’opuscolo, uscito nel 1815 per i tipi della Imprimerie de Jean Louis Scherff (22 di rue du Caire), dimostrava il precoce interesse del dottor Bompard per le malattie contagiose. Soprattutto attestava il suo intento di stabilire una precisa demarcazione diagnostica e terapeutica tra quelle tipologie di “febbri” che, fino ad allora, erano state considerate con faciloneria come semplici varianti del tifo. A lui che aveva conosciuto bene il tifo sotto le armi, quando serviva come ufficiale di sanità della Grande Armée nelle campagne del 1813-1814, le differenze tra un malanno e l’altro non erano sfuggite e aveva ritenuto suo dovere divulgare i suoi appunti. Nel 1816 avrebbe poi dedicato un più corposo saggio proprio sul tifo (“Considérations sul le thypus”), ma in quel fatidico 1815 la sua attenzione era ancora tutta concentrata su ciò che aveva visto a Épinal, sui Vosgi, nell’autunno di due anni prima. Nel novembre del 1813, infatti, molti militari arrivavano ammalati dal fronte ed erano accolti in strutture quasi di fortuna, ammassati in locali piccoli e malsani. Un numero considerevole e crescente di quei soldati presentava gli stessi sintomi, ma, stando al docteur Bompard, non si trattava di comune dissenteria né di tifo addominale. 

Quella febbre “adinamica” di cui soffrivano era qualcosa di strano che meritava un’analisi più approfondita. Le cause: “I militari ricoverati avevano subito privazioni di tutti i tipi; erano stati esposti alle intemperie della cattiva stagione che, quest’anno, è stata molto fredda e molto umida; la maggior parte era oppressa da nostalgia, e non poteva che essere così se si pensa che erano stati appena strappati dal seno della loro famiglia e in un’età in cui il corpo è ancora lontano dall’aver acquisito tutto il suo vigore”. Lo stato di grande prostrazione fisica dovuto alla esperienza della guerra non era più grave di quello psicologico, e un buon medico sapeva tenere conto di entrambi i parametri. In quelle camerate si trovavano reduci della campagna di Russia, vincitori di Lützen e sconfitti di Lipsia, veterani disillusi e reclute disperate. Il maltempo, la prospettiva di un imminente crollo dell’Impero e la lontananza da casa avevano minato il già provato sistema immunitario di quegli uomini. Stesi sui pagliericci, troppo deboli per muoversi (da qui la “adinamia”), incapaci di mangiare e scossi da brividi e da conati di vomito, quei poveri “malades” (Bompard ne ebbe in cura circa 600 in cinque mesi) potevano resistere anche otto giorni in un crescendo di sofferenze che, in moltissimi casi, portavano alla morte. E prima del decesso si susseguivano il delirio, brevi manifestazioni carpologiche, l’atassia motoria, l’insorgenza di piaghe e il coma. Ma le cure del medico parigino, più improvvisate che sperimentali, salvarono alcuni dei suoi pazienti meno gravi. 

Purtroppo Giacomo Aglietta da Pavignano non ebbe la fortuna di incrociare il suo destino con quello del dottor Bompard. La vita del biellese finì altrove e prima che l’intraprendente “médecin” cercasse di combattere la sua guerra contro quella “fièvre adynamique” che, invece, uccise l’Aglietta il 28 settembre 1809. Ma non fu solo quella malattia misteriosa (forse una forma particolarmente maligna di influenza, come la spagnola del 1918-1919) ad accomunare i due uomini. Ebbero entrambi a che fare con lo “Spirito del Mondo”, ovvero con Bonaparte. Giacomo “Jacques” Aglietta era nato a Pavignano il 1° aprile 1787. Quando aveva quindici anni, l’11 settembre 1802, il Regno di Sardegna in cui era nato e cresciuto era scomparso dalle mappe: il Piemonte era stato annesso alla Francia imperiale. A vent’anni il citoyen Jacques Aglietta fu arruolato. La ferma sarebbe durata cinque anni, ma lui non arrivò al congedo. Sul foglio del suo “extrait mortuaire” fu annotato che era stato inquadrato nel 2° Battaglione del 39° Reggimento di Fanteria di Linea. L’Aglietta doveva essere un tipo sveglio. Per questo motivo e per la sua giovane età che gli consentiva di muoversi rapidamente lo avevano addestrato per uno dei compiti più rischiosi. Il pavignanese era un voltigeur, un volteggiatore. Napoleone li aveva creati nel 1804 come reparto specializzato in una sorta di guerriglia di primissima linea. Portati a cavallo davanti al fronte dello schieramento, i voltigeur si ritrovavano nella terra di nessuno molto vicini al fuoco di fila nemico. Da quella posizione i volteggiatori dovevano colpire e spostarsi, impegnare la fucileria o, comunque, dare fastidio. Ma stuzzicare così gli eserciti avversari significava spesso rimetterci la pelle, eppure Giacomo Aglietta sopravvisse per due anni sotto il comando del colonnello Soyer. Quando era arrivato al battaglione, novellino e, per giunta, “straniero” (sebbene i piemontesi fossero ormai francesi a tutti gli effetti), il 39° Reggimento si stava ricompattando dopo la battaglia di Eylau. 

