Uberto e Agata sposi con dispensa papale a fine ‘500

Uberto e Agata sposi con dispensa papale a fine ‘500
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Non è colpa del jobs act. Le recenti riforme del mercato del lavoro, tutte mai come ora “sul pezzo”, tutte così futuristiche, futuribili e futurigene, tutte traboccanti di magnifiche sorti e progressive, stanno lasciando sul terreno anche una categoria di lavoratori di concetto piuttosto particolare, ma non si tratta di una persecuzione mirata. Anche in questo caso, infatti, la causa prima è imputabile, almeno in buona parte, alla società. I poveri travet in questione sono i genealogisti. Sì, quelli che si occupano di alberi genealogici e amenità analoghe. Non staremo certo qui a tessere le lodi della genealogia e delle sue svariate applicazioni nei più disparati ambiti della cultura e delle scienze umane (dalla medicina alla sociologia, dall’antropologia alla genetica, dalla storia tout court alla letteratura ecc.), ma un grido di dolore va comunque levato. Le difficoltà aumentano e i contratti, come i salari, scemano, ma questo è mal comune, non un’esclusiva. In verità il mestiere si complica soprattutto per il fatto che non ci sono più le certezze di una volta. Nel senso che, nel bene e nel male, non ci sono più le famiglie di una volta. Chi si interessa di questo tipo di passato rischia di avere un oggi grigio e un domani fosco, e non solo perché la cultura non dà di che sfamarsi (magari, se invece di investire nella cultura del mercato si investisse nel mercato della cultura, le cose starebbero diversamente...), ma anche perché l’evoluzione del consesso civile sta sparigliando le carte. Dal punto di vista dei genealogisti si stava meglio quando si stava peggio, come a dire che, fino a ieri l’altro, si poteva contare su alcuni solidi pilastri, per lo meno a livello documentario. Nascite, matrimoni e decessi erano formalizzati in maniera univoca, rassicurante e noiosamente standard in saecula saeculorum. C’erano un papà solo e una mamma sola (sempre stando agli atti, ma non stiamo a cavillare che tanto il test del Dna una volta non era disponibile) che avevano contratto matrimonio secondo i precetti di Santa Romana Chiesa. Di conseguenza i bambini erano figli loro senza tante varianti possibili. E anche la morte, quella era, al di là di possibili configurazioni cliniche e giuridiche, così come la fine delle spoglie dei defunti, che si inumavano e basta. Questo, si badi bene, non è un discorso né ideologico, né morale, né politico. E’ soltanto una ironica considerazione professionale, anzi un’accorata ma faceta rivendicazione pseudo-sindacale: stiamo passando dai genitori “certi” (ripeto, non diamo retta alle malelingue, che sono cose che sono sempre successe anche nelle migliori famiglie) o, al massimo, putativi a quelli biologici occasionali, locativi per filantropia, legali precari, on demand, vari ed eventuali. I bambini saranno freschi di giornata o a lunga conservazione, tra loro fratelli e/o fratellastri ad assetto variabile, figli di due mammi, di due... pape? (non c’è nemmeno ancora il termine per definire la combinazione), lisci, gassati, in tazza grande, con correzione a parte, magari con due o tre cognomi (che fa fine e non impegna, ma incasina) e molteplici luoghi di lavorazione prima della nascita. Neanche i bambini fossero bistecche, da tracciate dal foraggio mangiato dalla mucca ai piercing inguinali del macellaio che le ha affettate. Si arriverà anche ad indicare la data di concepimento, quella di congelamento, quella di scongelamento (sperando che sia una sola, che poi il surgelato patisce), quella della piantagione in utero e, infine, quella del parto. In ultimo il de cuius: data cronica e topica della morte civile (ma solo per liberi pensatori non allineati), cardiaca, cerebrale... E in caso di trapianto di organi? Quasi tutto Caio è sepolto là, ma un paio di pezzi sono ancora vivi e vegeti in Tizio, mentre l’alluce destro è stato cremato con Sempronio...

Tutto questo preambolo irriverente per dire che il mondo cambia, che la percezione della vita cambia con dolori antichi e speranze nuove, e viceversa, e che la costruzione-conservazione della memoria (ammesso che servirà a qualcosa nel tempo a venire) cambierà di conseguenza. Sarà tutto più articolato e non è detto che sia un male. I rapporti tra le persone si ricombinano per moto spontaneo ed è giusto che sia così. Non c’è regola pregressa che tenga e opporre resistenza ad oltranza è antistorico, oltre che inutile. I genealogisti ne prendano atto e si preparino ad allestire non betulle tremule bensì maestose sequoie, anche per ceppi famigliari minimi.

