Monica Acito a #fuoriluogo: "Uvaspina, nato per essere spremuto"
L'autrice, in occasione del festival letterario, presenterà il libro domani - domenica 3 settembre - alle ore 15, alla Biblioteca civica di Biella.
L'autrice, in occasione del festival letterario, presenterà il libro domani - domenica 3 settembre - alle ore 15, alla Biblioteca civica di Biella.
L'intervista
Uvaspina aveva tredici anni quando capì una volta per tutte che sua sorella era uno strummolo. Tutto in Minuccia era movimento e rotazione, come un giocattolo di legno: quando i suoi occhi diventavano opachi come la polvere del vico Belledonne, allora Uvaspina capiva che lo strummolo si era incantato.
Quando Minuccia si inceppava non bastava tirare lo spago o la cordicella perché, proprio come lo strummolo, lei iniziava a girare all’impazzata, e nella sua traiettoria diventava un asso pigliatutto, faceva il gioco della scopa d’assi e della smorfia. Tutto si pigliava, Minuccia bella, quando si incantava (...)”.
Non c’è Carmine senza la sorella, nel tuffo che Monica Acito compie trascinando con sé il lettore, nella vita del protagonista di “Uvaspina” (Bompiani), il romanzo che ne ha sancito il potente esordio.
L’incontro
L’autrice, in occasione del festival letterario “#fuoriluogo”, presenterà il libro domenica - 3 settembre - alle ore 15, alla Biblioteca civica di Biella. Qui, racconta a “Eco di Biella” com’è nata la figura di colui che viene soprannominato Uvaspina, «nato con una voglia sotto l’occhio sinistro, come un pallido frutto incastonato nella pelle». E per farlo occorre tornare indietro nel tempo, all’infanzia di Monica Acito: «Il primo baluginio - ricorda l’insegnante napoletana, classe 1993 - risale a quando avevo nove anni. Da piccola, ero ossessionata dalla scrittura e dalle borse aperte, dove trovavo i pacchetti di sigarette. Ecco, una volta poco prima del catechismo, presi una sigaretta e andai sotto una rupe a fumare. Fumare senza aspirare, tanto che mi venne una tosse secca che non passava. Un giorno mio padre, quasi per prendermi in giro, mi assicurò: “Te la faccio passare io” e mi portò da una vecchierella del rione Sanità, in un antro simile a quello della Sibilla. La vecchierella mi diede un decotto fatto con l’uvaspina, che non conoscevo in quanto non è un frutto mediterraneo. Spremuta per fare sciroppi con lo scopo di far stare meglio gli altri, l’uvaspina negli anni è rimasta un pensiero parassitario, che mi induceva a pensare che certe persone esistono per essere spremute, proprio per salvare qualcun altro. Il ragazzo del mio romanzo è così».
E Uvaspina, il femminiello come viene canzonato per la sua omosessualità, sopporta. Il lettore segue il suo stare e crescere nel mondo, tra la sorella Minuccia e il loro «rapporto morboso ed erotico nella sua accezione non incestuosa» e la madre Graziella la Spaiata, finché non lo abbaglia un raggio di luce: «Antonio, il pescatore che Uvaspina incontra, rappresenta in maniera quasi rituale la malìa, la malizia narrativa, di Napoli, città che riesce a svezzarsi con la sua malizia, sia paesaggistica che di storie. Antonio offre a Uvaspina un serbatoio di leggende arcaiche che gli racconta in una specie di iniziazione sessuale che è anche emotiva, letteraria e umana. Antonio lo aiuta così a diventare se stesso. E non importa cosa accadrà dopo, succede anche a noi: lo sguardo di una persona rimane e diventa un piccolo spillo, per tutti noi, quando qualcuno finalmente ti vede».
E se Minuccia si è rivelata una figura capace di «sgusciarmi dalle mani, tirannica, mi ha molto fagocitata», il punto debole di Monica Acito è la Spaiata, la loro madre, colei che muore «tutti i mercoledì sera». Lei, con quel suo spirito di chi «faceva la chiagnazzara, rappresenta la volgarità e la sguaiataggine di Napoli, in quella disperazione pazzesca che è anche in me».
Le atmosfere, lo spirito, la lingua di Acito diventano viscerali come i suoi personaggi, proprio in quella Napoli, dura e insieme affascinante, che si fa archetipo dalle ricadute dirette sui corpi degli stessi personaggi. C’è un nucleo che le appartiene, nel suo rapporto «diretto e onesto» con la città che, sottolinea, ha cercato di liberare dalla patina di romanticizzazione dei suoi aspetti negativi: «Aspetti mostruosi hanno sempre dentro un prodigio». Non passa inosservata l’eredità che tanto deve a Domenico Rea, uno dei suoi autori di riferimento. E alla fine? «Ho provato molti finali coerenti con la mia idea di letteratura, che credo debba far sorgere più domande, piuttosto che fornire risposte ferree. Ho scelto il più fedele». Si legga, allora: il dubbio sta lì. Lenisce e cura come un decotto, nel segno di un destino che «è lo stesso dalla notte dei tempi».
G.B.