Enea Negro chiude e con lei se ne vanno 100 anni di commercio

Ha fatto notizia in questi giorni l’annuncio della prossima chiusura della casa di riposo “Domus Tua” di Tollegno. Compirà mezzo secolo tra due settimane e poi, con la fine dell’anno, lo stabile non accoglierà più gli anziani del paese né quelli di altre comunità. Avremo modo, forse, di tornare sul tema, ma oggi è di un’altra storia che vorrei scrivere. Un’altra storia arrivata alla fine, ma in tutt’altra forma, in maniera naturale e serena. Eppure il termine di una realtà abituale, il cambio di stato dovuto alla cessazione di un elemento noto del nostro “paesaggio mentale” crea sempre un vuoto. Una tessera del mosaico che ci siamo costruiti intorno con l’abitudine e la frequentazione si perde e l’immagine di fondo delle nostre vite diventa subito discontinua. Manca qualcosa. Anche se non si tratta del nostro ambito domestico, anche se non ci troviamo di fronte alla perdita di un pezzo della nostra cerchia più stretta di amicizia o di parentela, certe sottrazioni producono sempre un po’ di smarrimento. Sono punti fermi che, in un istante, fermi non sono più e dopo tanto tempo, durante il quale quelle situazioni sono apparse inamovibili, ecco il mutamento. Quel mutamento ci invita a pensare che il cambiamento, come insegna il maestro Pistoletto, è davvero inevitabile, ma non è detto che ci piaccia o che sia sempre e comunque positivo.
A Tollegno, nel punto dove piazza San Rocco diventa via Oberdan, davanti alla pizzeria che ormai è diventata un’altra presenza forte di queste parti (il cambio, a volte e per fortuna, è anche ricambio), tre serrande fino a pochi giorni fa sempre alzate, adesso sono abbassate. Dietro le due vetrine, oltre la porta, c’era il negozio lindo e ordinatissimo di Enea Negro. Un piccolo grande emporio, uno di quei posti dove in pochi metri quadrati si poteva trovare di tutto. Specialmente, merce ormai rara, due chiacchiere alla buona, tra tre pagnotte, un litro di latte, un etto di prosciutto. E scambiare, adesso, qualche parola con Enea, classe 1945, è come riavvolgere il nastro della storia recente del paese. Lei che è stata una testimone costante e privilegiata di un mondo che si è evoluto davanti ai suoi occhi, oltre il bancone, tra gli scaffali del suo esercizio. «Posso dire di aver raggiunto anche io, come mia madre Rita, i sessant’anni di attività nel commercio. Lei aveva iniziato nel 1926, a tredici anni, io nel 1956, a undici, anche se sono stata regolarizzata solo verso il 1970». Enea parte da lontano, da un passato che non è neppure il suo, ma quello dei genitori, dei nonni e oltre. C’era il “barba” Antoniotti che, dopo la prematura scomparsa del nonno materno, Giovanni Battista Cinguino, aveva di fatto adottato la pronipote Lucia, nata nel 1909. Giacomo Antoniotti possedeva la vecchia trattoria della Posta al cantone del Pozzo, sulla piazza San Rocco. Proprio verso il 1909 l’esercizio si era spostato nell’attuale in via Oberdan con i commestibili, la “censa” del tabacco, la stazione postale, il telefono pubblico, la rivendita dei monopoli di Stato e l’osteria. «Mia madre Rita, nata nel 1913, affiancò sua sorella Lucia dal 1926 e fu lei a rilevare il negozio quando, nel 1952, mia zia tornò nel vecchio caseggiato per riaprire il bar ristorante della Posta. Poco dopo sarei andata anche io a dare una mano, malgrado fossi così piccola che dovettero costruire uno sgabello per farmi arrivare al banco». Il padre di Enea, Serafino Negro, faceva il manovratore nelle Ferrovie Elettriche Biellesi. «Fino al 1958, quando le linee furono soppresse e mio papà fu assunto all’Atap». La storia dell’osteria che ospitò la sede del distaccamento tedesco di Tollegno è già nota, come anche che lo stesso stabile offriva un sicuro luogo di ritrovo per i partigiani tollegnesi. «Sembra assurdo, ma le cose stavano proprio così. In famiglia circolano molti aneddoti sulla permanenza dei tre soldati germanici e di come i membri della Resistenza, ovviamente