Tutto questo preambolo perchè ad Oropa, nel suo grande archivio che non finisce mai di stupire, mi sono imbattuto in una pergamena della fine del XVI secolo che, a fronte di quanto premesso, pare appartenere non solo a un’altra epoca, ma anche a un altro pianeta. Non è chiaro perchè quel documento si trovi lassù: si tratta di una dispensa matrimoniale per un tollegnese e una pavignanese che, di primo acchito, non pare abbiano mai avuto a che fare con il santuario, ma tant’è. In un mondo che salta barriere ataviche e apparentemente insuperabili con sempre maggior facilità, quel lembo di pelle di capra vergato dalla cancelleria del Sommo Pontefice Gregorio XIV risulta quasi commuovente. Uberto (alias Alberto) Ravetti e Agata Aglietta volevano sposarsi, ma “de uno ad alium se transferendo propter illorum angustiam virum sibi non consanguineum vel affinem paris conditionis cui nubere possit invenire nequeat. Cupiunt Ubertus et Agatha predicti invicem matrimonialiter copulari, sed quia quarto consanguineitatis gradu invicem sunt coniuncti desiderium eorum in hac parte adimplere non possunt”. Le rispettive comunità erano anguste, cioè ristrette per numero di persone, e trovare qualcuno sposabile che non fosse anche un parente era piuttosto difficile. Uberto e Agata (che la carta ci assicura essere lui un laico e lei una donna, tanto per non dare niente per scontato) si volevano bene, ma erano consanguinei in quarto grado. Non mi è chiaro se e come sia normata l’opzione oggidì nel testo di legge sulle unioni civili. Ai giorni nostri, se due cugini di secondo grado (questa era la parentela effettiva tra Uberto e Agata) vogliono convivere lo fanno senza tante cerimonie, ma sul finire del Cinquecento, in piena Controriforma e con i canoni del Concilio di Trento ormai entrati a regime, il dubbio non si poneva: la convivenza more uxorio era peccato, ossia reato. Il vincolo matrimoniale tra consanguinei poteva stabilirsi non in tutte le combinazioni e solo previa dispensa papale.

Per Uberto e Agata, verificato dai rispettivi parroci che non sussistevano altri impedimenti canonici, fu quindi inoltrata regolare istanza presso la Santa Sede. La risposta, affermativa, sta scritta su quella pergamena, datata a Roma presso San Marco, il 5 settembre 1591, nel primo (e ultimo) anno di pontificato del citato Gregorio Decimoquarto. Naturalmente non ho resistito alla tentazione di provare a compilare l’alberello genealogico dei due sposini, anche solo con i dati reperibili sui registri parrocchiali di Tollegno. Ottenuto il debito consenso, Uberto (o Alberto, ma più spesso soltanto “Berto”) e Agata convolarono a nozze, ma non a Tollegno. Forse a Biella Santo Stefano, ma più probabilmente a Pavignano come era d’uso per i matrimoni tra non compaesani: era il parroco della moglie a celebrare l’unione. Dalla coppia, tra il 1594 e il 1610 nacquero nell’ordine: Dominica, Comina, Maria, Bernardo (il primo maschio fu chiamato come il nonno paterno, ma il bambino morì in fasce) e, infine, un altro Bernardo. Quest’ultimo fu battezzato in casa per imminente pericolo di morte, ma a quanto pare se la cavò. Di quel bambino, però, si perdono le tracce. Una volta adulto lasciò Tollegno e si stabilì altrove? Ebbe figli a sua volta? Non ho potuto appurarlo. L’ultima notizia, ovviamente, riguarda una dipartita. E’ quella di “Berto” che morì a 55 anni il 20 febbraio 1622. Non conosco nessuno che non si appassioni alla ricerca genealogica. Con la prospettiva storica del “sangue del mio sangue” avvince anche i più refrattari, esalta gli indifferenti, converte all’heritage i miscredenti e inorgoglisce i (falsi) modesti. Però bisogna far presto, il tempo stringe. A breve ci saranno troppe complicazioni, troppi distinguo e troppa privacy. Senza contare che i genealogisti si stanno estinguendo, eliminati da un futuro easy and smart, ma senza i buoni vecchi latinorum.