In caserma giravano i racconti di quanto era avvenuto quell’8 febbraio 1807, sotto una tormenta di neve nella pianura lituana a sud di Königsberg. I russi del generale Levin August von Bennigsen erano stati battuti, ma era stata dura. L’Europa cercava di scrollarsi di dosso gli invasori francesi e altre grandi battaglie attendevano la vecchia guardia e le nuove leve. Il soldato Aglietta, ripensando al Cervo, osservava il corso del fiume Passarge e l’estuario della Vistola, lungo il quale il battaglione era acquartierato. Con l’approssimarsi dell’estate la guerra riprese e il battesimo del fuoco non tardò ad arrivare. Dapprima fu Guttstadt poi Friedland. Ancora l’ondulata piana tra Lituania e Polonia, ancora von Bennigsen. Il 6° Corpo d’Armata del generale Ney resistette all’assalto russo ai primi luglio, poi la resa dei conti il 14. In entrambi i teatri delle operazioni si mosse, e si mosse bene, il 39°. Napoleone seppe girare in suo favore una situazione potenzialmente assai pericolosa per l’Impero e a fronte di meno di 4.000 morti e 9.000 feriti tra i suoi, inflisse allo zar una grave sconfitta con più di 30.000 tra caduti e prigionieri. Ne seguì la pace di Tilsit. 

Il fortunato Aglietta poté raccontare quei due scontri memorabili. Il 1808 fu un’annata buona e tranquilla, ma la primavera del 1809 portò il vento di una nuova guerra. Jacques da Pavignano combattè dal 20 al 22 maggio a Essling, nei sobborghi orientali di Vienna, dove perse la vita il generale Lannes. Poi fu nel mattatoio di Wagram tra il 5 e il 6 di luglio. A quindici chilometri a nord-est di Vienna si infransero i sogni austriaci di abbattere il Corso. Dei 300 mila uomini sul campo non meno di 80 mila persero la vita o riportarono ferite gravi. Il voltigeur Giacomo Aglietta, malgrado fosse sempre sotto tiro, scampò anche in quelle due occasioni. Dopo la più sanguinosa battaglia di tutte le campagne napoleoniche, la Francia era padrona dell’Austria e Vienna accoglieva i soldati napoleonici. Tra di loro non pochi erano quelli ammalati. In città gli ospedali tentavano di curare tanto i feriti quanto quelli che rischiavano di morire di tifo, di dissenteria, di quelle febbri più o meno strane endemiche negli eserciti di allora. Nel cuore della capitale austriaca c’era una vecchia caserma di tre piani costruita nella zona dell’antico Mercato del Grano (Getreidemarkt). Convertita in ospedale militare francese diretto dal dottor Belloy, il 25 settembre 1809 vi fu ricoverato Jacques Aglietta. Le sue condizioni erano apparse subito piuttosto gravi. Non si alzava dal letto, non si nutriva, perdeva spesso conoscenza. La sua agonia durò tre giorni. Fu sepolto nell’attiguo cimitero. Il 1° ottobre lo stesso dottor Belloy compilò il certificato di decesso che fu inoltrato al Dipartimento della Sesia. Non molto tempo dopo la madre, Margherita Bora, ricevette la triste notizia.

