Alessandro Robecchi oggi a Biella: «I pesci piccoli li guardo negli occhi»
Il giornalista e scrittore racconterà il suo ultimo giallo alla Libreria Giovannacci.
Il giornalista e scrittore racconterà il suo ultimo giallo alla Libreria Giovannacci.
L'intervista
"Chissà se quelli che vanno a lavorare in ufficio sanno chi pulisce le loro scorie di una giornata. I cestini pieni, i mozziconi di sigaretta abbandonati schiacciati, neri, sul davanzale della finestrella accanto al distributore del caffè, le macchie per terra, lo zucchero scappato dalle bustine, il bagno lasciamo perdere”.
Poche righe bastano ad Alessandro Robecchi (nella foto) per catapultarci nella vita di Teresa, uno dei personaggi più interessanti del suo nuovo giallo, intitolato “Pesci piccoli” (Sellerio), che lo scrittore presenterà a Biella - ospite della Libreria “Giovannacci” - oggi sabato, 2 marzo, alle ore 17.30. Dialogherà con lui Luca Pasquadibisceglie. “Eco” l’ha intervistato per capire, innanzitutto, chi sono i “pesci piccoli” dei quali scrive.
Ci spiega il titolo?
«“Pesci piccoli” sono tutte quelle persone che fanno fatica ad arrivare a fine mese, a mettere insieme il pranzo con la cena - racconta Robecchi - e, mentre una volta chi viveva in situazioni di povertà erano gli sbandati, i marginali, oggi a vivere in quelle condizioni sono milioni di italiani che lavorano, dal momento che un enorme problema è il “lavoro povero”, mal pagato e di sfruttamento, che fa in modo che chi lavora non sia più garantito. Nel libro, ho declinato i pesci piccoli in vari modi: personaggi come Teresa, lavoratrice povera precaria che battaglia con gli ultimi euro a fine mese e conduce una guerra privata di sopravvivenza; poi, sono pesci piccoli i piccoli per povertà, ai quali i miei poliziotti danno la caccia, e quelli che si affidano alla credulità popolare, ai miracoli della tivù dalla lacrima facile. Certo, ho messo assieme il tutto con una trama gialla, il libro resta un noir, per parlare di chi si parla spesso in modo teorico, freddo, statistico. Io, invece, i peschi piccoli volevo guardarli dritti negli occhi».
La sua è sempre una Milano diversa, di luci e ombre?
«Per narrazione a Milano siamo tutti, modelli, designer e viviamo tutti nel Bosco Verticale, mentre si tratta di una città nella quale il darwinismo sociale è forte e premia quelli che vincono e sono l’immagine stessa della città, un’esigua minoranza come in tutto il Paese. Milano ha una forte componente impoverita, dati i prezzi assurdi, o impaurita dalla possibilità di scivolare indietro. Spaventata di non farcela. Questo contrasta con la narrazione obbligatoria di Milano sulla moda, il design e i grattacieli verticali, tutte cose che non voglio negare, ma c’è dell’altro».
E il Monterossi, alla decima pubblicazione, com’è?
«Un po’ cambiato, in dieci anni. I lettori mi dicono che è un Monterossi più malinconico, ma io non so se sono d’accordo: è malinconico perché inciampa in una storia - poi lui di suo contiene del blues - nella quale, per una volta, il suo senso di giustizia non è solo da esterno. Lui osserva di solito l’avventura in cui inciampa con il proprio dossier etico-morale; stavolta, ci entra e il suo senso di giustizia lo spinge parteggiare per qualche pesce piccolo, ciò lo destabilizza dal punto di vista affettivo. Non è solo un detective, è più coinvolto».
Teresa come nasce?
«Dalla voglia di dare un volto a questi “pesci piccoli”. E devo dire con una certa difficoltà, perché è un personaggio complicato e io non volevo correre il rischio facile del pietismo. Volevo ritrarre una donna vera con paure, timori, errori. Ho visto Teresa in una signora che, un giorno al supermercato, disse alla cassiera “si fermi a 40 euro” e due cose non ha potuto prenderle. Lì, ho visto la crisi del desiderio a partire da un bisogno primario: la scatoletta del tonno passa, la crema per il viso no. Teresa mi ha insegnato a guardare le cose e a non farsi fregare dal luogo comune o dalla statistica. Quella era un’ingiustizia».
Monterossi è diventato una serie tv. Come la vive?
«La sceneggiatura, è un altro linguaggio, un altro mestiere. La scrittura è intima, mentre per tradurre ciò che si ha scritto in altra lingua, come un film, si deve fare i conti con altri “cervelli”. Bisogna essere disposti a mettere in discussione le proprie certezze e così ho fatto. E sì, mi sono divertito: poi ammetto che, nella serie di cose che annovero, mancava. Era una tentazione irresistibile».
Giovanna Boglietti