Danilo Craveia

Non è colpa del jobs act. Le recenti riforme del mercato del lavoro, tutte mai come ora “sul pezzo”, tutte così futuristiche, futuribili e futurigene, tutte traboccanti di magnifiche sorti e progressive, stanno lasciando sul terreno anche una categoria di lavoratori di concetto piuttosto particolare, ma non si tratta di una persecuzione mirata. Anche in questo caso, infatti, la causa prima è imputabile, almeno in buona parte, alla società. I poveri travet in questione sono i genealogisti. Sì, quelli che si occupano di alberi genealogici e amenità analoghe. Non staremo certo qui a tessere le lodi della genealogia e delle sue svariate applicazioni nei più disparati ambiti della cultura e delle scienze umane (dalla medicina alla sociologia, dall’antropologia alla genetica, dalla storia tout court alla letteratura ecc.), ma un grido di dolore va comunque levato. Le difficoltà aumentano e i contratti, come i salari, scemano, ma questo è mal comune, non un’esclusiva. In verità il mestiere si complica soprattutto per il fatto che non ci sono più le certezze di una volta. Nel senso che, nel bene e nel male, non ci sono più le famiglie di una volta. Chi si interessa di questo tipo di passato rischia di avere un oggi grigio e un domani fosco, e non solo perché la cultura non dà di che sfamarsi (magari, se invece di investire nella cultura del mercato si investisse nel mercato della cultura, le cose starebbero diversamente...), ma anche perché l’evoluzione del consesso civile sta sparigliando le carte. Dal punto di vista dei genealogisti si stava meglio quando si stava peggio, come a dire che, fino a ieri l’altro, si poteva contare su alcuni solidi pilastri, per lo meno a livello documentario. Nascite, matrimoni e decessi erano formalizzati in maniera univoca, rassicurante e noiosamente standard in saecula saeculorum. C’erano un papà solo e una mamma sola (sempre stando agli atti, ma non stiamo a cavillare che tanto il test del Dna una volta non era disponibile) che avevano contratto matrimonio secondo i precetti di Santa Romana Chiesa. Di conseguenza i bambini erano figli loro senza tante varianti possibili. E anche la morte, quella era, al di là di possibili configurazioni cliniche e giuridiche, così come la fine delle spoglie dei defunti, che si inumavano e basta. Questo, si badi bene, non è un discorso né ideologico, né morale, né politico. E’ soltanto una ironica considerazione professionale, anzi un’accorata ma faceta rivendicazione pseudo-sindacale: stiamo passando dai genitori “certi” (ripeto, non diamo retta alle malelingue, che sono cose che sono sempre successe anche nelle migliori famiglie) o, al massimo, putativi a quelli biologici occasionali, locativi per filantropia, legali precari, on demand, vari ed eventuali. I bambini saranno freschi di giornata o a lunga conservazione, tra loro fratelli e/o fratellastri ad assetto variabile, figli di due mammi, di due... pape? (non c’è nemmeno ancora il termine per definire la combinazione), lisci, gassati, in tazza grande, con correzione a parte, magari con due o tre cognomi (che fa fine e non impegna, ma incasina) e molteplici luoghi di lavorazione prima della nascita. Neanche i bambini fossero bistecche, da tracciate dal foraggio mangiato dalla mucca ai piercing inguinali del macellaio che le ha affettate. Si arriverà anche ad indicare la data di concepimento, quella di congelamento, quella di scongelamento (sperando che sia una sola, che poi il surgelato patisce), quella della piantagione in utero e, infine, quella del parto. In ultimo il de cuius: data cronica e topica della morte civile (ma solo per liberi pensatori non allineati), cardiaca, cerebrale... E in caso di trapianto di organi? Quasi tutto Caio è sepolto là, ma un paio di pezzi sono ancora vivi e vegeti in Tizio, mentre l’alluce destro è stato cremato con Sempronio...

Tutto questo preambolo irriverente per dire che il mondo cambia, che la percezione della vita cambia con dolori antichi e speranze nuove, e viceversa, e che la costruzione-conservazione della memoria (ammesso che servirà a qualcosa nel tempo a venire) cambierà di conseguenza. Sarà tutto più articolato e non è detto che sia un male. I rapporti tra le persone si ricombinano per moto spontaneo ed è giusto che sia così. Non c’è regola pregressa che tenga e opporre resistenza ad oltranza è antistorico, oltre che inutile. I genealogisti ne prendano atto e si preparino ad allestire non betulle tremule bensì maestose sequoie, anche per ceppi famigliari minimi.

