«Sempre più parole d’odio: non possiamo stare a guardare»
Parla Claudia Bianchi, che oggi - sabato 19 novembre - a Città Studi riceverà il Premio Biella Letteratura e Industria 2022.
Parla Claudia Bianchi, che oggi - sabato 19 novembre - a Città Studi riceverà il Premio Biella Letteratura e Industria 2022.
L'intervista
Professoressa Bianchi con il suo saggio “Hate speech, il lato oscuro del linguaggio” ha vinto un premio letterario ormai consolidato: se lo aspettava?
«In tutta sincerità non me l’aspettavo, è stata una bellissima sorpresa».
La filosofa del linguaggio sabato a Città Studi riceverà il 21° premio Biella Letteratura per il suo saggio sulla parola e le parole che affronta in lungo e in largo il tema della comunicazione fra le persone inquinata oggi più di ieri da un lato oscuro. La professoressa Bianchi qui risponde alle nostre domande.
Fra i temi molto attuali - cambiamento climatico, logistica, merito e parola - la giuria ha scelto di premiare un’indagine sul linguaggio, forse il tema più delicato e di minor impatto nel far passare i contenuti nel pubblico più vasto: una decisione sicuramente non facile. Non crede?
«C’è effettivamente la tendenza a pensare che le questioni di linguaggio siano questioni di dettaglio, soprattutto su temi come la discriminazione e l’ingiustizia, in cui i fattori sociali, politici ed economici sembrano essere quelli che più contano. Eppure è con il linguaggio che costruiamo e gestiamo le nostre relazioni sociali, che plasmiamo e influenziamo le scelte economiche, che normalizziamo e legittimiamo le decisioni politiche e quelle che riguardano i diritti di tutti e di tutte».
Come mai ha deciso di affrontare in un saggio il lato oscuro del linguaggio?
«Insegno da anni Filosofia del linguaggio alla Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele. Negli ultimi tempi ho cominciato ad occuparmi di quella che viene chiamata Filosofia sociale del linguaggio: mi occupo cioè di come le nostre parole contribuiscano all’oppressione e all’ingiustizia sociale - di come il linguaggio sia uno dei luoghi cruciali di esercizio del potere, che a volte è esercizio violento del potere. Di come, appunto, il linguaggio abbia un lato oscuro».
Ha usato nella scansione del saggio e nei quattro capitoli principali il prologo letterario, affidando alle parole scritte da autori famosi il compito di aprire i ragionamenti che poi ha sviluppato: perché?
«Perché non c’è modo più incisivo di convincere del potere delle parole che mostrarle all’opera, mostrare come per alcuni individui possano essere efficaci strumenti di controllo e trasformazione della realtà, e di oppressione degli altri».
L’opera - dice la presentazione del suo editore Laterza - indaga una delle declinazioni più attuali del tema della violenza: quello che è diventato comune chiamare hate speech (“linguaggio d'odio' o 'discorso d'odio”), ossia l'insieme di espressioni e frasi che comunicano derisione, disprezzo e ostilità verso gruppi sociali e verso individui in virtù della loro mera appartenenza a un gruppo. E l’uso di tale linguaggio soprattutto da parte di coloro che rivestono posizioni di autorità nel mondo del lavoro o cariche istituzionali, fa della parola un’arma distruttrice, uno strumento di controllo e di potere. Questa modalità si è estesa in modo così prepotente oggi o è sempre stato così?
«Lo hate speech non è certo nato in tempi recenti, ma negli ultimi vent’anni si è amplificato soprattutto grazie all’espansione della rete e dei social media, che hanno introdotto o enfatizzato caratteristiche del linguaggio d’odio che lo rendono particolarmente virale e devastante. In rete i contenuti tossici sono rivolti ai bersagli diretti dell’odio (individui e gruppi sociali oggetto di denigrazione) ma anche espressi a beneficio del proprio gruppo di appartenenza, come modi per posizionarsi ideologicamente e per invitare altri a condividere una certa prospettiva sul mondo sociale».
La parola distingue gli esseri umani dalle altre specie: è un vantaggio evolutivo unico, quasi una tecnologia antelitteram, un “veicolo” che consente di raggiungere immediatamente il bersaglio. Come per Omero che indicando le “parole alate” insisteva sulla garanzia della traiettoria. Non abbiamo fatto buon uso di questa dote?