senza che i tre “occupanti” lo sapessero, si radunavano due piani sopra le loro teste. O forse lo sapevano e andava bene così. Quei tedeschi erano brave persone e tutti ne conservano un ricordo buono, di gente come si deve che aveva solo voglia di tornare a casa. Mio fratello Nevio era diventato una sorta di mascotte e mangiava spesso la loro cioccolata». Al pian terreno si trovava l’osteria e, lungo il corridoio che porta ancora oggi al cortile interno, erano dislocati quello che doveva essere un “ufficio postale” e il posto telefonico. «I tedeschi, ma anche i repubblichini e tutti in paese fino a quando non misero gli apparecchi nelle case, utilizzavano quel telefono. Spesso si doveva correre a chiamare qualche compaesano che riceveva una telefonata. E mia zia Lucia faceva anche la postina consegnando in bicicletta le lettere ai destinatari». Enea è diventata la titolare nel 1986 e ha sempre mantenuto lo stile appreso da chi era lì prima di lei. La disposizione dei barattoli e delle confezioni sui ripiani è proverbiale, così come la cura e la creatività delle vetrine. «Ho ricevuto dei riconoscimenti per le mie vetrine. Una volta fu la Agnesi, la celebre azienda che produce pasta a Imperia, a conferirmi addirittura un diploma per come avevo allestito la vetrina con i loro prodotti». La porta che dà sul selciato della via deve essere stata aperta e varcata miliardi di volte, con qualsiasi tempo, a qualsiasi ora, nei pomeriggi estivi con il sole che brucia la piazzetta e con la neve a terra, quando alle quattro del pomeriggio è già buio. Ci sono stati periodi in cui l’unica luce che illuminava la strada era quella del negozio di Enea ed era a suo modo un messaggio rassicurante, una specie di faro, un segno di vita. A dire il vero le luci si potevano vedere accese anche di notte perché per tenere tutto quanto pulito e in perfetto ordine era necessario fare tardi. «Ho conosciuto bene o anche solo incontrato molte persone e dalla mia parte del banco ho potuto capire tante cose. Alcune sono cambiate, altre meno. Mi ricordo di come molti avessero la necessità di “segnare” sul libretto i loro piccoli o grandi debiti e non tutti ebbero la correttezza di saldarli. Era un rischio che correva mia mamma e che ho corso anche io. Ma che cosa si poteva fare? C’era chi era davvero in difficoltà e quel modo di agire era normale, per cercare di aiutarsi a vicenda».
Come avveniva e avviene in altre situazioni analoghe, anche Enea ha potuto contare su clienti più che affezionati. Quelli che tutte le mattine si vedevano posizionati presso le serrande già molto prima che si alzassero, quelli che andavano sempre alla stessa ora prenotando questo o quello, quelli che sapevano di poter trovare un certo solito gusto che altrove, a parità di prodotto, non avrebbe avuto lo stesso sapore, quelli che si precipitavano all’ultimo minuto e non rimanevano delusi. «Molti clienti li abbiamo conquistati e io li ho poi conservati con la gastronomia. Altri negozi non l’avevano e c’era chi comprava il pane alla Cooperativa, poi passava da qui per qualcosa di speciale, soprattutto sotto le feste. Lo stesso discorso vale per la pasticceria fresca. Oggi è tutto diverso e un po’ dato per scontato, ma allora, fino a qualche anno fa, certe comodità e certi servizi non c’erano. La gente si abitua in fretta e dimentica subito come si stava prima». Il valore del “negozietto sotto casa” sta nel suo contribuire a costruire e a mantenere la comunità. E’ un presidio da difendere, un sito di aggregazione che va molto al di là del semplice servizio di approvvigionamento alimentare, di drogheria, di generi di vario tipo. Non si tratta solo di far sì che coloro che più difficilmente si spostano siano messi in grado di fare la spesa. Attorno e nei grandi esercizi commerciali, in città e in periferia, si svela un “non luogo” popolato di solitudini ammassate, una specie di grande stalla di mungitura del consumatore che prelude alla macellazione delle origini e delle radici di ognuno di noi.Danilo Craveia
