Fuani Marino: "Sono una vecchiaccia che non ci sta"
Un suo tweet del 2020 ha scatenato polemiche sugli anziani e lei ci ha scritto un libro di successo. Lo presenterà domani al festival ContemporaneA.
Un suo tweet del 2020 ha scatenato polemiche sugli anziani e lei ci ha scritto un libro di successo. Lo presenterà domani al festival ContemporaneA.
Il festival
Aprile 2020, l’Italia è nel pieno del lockdown e la scrittrice napoletana Fuani Marino (nella foto) pubblica un tweet in cui si interroga su cosa siamo disposti a rinunciare per difendere gli over 75. Apriti cielo, polemiche, repliche indignate, accuse di egoismo e di follia radical chic. Marino, che con “Svegliami a mezzanotte” - libro in cui racconta la storia del suo tentativo di suicidio post maternità - aveva già calcato la scena dei premi letterari da protagonista l’anno precedente, accoglie quel groviglio di pensieri mettendo in moto una serie di riflessioni che si trasformano in un viaggio interiore nel proprio passato, ma anche esteriore, nella società italiana e nell’ambigua centralità che riserva agli anziani, da una parte celebrati, dall’altra marginalizzati. Nasce così il libro “Vecchiaccia” che l’autrice - che torna a Biella vent’anni dopo la storia con un ex fidanzato ingegnere all’ex Lancia - presenta in dialogo con Irene Finiguerra domani domenica alle ore 12,15 a Palazzo Ferrero.
Il volume sulle donne e la resistenza di Benedetta Tobagi è stato premiato col Campiello l’altro giorno: c’entra poco col tema, ma lei si sente una donna che resiste?
«Le donne storicamente e ancora oggi purtroppo devono resistere ad una serie di ingiustizie e soprusi. Assolutamente un libro che meritava di vincere. E sì, anche io mi sento una donna resistente, in costante battaglia».
Quel libro racconta le donne del ‘43: ormai ce ne sono pochissime in vita e se ne vanno, ma hanno vissuto un’esperienza intensa che va tutelata anche se da vecchie. Lei ha scritto “Vecchiaccia”: come le venne in mente quel tweet?
«Non ero d’accordo con le misure di gestione della pandemia: era ed è un pensiero che rivendico anche oggi. E l’ambientazione del libro è un espediente narrativo che mi ha consentito riflessioni su vecchiaia e malattia proseguendo i ragionamenti avviati con “Svegliami a mezzanotte”. Tutta la costruzione del testo è un romanzo di autofiction, con l’autore che parla di se stesso di prima persona».
C’è una tesi finale?
«Lascio aperto il ragionamento. Semplicemente illustro riflessioni attingendo da diverse fonti - letteratura, cinema, mito - e consegno al lettore una storia alla quale ognuno può dare il senso che più ritiene».
È una buona idea per lei vivere a lungo?
«No. Non sono allineata con questa tendenza, favorita dalle migliori condizioni, dalla ricerca scientifica, dalla geriatria. Si tende a credere che allungare la vita sia un bene. Ma spesso ciò si traduce in un’esistenza molto sacrificata per sè e che ricade sui famigliari. Una riflessione che andrebbe fatta ai livelli politico e medico senza farsi prendere dai pietismi, come ad esempio quelli del retaggio di tipo cattolico che vede la vita in ogni caso come un dono. Io non sono di questa scuola. Penso che in alcuni casi può essere un dono e in altri qualcosa di molto diverso».
Solo sofferenza? Lei introduce i temi del fine vita e del libero arbitrio: una faccia della stessa medaglia?
«Purtroppo in Italia manca una legislazione chiara e sarebbe ora che ci fosse la possibilità che chi lo vuole ed è in situazione di malattia e di difficoltà possa interrompere la propria esistenza».
E comunque parlare di vecchiaia e di morte non è certo tema popolare, ma è di grande attualità, soprattutto a Biella dove la popolazione è fra le più anziane d’Italia.
«Diciamo che è impopolare perché la morte e la vecchiaia, che è la sua anticamera, sono argomenti considerati disdicevoli. Anche il nostro linguaggio amputa la realtà: si dice anziano e non vecchio. La vecchiaia ha abdicato a se stessa, con conseguenze serie per le altre generazioni, quelle successive spesso penalizzate. Oggi, con l’allungamento dell’età, c’è la coabitazione fra più generazioni. Quando ero piccola raggiungere gli 80 anni era un traguardo soddisfacente. Ora il progresso ci porta ad altri traguardi molto più accidentati. E’ un tema caldo».
Il pendio della decadenza è fatto di tante condizioni: tristezza, malinconia, malattia, saggezza. Come preservare quelle buone e rigettare le altre?
«Serve misura. Cogliere l’eredità spirituale e di conoscenza è un bene, ma è necessaria una chiarezza di ruoli. La vecchiaia è accettabile finché resta tale. Nel momento in cui si corre ad inseguire una giovinezza che non le appartiene diventa una situazione più complicata per la persona e per chi le è vicina».
Il tema delle demenze, dell’alzheimer e di altre patologie degenerative è sempre più all’ordine del giorno...
«La geriatria ha pane per i suoi denti: sono troppo spesso situazioni penose».
C’è anche un tema di economia: gli anziani detengono il patrimonio, mentre le generazioni più giovani sono prive di patrimonio e, a differenza del dopoguerra, anche di molte speranze di futuro: come connettere vecchi e giovani?
«I baby boomer del dopoguerra hanno cavalcato un futuro di crescita che per le generazioni di oggi non c’è. Per questo sarebbe utile una distribuzione delle risorse più equa e soprattutto quando serve. La generazione che detiene la ricchezza molte volte non è disposta a cedere. E’ qui che si crea un conflitto fra generazioni che invece dovrebbero dialogare perché si trovano sulla scena per un tempo che diventa sempre più lungo».
Norberto Bobbio diceva che il patrimonio dei vecchi sono i ricordi perché si nutrono della dimensione del passato e perché il futuro sarà troppo breve: è d’accordo?
«La vecchiaia dovrebbe essere una stagione di vita contemplativa più che attiva. E il futuro può essere rappresentato da figli e nipoti, almeno per chi li ha».
Un altro scrittore, Mario Baudino, scrive che la vera opera d’arte da realizzare nella vita è proprio la nostra vecchiaia: condivide?
«In parte lo diceva anche il filosofo e psicoanalista James Hillman, che ne “La forza del carattere” tratta della vecchiaia “come qualità dell'essere”. Per lui era una missione da compiere per realizzare a pieno il proprio carattere. Non dunque una diminutio, ma una strada da perseguire. In parte è vero, si acquisiscono conoscenze ed esperienze guida, ma se accompagnate da un atteggiamento di ascolto per chi e quel che viene dopo».
Malattia, guarigione, speranza: come le ha coniugate?
«Prima di tutto, invece del concetto di guarigione parlerei della possibilità di stare meglio...».
Cioè convivere con la malattia?
«Sì, in una condizione che può essere la malattia cronica, la vecchiaia, o - come nel mio caso - con un disturbo che mi ha fatto sentire più vecchia di quello che l’anagrafe certifica. Del resto la vecchiaccia del libro sarei io. Credo molto nelle possibilità della scienza di fornire aiuti che consentono di convivere degnamente».
C’è un nuovo libro in arrivo?
«Sì, sono all’inizio di un nuovo progetto che avrà una diversa forma narrativa rispetto al passato. Ma è presto per dire di più».
Roberto Azzoni