«Ne abbiamo fatto spesso un pessimo uso. Come Shakespeare fa dire a Calibano nella Tempesta: “Mi avete insegnato a parlare come voi: e quel che ho guadagnato è questo: ora so maledire”. Impariamo a parlare e con ciò stesso impariamo a fare del male con le parole».
Ci sono le parole di speranza, quelle che curano, e quelle che appunto fanno male, che producono odio, tossiche, che fanno danni: la scelta delle parole è dunque fondamentale affinché siano “generative”. Come fare per invertire la tendenza amplificata dall’uso dei social?
«È senz’altro necessaria un’educazione a un uso responsabile dei mezzi di comunicazione e di socializzazione in rete. Un’educazione per ragazzi e ragazze, ma anche per noi adulti, che spesso fatichiamo ad adattare il nostro comportamento comunicativo alle particolari caratteristiche dei social media».
Il voto recente in USA per le elezioni di medio termine ha in una qualche maniera bocciato il linguaggio dell’odio, una pericolosa scorciatoia per ottenere il consenso: è d’accordo con questa interpretazione?
«Le elezioni negli Stati Uniti hanno segnato la sconfitta, almeno temporanea, di un certo modo di fare politica che aveva premiato Trump solo qualche anno fa. Per molti osservatori i risultati elettorali sono stati la dimostrazione dell’esistenza di anticorpi nella società americana: mi piacerebbe essere così ottimista…».
In Italia Nazione, Patria, Famiglia, Confini sono parole che oggi fanno parte del lessico di governo e che indicano una traiettoria identitaria. Sono parole pericolose per i loro richiami, o no?
«Queste sono parole di per sé neutre che però fanno eco a loro usi di un passato non così lontano - sono modi di affermare una particolare identità culturale, sociale e politica, strumenti con cui si sceglie di affiliarsi a un gruppo, alle loro credenze, ma anche alle loro azioni».
Veniamo alla scuola. Oggi è stato istituito il Ministero dell’Istruzione e del Merito. Se è vero che chi si impegna di più e ha più doti ha il diritto di andare avanti, non è men vero che l’istruzione è un diritto costituzionale. C’è il rischio di una caduta rovinosa e che con due parole si cancelli questo diritto?
«Di per sé non c’è nulla di male a promuovere il merito. Naturalmente premiare il merito ha senso solo se contemporaneamente si mettono in atto politiche che assicurano a tutte e tutti pari opportunità, l’uguaglianza dei punti di partenza. Un diritto garantito dall’articolo 3 della nostra Costituzione».
Lei dice anche che il silenzio, di fronte alle parole d’odio, ci rende complici: dunque bisogna sempre intervenire?
«Il silenzio e l’indifferenza o la superficialità con cui accogliamo le parole d’odio di altri corre il rischio di trasformarsi in consenso, approvazione e legittimazione e muta noi in complici e conniventi. Come scriveva il filosofo britannico John Stuart Mill: “Perché i malvagi raggiungano i loro scopi, non c’è bisogno d’altro se non che i buoni rimangano a guardare senza far nulla”. Certo a volte l’intervento rischia di attirare su di noi la violenza e l’odio degli haters, il che naturalmente limita il nostro dovere di intervenire».
Qual è il compito dei filosofi a questo proposito oggi: intervenire, spiegare, educare?
«Reagire al linguaggio d’odio non è semplice perché non sempre i contenuti discriminatori prendono la forma di affermazioni esplicite, aperte alla vista e facili da identificare e contrastare. I discorsi d’odio assumono spesso le sembianze ingannevoli di affermazioni implicite, insinuazioni, presupposizioni, che si insinuano nelle nostre conversazioni e si presentano come conoscenza comune e scontata, ragionevole e accettata da tutti. E allora è innanzitutto necessario esplicitare i contenuti tossici, farli affiorare e uscire allo scoperto, per poi criticarli e contrastarli. Il compito di chi fa filosofia, e soprattutto filosofia del linguaggio, è fornire gli strumenti per identificare, esplicitare e contrastare i contenuti dannosi».
Per finire, “badare a come si parla” mi pare sia la lezione che matura con la lettura del suo saggio. Ha qualche suggerimento in proposito?
«Un altro filosofo britannico, John Austin, diceva che con le parole facciamo cose. Ecco, il mio suggerimento è quello di tenere sempre a mente che le nostre parole non sono solo parole, ma sono azioni, che hanno conseguenze e possono provocare danno».
Roberto Azzoni