Ha fatto notizia in questi giorni l’annuncio della prossima chiusura della casa di riposo “Domus Tua” di Tollegno. Compirà mezzo secolo tra due settimane e poi, con la fine dell’anno, lo stabile non accoglierà più gli anziani del paese né quelli di altre comunità. Avremo modo, forse, di tornare sul tema, ma oggi è di un’altra storia che vorrei scrivere. Un’altra storia arrivata alla fine, ma in tutt’altra forma, in maniera naturale e serena. Eppure il termine di una realtà abituale, il cambio di stato dovuto alla cessazione di un elemento noto del nostro “paesaggio mentale” crea sempre un vuoto. Una tessera del mosaico che ci siamo costruiti intorno con l’abitudine e la frequentazione si perde e l’immagine di fondo delle nostre vite diventa subito discontinua. Manca qualcosa. Anche se non si tratta del nostro ambito domestico, anche se non ci troviamo di fronte alla perdita di un pezzo della nostra cerchia più stretta di amicizia o di parentela, certe sottrazioni producono sempre un po’ di smarrimento. Sono punti fermi che, in un istante, fermi non sono più e dopo tanto tempo, durante il quale quelle situazioni sono apparse inamovibili, ecco il mutamento. Quel mutamento ci invita a pensare che il cambiamento, come insegna il maestro Pistoletto, è davvero inevitabile, ma non è detto che ci piaccia o che sia sempre e comunque positivo.
A Tollegno, nel punto dove piazza San Rocco diventa via Oberdan, davanti alla pizzeria che ormai è diventata un’altra presenza forte di queste parti (il cambio, a volte e per fortuna, è anche ricambio), tre serrande fino a pochi giorni fa sempre alzate, adesso sono abbassate. Dietro le due vetrine, oltre la porta, c’era il negozio lindo e ordinatissimo di Enea Negro. Un piccolo grande emporio, uno di quei posti dove in pochi metri quadrati si poteva trovare di tutto. Specialmente, merce ormai rara, due chiacchiere alla buona, tra tre pagnotte, un litro di latte, un etto di prosciutto. E scambiare, adesso, qualche parola con Enea, classe 1945, è come riavvolgere il nastro della storia recente del paese. Lei che è stata una testimone costante e privilegiata di un mondo che si è evoluto davanti ai suoi occhi, oltre il bancone, tra gli scaffali del suo esercizio. «Posso dire di aver raggiunto anche io, come mia madre Rita, i sessant’anni di attività nel commercio. Lei aveva iniziato nel 1926, a tredici anni, io nel 1956, a undici, anche se sono stata regolarizzata solo verso il 1970». Enea parte da lontano, da un passato che non è neppure il suo, ma quello dei genitori, dei nonni e oltre. C’era il “barba” Antoniotti che, dopo la prematura scomparsa del nonno materno, Giovanni Battista Cinguino, aveva di fatto adottato la pronipote Lucia, nata nel 1909. Giacomo Antoniotti possedeva la vecchia trattoria della Posta al cantone del Pozzo, sulla piazza San Rocco. Proprio verso il 1909 l’esercizio si era spostato nell’attuale in via Oberdan con i commestibili, la “censa” del tabacco, la stazione postale, il telefono pubblico, la rivendita dei monopoli di Stato e l’osteria. «Mia madre Rita, nata nel 1913, affiancò sua sorella Lucia dal 1926 e fu lei a rilevare il negozio quando, nel 1952, mia zia tornò nel vecchio caseggiato per riaprire il bar ristorante della Posta. Poco dopo sarei andata anche io a dare una mano, malgrado fossi così piccola che dovettero costruire uno sgabello per farmi arrivare al banco». Il padre di Enea, Serafino Negro, faceva il manovratore nelle Ferrovie Elettriche Biellesi. «Fino al 1958, quando le linee furono soppresse e mio papà fu assunto all’Atap». La storia dell’osteria che ospitò la sede del distaccamento tedesco di Tollegno è già nota, come anche che lo stesso stabile offriva un sicuro luogo di ritrovo per i partigiani tollegnesi. «Sembra assurdo, ma le cose stavano proprio così. In famiglia circolano molti aneddoti sulla permanenza dei tre soldati germanici e di come i membri della Resistenza, ovviamente senza che i tre “occupanti” lo