Tutto questo preambolo perchè ad Oropa, nel suo grande archivio che non finisce mai di stupire, mi sono imbattuto in una pergamena della fine del XVI secolo che, a fronte di quanto premesso, pare appartenere non solo a un’altra epoca, ma anche a un altro pianeta. Non è chiaro perchè quel documento si trovi lassù: si tratta di una dispensa matrimoniale per un tollegnese e una pavignanese che, di primo acchito, non pare abbiano mai avuto a che fare con il santuario, ma tant’è. In un mondo che salta barriere ataviche e apparentemente insuperabili con sempre maggior facilità, quel lembo di pelle di capra vergato dalla cancelleria del Sommo Pontefice Gregorio XIV risulta quasi commuovente. Uberto (alias Alberto) Ravetti e Agata Aglietta volevano sposarsi, ma “de uno ad alium se transferendo propter illorum angustiam virum sibi non consanguineum vel affinem paris conditionis cui nubere possit invenire nequeat. Cupiunt Ubertus et Agatha predicti invicem matrimonialiter copulari, sed quia quarto consanguineitatis gradu invicem sunt coniuncti desiderium eorum in hac parte adimplere non possunt”. Le rispettive comunità erano anguste, cioè ristrette per numero di persone, e trovare qualcuno sposabile che non fosse anche un parente era piuttosto difficile. Uberto e Agata (che la carta ci assicura essere lui un laico e lei una donna, tanto per non dare niente per scontato) si volevano bene, ma erano consanguinei in quarto grado. Non mi è chiaro se e come sia normata l’opzione oggidì nel testo di legge sulle unioni civili. Ai giorni nostri, se due cugini di secondo grado (questa era la parentela effettiva tra Uberto e Agata) vogliono convivere lo fanno senza tante cerimonie, ma sul finire del Cinquecento, in piena Controriforma e con i canoni del Concilio di Trento ormai entrati a regime, il dubbio non si poneva: la convivenza more uxorio era peccato, ossia reato. Il vincolo matrimoniale tra consanguinei poteva stabilirsi non in tutte le combinazioni e solo previa dispensa papale.

Per Uberto e Agata, verificato dai rispettivi parroci che non sussistevano altri impedimenti canonici, fu quindi inoltrata regolare istanza presso la Santa Sede. La risposta, affermativa, sta scritta su quella pergamena, datata a Roma presso San Marco, il 5 settembre 1591, nel primo (e ultimo) anno di pontificato del citato Gregorio Decimoquarto. Naturalmente non ho resistito alla tentazione di provare a compilare l’alberello genealogico dei due sposini, anche solo con i dati reperibili sui registri parrocchiali di Tollegno. Ottenuto il debito consenso, Uberto (o Alberto, ma più spesso soltanto “Berto”) e Agata convolarono a nozze, ma non a Tollegno. Forse a Biella Santo Stefano, ma più probabilmente a Pavignano come era d’uso per i matrimoni tra non compaesani: era il parroco della moglie a celebrare l’unione. Dalla coppia, tra il 1594 e il 1610 nacquero nell’ordine: Dominica, Comina, Maria, Bernardo (il primo maschio fu chiamato come il nonno paterno, ma il bambino morì in fasce) e, infine, un altro Bernardo. Quest’ultimo fu battezzato in casa per imminente pericolo di morte, ma a quanto pare se la cavò. Di quel bambino, però, si perdono le tracce. Una volta adulto lasciò Tollegno e si stabilì altrove? Ebbe figli a sua volta? Non ho potuto appurarlo. L’ultima notizia, ovviamente, riguarda una dipartita. E’ quella di “Berto” che morì a 55 anni il 20 febbraio 1622. Non conosco nessuno che non si appassioni alla ricerca genealogica. Con la prospettiva storica del “sangue del mio sangue” avvince anche i più refrattari, esalta gli indifferenti, converte all’heritage i miscredenti e inorgoglisce i (falsi) modesti. Però bisogna far presto, il tempo stringe. A breve ci saranno troppe complicazioni, troppi distinguo e troppa privacy. Senza contare che i genealogisti si stanno estinguendo, eliminati da un futuro easy and smart, ma senza i buoni vecchi latinorum.

Danilo Craveia

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