Danilo Craveia

Il medico Alexis Bompard (nato a Conflans, oggi Albertville, nel 1782) abitava a Parigi, al 19 di rue Marceau, all’angolo con rue de Rivoli. A quell’indirizzo si poteva acquistare una copia della sua “Description de la fièvre adynamique et observations sur cette fièvre et sur la fièvre ataxique, etc.”. L’opuscolo, uscito nel 1815 per i tipi della Imprimerie de Jean Louis Scherff (22 di rue du Caire), dimostrava il precoce interesse del dottor Bompard per le malattie contagiose. Soprattutto attestava il suo intento di stabilire una precisa demarcazione diagnostica e terapeutica tra quelle tipologie di “febbri” che, fino ad allora, erano state considerate con faciloneria come semplici varianti del tifo. A lui che aveva conosciuto bene il tifo sotto le armi, quando serviva come ufficiale di sanità della Grande Armée nelle campagne del 1813-1814, le differenze tra un malanno e l’altro non erano sfuggite e aveva ritenuto suo dovere divulgare i suoi appunti. Nel 1816 avrebbe poi dedicato un più corposo saggio proprio sul tifo (“Considérations sul le thypus”), ma in quel fatidico 1815 la sua attenzione era ancora tutta concentrata su ciò che aveva visto a Épinal, sui Vosgi, nell’autunno di due anni prima. Nel novembre del 1813, infatti, molti militari arrivavano ammalati dal fronte ed erano accolti in strutture quasi di fortuna, ammassati in locali piccoli e malsani. Un numero considerevole e crescente di quei soldati presentava gli stessi sintomi, ma, stando al docteur Bompard, non si trattava di comune dissenteria né di tifo addominale. 

Quella febbre “adinamica” di cui soffrivano era qualcosa di strano che meritava un’analisi più approfondita. Le cause: “I militari ricoverati avevano subito privazioni di tutti i tipi; erano stati esposti alle intemperie della cattiva stagione che, quest’anno, è stata molto fredda e molto umida; la maggior parte era oppressa da nostalgia, e non poteva che essere così se si pensa che erano stati appena strappati dal seno della loro famiglia e in un’età in cui il corpo è ancora lontano dall’aver acquisito tutto il suo vigore”. Lo stato di grande prostrazione fisica dovuto alla esperienza della guerra non era più grave di quello psicologico, e un buon medico sapeva tenere conto di entrambi i parametri. In quelle camerate si trovavano reduci della campagna di Russia, vincitori di Lützen e sconfitti di Lipsia, veterani disillusi e reclute disperate. Il maltempo, la prospettiva di un imminente crollo dell’Impero e la lontananza da casa avevano minato il già provato sistema immunitario di quegli uomini. Stesi sui pagliericci, troppo deboli per muoversi (da qui la “adinamia”), incapaci di mangiare e scossi da brividi e da conati di vomito, quei poveri “malades” (Bompard ne ebbe in cura circa 600 in cinque mesi) potevano resistere anche otto giorni in un crescendo di sofferenze che, in moltissimi casi, portavano alla morte. E prima del decesso si susseguivano il delirio, brevi manifestazioni carpologiche, l’atassia motoria, l’insorgenza di piaghe e il coma. Ma le cure del medico parigino, più improvvisate che sperimentali, salvarono alcuni dei suoi pazienti meno gravi. 

Purtroppo Giacomo Aglietta da Pavignano non ebbe la fortuna di incrociare il suo destino con quello del dottor Bompard. La vita del biellese finì altrove e prima che l’intraprendente “médecin” cercasse di combattere la sua guerra contro quella “fièvre adynamique” che, invece, uccise l’Aglietta il 28 settembre 1809. Ma non fu solo quella malattia misteriosa (forse una forma particolarmente maligna di influenza, come la spagnola del 1918-1919) ad accomunare i due uomini. Ebbero entrambi a che fare con lo “Spirito del Mondo”, ovvero con Bonaparte. Giacomo “Jacques” Aglietta era nato a Pavignano il 1° aprile 1787. Quando aveva quindici anni, l’11 settembre 1802, il Regno di Sardegna in cui era nato e cresciuto era scomparso dalle mappe: il Piemonte era stato annesso alla Francia imperiale. A vent’anni il citoyen Jacques Aglietta fu arruolato. La ferma sarebbe durata cinque anni, ma lui non arrivò al congedo. Sul foglio del suo “extrait mortuaire” fu annotato che era stato inquadrato nel 2° Battaglione del 39° Reggimento di Fanteria di Linea. L’Aglietta doveva essere un tipo sveglio. Per questo motivo e per la sua giovane età che gli consentiva di muoversi rapidamente lo avevano addestrato per uno dei compiti più rischiosi. Il pavignanese era un voltigeur, un volteggiatore. Napoleone li aveva creati nel 1804 come reparto specializzato in una sorta di guerriglia di primissima linea. Portati a cavallo davanti al fronte dello schieramento, i voltigeur si ritrovavano nella terra di nessuno molto vicini al fuoco di fila nemico. Da quella posizione i volteggiatori dovevano colpire e spostarsi, impegnare la fucileria o, comunque, dare fastidio. Ma stuzzicare così gli eserciti avversari significava spesso rimetterci la pelle, eppure Giacomo Aglietta sopravvisse per due anni sotto il comando del colonnello Soyer. Quando era arrivato al battaglione, novellino e, per giunta, “straniero” (sebbene i piemontesi fossero ormai francesi a tutti gli effetti), il 39° Reggimento si stava ricompattando dopo la battaglia di Eylau. 