sapessero, si radunavano due piani sopra le loro teste. O forse lo sapevano e andava bene così. Quei tedeschi erano brave persone e tutti ne conservano un ricordo buono, di gente come si deve che aveva solo voglia di tornare a casa. Mio fratello Nevio era diventato una sorta di mascotte e mangiava spesso la loro cioccolata». Al pian terreno si trovava l’osteria e, lungo il corridoio che porta ancora oggi al cortile interno, erano dislocati quello che doveva essere un “ufficio postale” e il posto telefonico. «I tedeschi, ma anche i repubblichini e tutti in paese fino a quando non misero gli apparecchi nelle case, utilizzavano quel telefono. Spesso si doveva correre a chiamare qualche compaesano che riceveva una telefonata. E mia zia Lucia faceva anche la postina consegnando in bicicletta le lettere ai destinatari». Enea è diventata la titolare nel 1986 e ha sempre mantenuto lo stile appreso da chi era lì prima di lei. La disposizione dei barattoli e delle confezioni sui ripiani è proverbiale, così come la cura e la creatività delle vetrine. «Ho ricevuto dei riconoscimenti per le mie vetrine. Una volta fu la Agnesi, la celebre azienda che produce pasta a Imperia, a conferirmi addirittura un diploma per come avevo allestito la vetrina con i loro prodotti». La porta che dà sul selciato della via deve essere stata aperta e varcata miliardi di volte, con qualsiasi tempo, a qualsiasi ora, nei pomeriggi estivi con il sole che brucia la piazzetta e con la neve a terra, quando alle quattro del pomeriggio è già buio. Ci sono stati periodi in cui l’unica luce che illuminava la strada era quella del negozio di Enea ed era a suo modo un messaggio rassicurante, una specie di faro, un segno di vita. A dire il vero le luci si potevano vedere accese anche di notte perché per tenere tutto quanto pulito e in perfetto ordine era necessario fare tardi. «Ho conosciuto bene o anche solo incontrato molte persone e dalla mia parte del banco ho potuto capire tante cose. Alcune sono cambiate, altre meno. Mi ricordo di come molti avessero la necessità di “segnare” sul libretto i loro piccoli o grandi debiti e non tutti ebbero la correttezza di saldarli. Era un rischio che correva mia mamma e che ho corso anche io. Ma che cosa si poteva fare? C’era chi era davvero in difficoltà e quel modo di agire era normale, per cercare di aiutarsi a vicenda».
Come avveniva e avviene in altre situazioni analoghe, anche Enea ha potuto contare su clienti più che affezionati. Quelli che tutte le mattine si vedevano posizionati presso le serrande già molto prima che si alzassero, quelli che andavano sempre alla stessa ora prenotando questo o quello, quelli che sapevano di poter trovare un certo solito gusto che altrove, a parità di prodotto, non avrebbe avuto lo stesso sapore, quelli che si precipitavano all’ultimo minuto e non rimanevano delusi. «Molti clienti li abbiamo conquistati e io li ho poi conservati con la gastronomia. Altri negozi non l’avevano e c’era chi comprava il pane alla Cooperativa, poi passava da qui per qualcosa di speciale, soprattutto sotto le feste. Lo stesso discorso vale per la pasticceria fresca. Oggi è tutto diverso e un po’ dato per scontato, ma allora, fino a qualche anno fa, certe comodità e certi servizi non c’erano. La gente si abitua in fretta e dimentica subito come si stava prima». Il valore del “negozietto sotto casa” sta nel suo contribuire a costruire e a mantenere la comunità. E’ un presidio da difendere, un sito di aggregazione che va molto al di là del semplice servizio di approvvigionamento alimentare, di drogheria, di generi di vario tipo. Non si tratta solo di far sì che coloro che più difficilmente si spostano siano messi in grado di fare la spesa. Attorno e nei grandi esercizi commerciali, in città e in periferia, si svela un “non luogo” popolato di solitudini ammassate, una specie di grande stalla di mungitura del consumatore che prelude alla macellazione delle origini e delle radici di ognuno di noi.Danilo Craveia