In caserma giravano i racconti di quanto era avvenuto quell’8 febbraio 1807, sotto una tormenta di neve nella pianura lituana a sud di Königsberg. I russi del generale Levin August von Bennigsen erano stati battuti, ma era stata dura. L’Europa cercava di scrollarsi di dosso gli invasori francesi e altre grandi battaglie attendevano la vecchia guardia e le nuove leve. Il soldato Aglietta, ripensando al Cervo, osservava il corso del fiume Passarge e l’estuario della Vistola, lungo il quale il battaglione era acquartierato. Con l’approssimarsi dell’estate la guerra riprese e il battesimo del fuoco non tardò ad arrivare. Dapprima fu Guttstadt poi Friedland. Ancora l’ondulata piana tra Lituania e Polonia, ancora von Bennigsen. Il 6° Corpo d’Armata del generale Ney resistette all’assalto russo ai primi luglio, poi la resa dei conti il 14. In entrambi i teatri delle operazioni si mosse, e si mosse bene, il 39°. Napoleone seppe girare in suo favore una situazione potenzialmente assai pericolosa per l’Impero e a fronte di meno di 4.000 morti e 9.000 feriti tra i suoi, inflisse allo zar una grave sconfitta con più di 30.000 tra caduti e prigionieri. Ne seguì la pace di Tilsit. 

Il fortunato Aglietta poté raccontare quei due scontri memorabili. Il 1808 fu un’annata buona e tranquilla, ma la primavera del 1809 portò il vento di una nuova guerra. Jacques da Pavignano combattè dal 20 al 22 maggio a Essling, nei sobborghi orientali di Vienna, dove perse la vita il generale Lannes. Poi fu nel mattatoio di Wagram tra il 5 e il 6 di luglio. A quindici chilometri a nord-est di Vienna si infransero i sogni austriaci di abbattere il Corso. Dei 300 mila uomini sul campo non meno di 80 mila persero la vita o riportarono ferite gravi. Il voltigeur Giacomo Aglietta, malgrado fosse sempre sotto tiro, scampò anche in quelle due occasioni. Dopo la più sanguinosa battaglia di tutte le campagne napoleoniche, la Francia era padrona dell’Austria e Vienna accoglieva i soldati napoleonici. Tra di loro non pochi erano quelli ammalati. In città gli ospedali tentavano di curare tanto i feriti quanto quelli che rischiavano di morire di tifo, di dissenteria, di quelle febbri più o meno strane endemiche negli eserciti di allora. Nel cuore della capitale austriaca c’era una vecchia caserma di tre piani costruita nella zona dell’antico Mercato del Grano (Getreidemarkt). Convertita in ospedale militare francese diretto dal dottor Belloy, il 25 settembre 1809 vi fu ricoverato Jacques Aglietta. Le sue condizioni erano apparse subito piuttosto gravi. Non si alzava dal letto, non si nutriva, perdeva spesso conoscenza. La sua agonia durò tre giorni. Fu sepolto nell’attiguo cimitero. Il 1° ottobre lo stesso dottor Belloy compilò il certificato di decesso che fu inoltrato al Dipartimento della Sesia. Non molto tempo dopo la madre, Margherita Bora, ricevette la triste notizia.

Danilo Craveia

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